T6 - La figuraccia di Sacripante

T6

La figuraccia di Sacripante

Orlando furioso, canto I, ott. 33-71

In fuga da Rinaldo e Ferraù, Angelica può finalmente riposarsi nel folto di un cespuglio, fin quando avverte la presenza di un uomo. È Sacripante, re di Circassia, temibile guerriero saraceno, anch’egli innamorato di lei.


Metro Ottave di endecasillabi con schema di rime ABABABCC.

33

Fugge tra selve spaventose e scure,

per lochi inabitati, ermi e selvaggi.

Il mover de le frondi e di verzure,

che di cerri sentia, d’olmi e di faggi,

5      fatto le avea con subite paure

trovar di qua di là strani viaggi;

ch’ad ogni ombra veduta o in monte o in valle,

temea Rinaldo aver sempre alle spalle.


34

Qual pargoletta o damma o capriuola,

10    che tra le fronde del natio boschetto

alla madre veduta abbia la gola

stringer dal pardo, o aprirle ’l fianco o ’l petto,

di selva in selva dal crudel s’invola,

e di paura triema e di sospetto:

15    ad ogni sterpo che passando tocca,

esser si crede all’empia fera in bocca.


35

Quel dì e la notte e mezzo l’altro giorno

s’andò aggirando, e non sapeva dove.

Trovossi al fin in un boschetto adorno,

20    che lievemente la fresca aura muove.

Duo chiari rivi, mormorando intorno,

sempre l’erbe vi fan tenere e nuove;

e rendea ad ascoltar dolce concento,

rotto tra picciol sassi, il correr lento.


36

25    Quivi parendo a lei d’esser sicura

e lontana a Rinaldo mille miglia,

da la via stanca e da l’estiva arsura,

di riposare alquanto si consiglia:

tra’ fiori smonta, e lascia alla pastura

30    andare il palafren senza la  briglia;

e quel va errando intorno alle chiare onde,

che di fresca erba avean piene le sponde.


37

Ecco non lungi un bel cespuglio vede

di prun fioriti e di vermiglie rose,

35    che de le liquide onde al specchio siede,

chiuso dal sol fra l’alte querce ombrose;

così voto nel mezzo, che concede

fresca stanza fra l’ombre più nascose:

e la foglia coi rami in modo è mista,

40    che ’l sol non v’entra, non che minor vista.


38

Dentro letto vi fan tenere erbette,

ch’invitano a posar chi s’appresenta.

La bella donna in mezzo a quel si mette;

ivi si corca, et ivi s’addormenta.

45    Ma non per lungo spazio così stette,

che un calpestio le par che venir senta:

cheta si leva, e appresso alla riviera

vede ch’armato un cavallier giunt’era.


39

Se gli è amico o nemico non comprende:

50    tema e speranza il dubbio cuor le scuote;

e di quella aventura il fine attende,

né pur d’un sol sospir l’aria percuote.

Il cavalliero in riva al fiume scende

sopra l’un braccio a riposar le gote;

55    e in un suo gran pensier tanto penètra,

che par cangiato in insensibil pietra.


40

Pensoso più d’un’ora a capo basso

stette, Signore, il cavallier dolente;

poi cominciò con suono afflitto e lasso

60    a lamentarsi sì soavemente,

ch’avrebbe di pietà spezzato un sasso,

una tigre crudel fatta clemente.

Sospirando piangea, tal ch’un ruscello

parean le guance, e ’l petto un Mongibello.

41

65    «Pensier (dicea) che ’l cor m’agghiacci et ardi,

e causi il duol che sempre il rode e lima,

che debbo far, poi ch’io son giunto tardi,

e ch’altri a corre il frutto è andato prima?

a pena avuto io n’ho parole e sguardi,

70    et altri n’ha tutta la spoglia opima.

Se non ne tocca a me frutto né fiore,

perché affliger per lei mi vuo’ più il core?


