Ludovico Ariosto

LA VITA

La formazione culturale

Ludovico Ariosto nasce a Reggio Emilia nel 1474, primogenito di dieci fratelli, dal conte ferrarese Niccolò e da Daria Malaguzzi Valeri. A Reggio il padre ricopre la carica di capitano della cittadella, una delle molte della sua carriera di funzionario dei duchi d’Este, la nobile famiglia regnante a Ferrara. Ludovico inizia gli studi grammaticali sotto la guida di alcuni precettori privati e poi frequenta per cinque anni i corsi presso la facoltà di legge dello Studio di Ferrara: come primogenito, è infatti destinato a intraprendere la carriera pubblica del padre. Tuttavia li abbandona pochi anni dopo, per dedicarsi alle materie letterarie e classiche.

È lui stesso a ricordarlo in alcuni versi della Satira VI (vv. 157-162): «Mio padre mi cacciò con spiedi e lancie, / non che con sproni, a volger testi e chiose, / e me occupò cinque anni in quelle ciance. / Ma poi che vide poco fruttuose / l’opere, e il tempo invan gittarsi, dopo / molto contrasto in libertà mi pose» [Mio padre mi spinse, con strumenti coercitivi, a studiare i testi giuridici e i loro commenti, e mi fece trascorrere cinque anni in quelle occupazioni per me inutili. Ma accortosi che i risultati erano scadenti e che così si sprecava tempo, dopo molti contrasti, mi lasciò libero di fare ciò che volevo].

Insomma, Ludovico preferisce lo studio delle lettere a quello della giurisprudenza, cui il padre voleva avviarlo; e al genitore non resta che accettare la volontà del figlio.

Al servizio degli Estensi

Nel 1497, Ariosto, allora ventitreenne, entra ufficialmente al servizio del duca Ercole d’Este, diventando a pieno titolo un  uomo di corte, partecipe della vita di una comunità intellettuale che vede nella letteratura e nell’arte uno strumento di bellezza e socialità. In quest’ambiente raffinato, il giovane Ludovico si segnala per il talento poetico: i suoi primi componimenti in lingua latina e volgare, nei quali dà sfoggio di grande perizia tecnica, sensibilità per le cose quotidiane e delicatezza nella celebrazione dell’universo femminile, vengono indirizzati agli amici più eminenti della corte, tra i quali Pietro Bembo, l’influente letterato anch’egli ospite degli Este.

Nel 1500 muore il padre, lasciando una discreta eredità, ma anche dieci figli, e tocca a Ludovico assumersi le cure della numerosa famiglia. Intraprende così la carriera militare: nel 1502 è capitano di Canossa, una rocca sperduta tra i calanchi dell’Appennino reggiano; l’anno dopo entra al servizio del cardinale Ippolito d’Este.

Le parole dello scrittore contemporaneo Luigi da Porto tracciano un efficace ritratto di questo ecclesiastico ambizioso e, insieme, fine diplomatico, intelligente politico, nonché valoroso uomo di guerra, associato dal fratello Alfonso alla guida dello Stato: «È il cardinal d’Este, fratello del duca, il più disposto corpo con il più fiero animo, che mai alcuno della sua casa avesse… Piacciono a costui gli uomini valorosi, e, quantunque sia prete, ne ha sempre molti dattorno».

Da questo momento la vita di Ludovico sarà divisa tra due attività: quella fastidiosa, ma necessaria alla sussistenza della famiglia, di funzionario alla corte del cardinale Ippolito d’Este, che gli affida missioni diplomatiche sempre più importanti e delicate, e quella prediletta di poeta, che lo impegna nella stesura di un’opera che sviluppa le vicende dell’Orlando innamorato del conterraneo Boiardo.

Nel 1513 Ludovico incontra, a Firenze, Alessandra Benucci, moglie di Tito Strozzi, un ricco mercante ferrarese in affari con i membri della corte estense. Il poeta, che in precedenza aveva avuto due figli illegittimi da due domestiche, si innamora della donna, destinata a diventare la sua musa: nel 1515, alla morte di Strozzi, intraprende una relazione con lei ma potrà sposarla solo in tarda età (intorno al 1528) e in segreto, per non perdere lui un beneficio ecclesiastico e lei l’eredità del cospicuo patrimonio del marito.

Nel 1516, dopo un lavoro durato circa dieci anni, esce la prima edizione dell’Orlando furioso, un poema cavalleresco in ottave, che conosce subito un successo eccezionale in Italia e in Europa, tanto da essere ben presto tradotto e pubblicato anche in altre lingue. Durante la stesura del suo capolavoro, Ariosto scrive anche le Satire e quattro commedie.

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Gli ultimi anni

Pare che Ippolito, a cui è dedicato l’Orlando furioso, non apprezzi particolarmente l’omaggio né è indotto a mutare parere dall’exploit commerciale dell’opera: le 1300 copie della prima tiratura vengono vendute in pochissimo tempo. In Ariosto c’è amarezza ma forse poco stupore. I suoi rapporti con il cardinale, mai realmente gratificanti, sono quelli del dipendente che ubbidisce e borbotta: gli impegni legati alla sua attività di funzionario di corte e quell’esser fatto «di poeta, cavallaro» non potevano piacergli, tanto più quando il  successo dell’Orlando furioso lo autorizza a sperare in una vita più quieta e consona al suo genio.