42

La verginella è simile alla rosa,

ch’in bel giardin su la nativa spina

75    mentre sola e sicura si riposa,

né gregge né pastor se le avvicina;

l’aura soave e l’alba rugiadosa,

l’acqua, la terra al suo favor s’inchina:

gioveni vaghi e donne inamorate

80    amano averne e seni e tempie ornate.


43

Ma non sì tosto dal materno stelo

rimossa viene e dal suo ceppo verde,

che quanto avea dagli uomini e dal cielo

favor, grazia e bellezza, tutto perde.

85    La vergine che ’l fior, di che più zelo

che de’ begli occhi e de la vita aver de’,

lascia altrui corre, il pregio ch’avea inanti

perde nel cor di tutti gli altri amanti.


44

Sia vile agli altri, e da quel solo amata

90    a cui di sé fece sì larga copia.

Ah, Fortuna crudel, Fortuna ingrata!

trionfan gli altri, e ne moro io d’inopia.

Dunque esser può che non mi sia più grata?

dunque io posso lasciar mia vita propia?

95    Ah più tosto oggi manchino i dì miei,

ch’io viva più, s’amar non debbo lei!».


45

Se mi domanda alcun chi costui sia,

che versa sopra il rio lacrime tante,

io dirò ch’egli è il re di Circassia,

100 quel d’amor travagliato  Sacripante;

io dirò ancor, che di sua pena ria

sia prima e sola causa essere amante,

è pur un degli amanti di costei:

e ben riconosciuto fu da lei.


46

105 Appresso ove il sol cade, per suo amore

venuto era dal capo d’Oriente;

che seppe in India con suo gran dolore,

come ella Orlando sequitò in Ponente:

poi seppe in Francia che l’imperatore

110 sequestrata l’avea da l’altra gente,

per darla all’un de’ duo che contra il Moro

più quel giorno aiutasse i Gigli d’oro.


47

Stato era in campo, e inteso avea di quella

rotta crudel che dianzi ebbe re Carlo:

115 cercò vestigio d’Angelica bella,

né potuto avea ancora ritrovarlo.

Questa è dunque la trista e ria novella

che d’amorosa doglia fa penarlo,

affligger, lamentare, e dir parole

120 che di pietà potrian fermare il sole.


48

Mentre costui così s’affligge e duole,

e fa degli occhi suoi tepida fonte,

e dice queste e molte altre parole,

che non mi par bisogno esser racconte;

125 l’aventurosa sua fortuna vuole

ch’alle orecchie d’Angelica sian conte:

e così quel ne viene a un’ora, a un punto,

ch’in mille anni o mai più non è raggiunto.


49

Con molta attenzion la bella donna

130 al pianto, alle parole, al modo attende

di colui ch’in amarla non assonna;

né questo è il primo dì ch’ella l’intende:

ma dura e fredda più d’una colonna,

ad averne pietà non però scende,

135 come colei c’ha tutto il mondo a sdegno,

e non le par ch’alcun sia di lei degno.

50

Pur tra quei boschi il ritrovarsi sola

le fa pensar di tor costui per guida;

che chi ne l’acqua sta fin alla gola,

140 ben è ostinato se mercé non grida.

Se questa occasione or se l’invola,

non troverà mai più scorta sì fida;

ch’a lunga prova conosciuto inante

s’avea quel re fedel sopra ogni amante.


51

145 Ma non però disegna de l’affanno

che lo distrugge alleggierir chi l’ama,

e ristorar d’ogni passato danno

con quel piacer ch’ogni amator più brama:

ma alcuna finzione, alcuno inganno

150 di tenerlo in speranza ordisce e trama;

tanto ch’a quel bisogno se ne serva,

poi torni all’uso suo dura e proterva.


52

E fuor di quel cespuglio oscuro e cieco

fa di sé bella et improvisa mostra,

155 come di selva o fuor d’ombroso speco

Diana in scena o Citerea si mostra;

e dice all’apparir: «Pace sia teco;

teco difenda Dio la fama nostra,

e non comporti, contra ogni ragione,

160 ch’abbi di me sì falsa opinione».


53

Non mai con tanto gaudio o stupor tanto

levò gli occhi al figliuolo alcuna madre,

ch’avea per morto sospirato e pianto,

poi che senza esso udì tornar le squadre;

165 con quanto gaudio il Saracin, con quanto

stupor l’alta presenza e le leggiadre

maniere e il vero angelico sembiante,

improviso apparir si vide inante.


54

Pieno di dolce e d’amoroso affetto,

170 alla sua donna, alla sua diva corse,

che con le braccia al collo il tenne stretto,

quel ch’al Catai non avria fatto forse.

Al patrio regno, al suo natio ricetto,

seco avendo costui, l’animo torse:

175 subito in lei s’avviva la speranza

di tosto riveder sua ricca stanza.


55

Ella gli rende conto pienamente

dal giorno che mandato fu da lei

a domandar soccorso in Oriente

180 al re de’ Sericani e Nabatei;

e come Orlando la guardò sovente

da morte, da disnor, da casi rei;

e che ’l fior virginal così avea salvo,

come se lo portò del materno alvo.


56

185 Forse era ver, ma non però credibile

a chi del senso suo fosse signore;

ma parve facilmente a lui possibile,

ch’era perduto in via più grave errore.

Quel che l’uom vede, Amor gli fa invisibile,

190 e l’invisibil fa vedere Amore.

Questo creduto fu; che ’l miser suole

dar facile credenza a quel che vuole.

57

«Se mal si seppe il cavallier d’Anglante

pigliar per sua sciochezza il tempo buono,

195 il danno se ne avrà; che da qui inante

nol chiamerà Fortuna a sì gran dono

(tra sé tacito parla Sacripante):

ma io per imitarlo già non sono,

che lasci tanto ben che m’è concesso,

200 e ch’a doler poi m’abbia di me stesso.


58

Corrò la fresca e matutina rosa,

che, tardando, stagion perder potria.

So ben ch’a donna non si può far cosa

che più soave e più piacevol sia,

205 ancor che se ne mostri disdegnosa,

e talor mesta e flebil se ne stia:

non starò per repulsa o finto sdegno,

ch’io non adombri e incarni il mio disegno».

59

Così dice egli; e mentre s’apparecchia

210 al dolce assalto, un gran rumor che suona

dal vicin bosco gl’intruona l’orecchia,

sì che mal grado l’impresa abbandona:

e si pon l’elmo (ch’avea usanza vecchia

di portar sempre armata la persona),

215 viene al destriero e gli ripon la briglia,

rimonta in sella e la sua lancia piglia.


60

Ecco pel bosco un cavallier venire,

il cui sembiante è d’uom gagliardo e fiero:

candido come nieve è il suo vestire,

220 un bianco pennoncello ha per cimiero.

Re Sacripante, che non può patire

che quel con l’importuno suo sentiero

gli abbia interrotto il gran piacer ch’avea,

con vista il guarda disdegnosa e rea.


61

225 Come è più presso, lo sfida a battaglia;

che crede ben fargli votar l’arcione.

Quel che di lui non stimo già che vaglia

un grano meno, e ne fa paragone,

l’orgogliose minacce a mezzo taglia,

230 sprona a un tempo, e la lancia in resta pone.

Sacripante ritorna con tempesta,

e corronsi a ferir testa per testa.


62

Non si vanno i leoni o i tori in salto

a dar di petto, ad accozzar sì crudi,

235 sì come i duo guerrieri al fiero assalto,

che parimente si passar li scudi.

Fe’ lo scontro tremar dal basso all’alto

l’erbose valli insino ai poggi ignudi;

e ben giovò che fur buoni e perfetti

240 gli osberghi sì, che lor salvaro i petti. 


63

Già non fero i cavalli un correr torto,

anzi cozzaro a guisa di montoni:

quel del guerrier pagan morì di corto,

ch’era vivendo in numero de’ buoni:

245 quell’altro cadde ancor, ma fu

tosto ch’ al fianco si sentì gli sproni.

Quel del re saracin restò disteso

adosso al suo signor con tutto il peso.


64

L’incognito campion che restò ritto,

250 e vide l’altro col cavallo in terra,

stimando avere assai di quel conflitto,

non si curò di rinovar la guerra;

ma dove per la selva è il camin dritto,

correndo a tutta briglia si disserra;

255 e prima che di briga esca il pagano,

un miglio o poco meno è già lontano. 


65

Qual istordito e stupido aratore,

poi ch’è passato il fulmine, si leva

di là dove l’altissimo fragore

260 appresso ai morti buoi steso l’aveva;

che mira senza fronde e senza onore

il pin che di lontan veder soleva:

tal si levò il pagano a piè rimaso,

Angelica presente al duro caso.


66

265 Sospira e geme, non perché l’annoi

che piede o braccio s’abbi rotto o mosso,

ma per vergogna sola, onde a’ dì suoi

né pria né dopo il viso ebbe sì rosso:

e più, ch’oltre il cader, sua donna poi

270 fu che gli tolse il gran peso d’adosso.

Muto restava, mi cred’io, se quella

non gli rendea la voce e la favella.


67

«Deh! (diss’ella) signor, non vi rincresca!

che del cader non è la colpa vostra,

275 ma del cavallo, a cui riposo ed esca

meglio si convenia che nuova giostra.

Né perciò quel guerrier sua gloria accresca

che d’esser stato il perditor dimostra:

così, per quel ch’io me ne sappia, stimo,

280 quando a lasciare il campo è stato primo».


68

Mentre costei conforta il Saracino,

ecco col corno e con la tasca al fianco,

galoppando venir sopra un ronzino

un messagger che parea afflitto e stanco;

285 che come a Sacripante fu vicino,

gli domandò se con un scudo bianco

e con un bianco pennoncello in testa

vide un guerrier passar per la foresta.


69

Rispose Sacripante: «Come vedi,

290 m’ha qui abbattuto, e se ne parte or ora;

e perch’io sappia chi m’ha messo a piedi,

fa che per nome io lo conosca ancora».

Ed egli a lui: «Di quel che tu mi chiedi

io ti satisfarò senza dimora:

295 tu dei saper che ti levò di sella

l’alto valor d’una gentil donzella. 


70

Ella è gagliarda ed è più bella molto;

né il suo famoso nome anco t’ascondo:

fu Bradamante quella che t’ha tolto

300 quanto onor mai tu guadagnasti al mondo».

Poi ch’ebbe così detto, a freno sciolto

il Saracin lasciò poco giocondo,

che non sa che si dica o che si faccia,

tutto avvampato di vergogna in faccia.


71

305 Poi che gran pezzo al caso intervenuto

ebbe pensato invano, e finalmente

si trovò da una femina abbattuto,

che pensandovi più, più dolor sente;

montò l’altro destrier, tacito e muto:

310 e senza far parola, chetamente

tolse Angelica in groppa, e differilla

a più lieto uso, a stanza più tranquilla.

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DENTRO IL TESTO

I contenuti tematici

Angelica fugge, pur senza sapere dove andare, attraversando uno scenario fiabesco fatto di boschi, pianure e luoghi selvaggi; luoghi dall’aspetto favoloso, selve folte di alberi giganteschi e cupe di ombre misteriose. La solitudine, i silenzi, i rumori improvvisi avvolgono la donna, che galoppa tremante a ogni muover di fronda, con l’ombra di Rinaldo che, alla fanciulla, sembra sbucare da ogni tronco. Finché giunge in un luogo accogliente e appartato dove può addormentarsi. Il sonno di Angelica rappresenta il compimento della prima parte della scena.

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Ecco però giungere un altro cavaliere. Si tratta di Sacripante, già presente nell’Orlando innamorato, ma lì con un carattere più eroico; nel poema di Boiardo infatti era un amante fedele ma sfortunato della bella Angelica, la cui verginità aveva difeso nell’assedio di Albraccà. Qui viene rappresentato come un cavaliere triste e lamentoso, a causa dell’amore non corrisposto da parte della giovane. Angelica vede in lui una guida fidata che potrà ricondurla al paese paterno e perciò gli racconta ciò che le è successo dal giorno in cui egli si era allontanato da lei. Saputo che Orlando non ha offeso, ma anzi ha custodito l’onore della ragazza, Sacripante decide di riconquistarla al proprio amore, cogliendo quel “fiore” che il cavaliere d’Anglante era stato così sciocco da lasciarsi sfuggire.

È a questo punto che il narratore riserva a Sacripante un’avventura degradante che non solo vanifica i suoi propositi amorosi ma ne distrugge la fama di possente cavaliere. Dopo averne sottolineato la sofferenza di innamorato infelice con massiccio uso di stereotipi petrarcheschi in chiave patetica (agghiacci et ardi, v. 65; rode e lima, v. 66), Ariosto lo espone con divertita spietatezza a una doppia umiliazione: dinanzi agli occhi della donna amata (presente al duro caso, v. 264) Sacripante è inizialmente disarcionato al primo assalto da un altro cavaliere, rimanendo schiacciato sotto il proprio cavallo; successivamente viene informato da un messaggero che ad abbatterlo è stata una donna, la guerriera Bradamante, anche lei – al pari di tutti gli altri personaggi del poema – alla ricerca del proprio oggetto del desiderio, il futuro sposo Ruggiero. Senza parole, mortificato per aver subìto un indecoroso colpo alla propria virilità, al povero cavaliere saraceno non resta che salire sul cavallo con Angelica, rimandando a tempi migliori la realizzazione del proprio desiderio di sedurla.

Nel brano vediamo in azione Angelica, della quale il poeta sottolinea alcuni elementi psicologici e caratteriali. La sua fuga è quasi la conseguenza di un radicato atteggiamento interiore, chiaramente espresso negli ultimi due versi dell’ottava 49, dove la donna viene definita come colei c’ha tutto il mondo a sdegno, / e non le par ch’alcun sia di lei degno (vv. 135-136). In altre parole, la caratteristica principale di Angelica sembra essere il suo disprezzo per tutti coloro che la corteggiano, in quanto convinta che nessuno possa essere degno di lei, adeguato al suo livello.

Un altro suo tratto che emerge è la scaltra freddezza. Qui la donna asseconda Sacripante solo a parole, mentre in realtà ha intenzione di servirsene per difendersi dagli altri pretendenti che la inseguono. Angelica si comporta sempre nello stesso modo: con un occhio lusinga i suoi spasimanti, con l’altro rimane vigile e in guardia. La sostanza dell’Angelica ariostesca è dunque fatta di astuzia e di calcolo. Dopo aver colto il suo timore nella scena della fuga e la sua serenità in quella del riposo, ora il lettore si trova a vedere il personaggio mentre gioca la carta della civetteria: è una donna dotata di una certa dose di cinismo, che la spinge a fare di necessità virtù. Così, nell’ottava 51, essa ordisce e trama (v. 150) finzione e inganno (v. 149), servendosi di Sacripante per il proprio bisogno (v. 151). Con un’entrata in scena decisamente teatrale, Angelica esce dal cespuglio in cui aveva trovato riposo come se fosse una dea della mitologia classica (Diana o Venere, v. 156) che si presenti al pubblico di una di quelle rappresentazioni molto in voga nelle corti del tempo. È come se Ariosto volesse sottolineare in tal modo la grande abilità attoriale del suo personaggio.

 >> pagina 258

Le scelte stilistiche

Nelle prime ottave del brano, nonostante le difficoltà della fuga e l’orrore delle selve spaventose e oscure, la descrizione appare serena e luminosa. Il poeta è infatti capace di sollevarsi al di sopra delle specifiche vicende dei personaggi e dei loro stessi occasionali stati d’animo. Ogni vicenda sembra come contemplata dall’alto, da una sorta di Olimpo in cui si muove, tranquilla, la fantasia dell’autore.

All’ottava 35, il paesaggio inabitato e selvaggio viene sostituito da un ambiente luminoso e sereno: è il classico locus amoenus, cioè uno scenario naturale dolce e confortante, fatto tradizionalmente di una vegetazione verde e fiorita, un venticello gradevole, acqua che scorre fresca. In realtà non c’è frattura né improvviso stacco tra le due situazioni: c’è invece la notevole capacità di Ariosto di dissolvere una visione in un’altra, un ritmo narrativo in un altro.

La sostanziale continuità tra un episodio e l’altro del poema non è contraddetta dai frequenti colpi di scena che interrompono e variano il libero fluire della narrazione; al contrario, potremmo dire che per il loro tramite l’autore persegue l’obiettivo di ottenere un racconto ininterrotto e al tempo stesso diversificato, in modo da evitare qualsiasi senso di monotonia o di prevedibilità. In questo brano un primo esempio di colpo di scena è, all’ottava 38, l’arrivo di Sacripante; un secondo è, all’ottava 59, il rumore che annuncia l’arrivo di un altro cavaliere, che scopriremo essere Bradamante, l’imprevedibile soccorritrice di Angelica, apparsa all’improvviso per vanificare le aspirazioni erotiche dello sprovveduto Sacripante.

Anche in questo brano è ravvisabile la tipica tonalità ironica, che Ariosto esercita soprattutto su Sacripante: egli si lamenta così soavemente (v. 60) da spezzare un sasso e da ammansire una tigre feroce; con due iperboli le sue guance segnate dalle lacrime vengono paragonate a un ruscello e i singhiozzi che lo scuotono a un vulcano in eruzione. L’esagerazione delle pene d’amore è bilanciata dallo scetticismo del poeta, che tende, in tutto il poema, a riportare le passioni umane a una dimensione di maggiore realismo. In altre parole, attraverso l’esasperazione delle smanie amorose dei suoi personaggi Ariosto afferma indirettamente la necessità di vivere i sentimenti all’insegna di un più sano equilibrio. Inoltre assistiamo al rovesciamento dei valori tipicamente cavallereschi: qui l’intento del guerriero non è di proteggere l’onore di una fanciulla illibata dagli assalti di uomini disonesti, ma – al contrario – di “cogliere il fiore” della sua giovinezza, approfittando di una situazione di debolezza.

Infine, lo sviluppo successivo dell’azione porta al suo definitivo ridimensionamento di uomo e combattente ad opera di due donne, l’astuta Angelica e la misteriosa amazzone dal bianco pennoncello (v. 220).

Del resto la stessa Angelica non sfugge all’ironia ariostesca. Per esempio l’autore non manca di avanzare qualche dubbio sulla sua verginità, che lei afferma con convinzione di fronte a Sacripante (Forse era ver, ma non però credibile / a chi del senso suo fosse signore, vv. 185-186), e lo stilnovistico angelico sembiante (v. 167) è solo la superficie di una donna pratica e opportunista, come si vede dalle ipocrite parole melliflue riservate al guerriero saraceno dopo lo scacco subìto al solo scopo di tenerselo buono come guardia del corpo personale contro le insidie della foresta.

Va detto però che l’ironia di Ariosto non si esercita su Angelica altrettanto direttamente che sui personaggi maschili. Sembra infatti che l’eroina sia oggetto, da parte dell’autore, di una certa simpatia. Il comportamento di Angelica non viene davvero condannato; semmai la giovane viene ammirata per la capacità che ha di piegare gli eventi, per quanto inattesi, al proprio vantaggio. Lo si vede chiaramente, dal fatto che, tra l’astuta Angelica e l’intraprendente Sacripante, oggetto degli strali ironici dell’autore è, di fatto, soprattutto il povero e credulone re di Circassia, che dà facile credenza a quel che vuole (v. 192).

L’ironia ariostesca si esprime anche attraverso la ripresa di celebri modalità retoriche della poesia precedente, in particolare della lirica amorosa di Petrarca. Per esempio l’antitesi m’agghiacci et ardi (v. 65) rimanda a «et ardo, et son un ghiaccio» (Canzoniere, 134, 2) o anche a «di state un ghiaccio, un foco quando inverna» (Canzoniere, 150, 6).

La similitudine della rosa alle ottave 42-43 presenta un esplicito richiamo a una fonte classica, il carme 62 del poeta latino Catullo (ca 84-54 a.C.): «Come fiore nascosto che nasce in giardini cintati, / lontano dai greggi, divelto non mai dall’aratro, / ma lo accarezzano i venti, lo rafforza il sole, lo accresce la pioggia, / molti ragazzi, molte ragazze lo vogliono; ma poi, appena spiccato dall’unghia tagliente, sfiorisce, / e più nessun ragazzo, più nessuna ragazza lo vuole; / così è la vergine: finché rimane illibata, gode l’affetto della famiglia; / ma non appena, violato il suo corpo, perde il fiore della purezza, / non è più cara ai ragazzi, non gode l’affetto delle ragazze» (traduzione di Francesco Della Corte). Va sottolineato però come, rispetto al modello catulliano, nei versi di Ariosto sia molto più chiara la consapevolezza di quanto la bellezza sia un valore fortemente insidiato dalla violenza della passione amorosa e dai capricci della fortuna.

Comunque, attraverso il fitto gioco di rimandi intertestuali come quelli evidenziati, il poeta da un lato esprime un omaggio alla tradizione letteraria e a un poeta rinomato come l’autore del Canzoniere, dall’altro, specie grazie al richiamo a un testo assai noto di Catullo, mostra quanto di stereotipato e di facilmente prevedibile c’è nell’innamoramento appassionato di Sacripante.

 >> pagina 259 

VERSO LE COMPETENZE

Comprendere

1 Riassumi le azioni di Angelica.


2 Che cosa si chiede Sacripante nell’ottava 44?


3 A che cosa viene paragonata, nell’ottava 53, la gioia di Sacripante all’apparire di Angelica?


4 Perché Angelica ritiene che Sacripante possa esserle utile?


5 Qual è l’intenzione di Sacripante? Che cosa gli impedisce di portarla a compimento?


6 Per quale ragione, mentre si trova sotto il peso del suo cavallo, Sacripante Sospira e geme (v. 265)?


7 Con quali capziosi argomenti Angelica consola Sacripante dopo l’umiliazione patita?

Analizzare

8 Quale figura retorica si trova all’ottava 34?


9 Il paesaggio viene descritto in maniera realistica o fantastica? Argomenta la tua risposta facendo riferimento ai dati testuali.


10 Quale registro linguistico prevale nelle ottave antologizzate? Alto, medio o basso? Motiva la tua risposta con una serie di esempi pertinenti.


11 Su quale figura retorica è costruita l’ottava 42?

  • a Iperbole 
  • b Sineddoche 
  • c Similitudine 
  • d Metonimia 

Interpretare

12 Qual è inizialmente lo stato d’animo di Angelica? Come muta nel corso del brano? In quale relazione si pone con il paesaggio circostante?


13 Quali aspetti della narrazione evidenziano l’uso della tecnica dell’entrelacement?

scrivere per...

raccontare

14 Prova a metterti nei panni, davvero scomodi, di Sacripante dopo lo scorno subìto: l’imbarazzo è uno degli stati emotivi più difficile da gestire. Racconta un episodio in cui ti sei sentito a disagio in una certa situazione vissuta con amici o parenti.

argomentare

15 «L’ironia è l’occhio sicuro che sa cogliere lo storto, l’assurdo, il vano dell’esistenza». Commenta questa frase del filosofo danese Søren Kierkegaard (1813-1855) in un testo argomentativo di circa 20 righe, anche alla luce della tua esperienza personale.

Il magnifico viaggio - volume 2
Il magnifico viaggio - volume 2
Il Quattrocento e il Cinquecento