Nel 1517 si rifiuta di seguire il cardinale, nominato vescovo di Buda, in Ungheria e deve abbandonarne il servizio. Questi lo accusa di malvagità e ingratitudine, ma troppe cose trattenevano il poeta a Ferrara: l’età, la salute, i fratelli, l’amore per Alessandra. La rottura risulterà definitiva, con grande rammarico di Ariosto, che al cardinale aveva dedicato il suo poema, consacrandone il nome nei secoli futuri: quando, dopo tre anni, Ippolito tornerà malato a Ferrara per morirvi, nel suo testamento ricorderà tutti, anche i più umili servitori, tranne Ariosto.

Nel 1518 Ludovico è alla corte di Alfonso I d’Este duca di Ferrara. Il nuovo incarico di rado lo costringe ad allontanarsi dalla città: Alfonso è meno esigente del fratello e lascia Ariosto piuttosto libero. Tuttavia nel 1522, tornata la Garfagnana in possesso del duca, questi lo manda a governarla con l’incarico di “commissario”. Si rivelerà un’impresa difficile per la rozzezza degli abitanti, la violenza dei contrasti tra le fazioni e la presenza di  feroci briganti che infestavano questa regione montagnosa a nord della Toscana. Ariosto fa comunque del suo meglio per portarvi ordine e sicurezza, ottenendo diversi risultati positivi.

Dopo tre anni torna a Ferrara, dove trascorre serenamente l’ultima parte della sua vita. Sulla facciata della sua casa è iscritto il distico latino: Parva, sed apta mihi, sed nulli obnoxia, sed non / sordida, parta meo sed tamen aere domus (Una casa piccola, ma adatta a me; non molesta ad alcuno, né / indecorosa; acquistata con il mio denaro). Qui trascorre gli ultimi anni, dedicandosi agli studi e all’esercizio letterario fino al 1533, anno in cui muore.

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I luoghi di Ariosto

1. Reggio Emilia

Qui nasce nel 1474 Ludovico Ariosto, primo dei dieci figli del conte Niccolò, funzionario dei duchi d’Este.


2. Ferrara

Nel 1503 entra al servizio di Ippolito d’Este. Presso la corte, Ariosto ricopre incarichi diplomatici e si dedica all’attività letteraria, ma i rapporti con il cardinale si incrinano e si interrompono definitivamente nel 1517.


3. Garfagnana

Nel 1522, il fratello di Ippolito, Alfonso d’Este, invia Ariosto come “commissario” in Garfagnana.


4. Ferrara

Dopo tre anni, fa ritorno nella città in cui ha vissuto gran parte della sua vita e dove muore nel 1533.

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IL CARATTERE

UN UOMO TRANQUILLO

L’immagine tradizionale di Ariosto è quella di una persona amante della quiete (era detto Ludovicus tranquillitatis, “Ludovico della tranquillità”), di un poeta svagato e sognante, perso dietro alle proprie fantasie. Egli ci appare, innanzitutto, come un uomo bonario, riflessivo, dotato di sentimenti onesti e delicati, forse privo di profonde passioni morali, religiose, politiche. Insomma, saggio di una saggezza serena.

Il senso della famiglia

Ludovico però è anche un uomo dotato di un grande senso di responsabilità. Ha solo ventisei anni quando, nel 1500, morto il padre, si trova a fare da genitore a quattro fratelli e cinque sorelle, con anche la madre a carico, unico in grado di guadagnarsi da vivere. Così il poeta: «Mi more il padre, e da Maria il pensiero / drieto a Marta bisogna ch’io rivolga, / ch’io muti in squarci et in vacchette Omero; // truovi marito e modo che si tolga / di casa una sorella e un’altra appresso, / e che l’eredità non se ne dolga; // coi piccioli fratelli, ai quai successo / ero in luogo di padre, far l’uffizio / che debito e pietà avea commesso; // a chi studio, a chi corte, a chi essercizio / altro proporre, e procurar non pieghi / da le virtudi il molle animo al vizio» (Satire, VI, 199-210; Muore mio padre e bisogna che sposti il mio pensiero dalla vita contemplativa (Maria) a quella attiva (Marta) e che lasci la poesia per gli scartafacci e i registri contabili (detti vacchette perché rilegati in pelle di vacca); che trovi marito a una sorella e dopo a un’altra, e che l’eredità non soffra troppo per le doti da preparare; con i fratelli più piccoli, per i quali ricoprivo il ruolo di padre, devo svolgere il compito educativo che il dovere e l’affetto mi avevano affidato. Devo proporre a uno il servizio di corte, a un altro lo studio, a un altro ancora l’esercizio della mercatura e vigilare affinché non pieghi il cedevole animo dalle virtù al vizio).

L’impegno sociale

L’umana disponibilità di Ariosto si vede bene anche nei tre anni trascorsi in Garfagnana. Se all’inizio è turbato dall’asprezza dei luoghi e dei costumi, a poco a poco prende in simpatia la condizione di quella povera gente, avvilita dalla prepotenza dei pochi che la comandano e abituata, per antica consuetudine, a chinare il capo di fronte ai soprusi. Scrive in una lettera: «Finch’io starò in questo officio, non sono per havermi alcuno amico, se non la giustitia». Tale dichiarazione d’intenti, concretizzata nella quotidiana azione di governo, determina nei suoi confronti l’odio dei prepotenti che vedono in pericolo i propri privilegi.

Quel che è certo è che Ariosto possiede sì fini doti intellettuali, ma non grandi capacità di gestione politica. È lui stesso a scoprirsi, periodicamente, incapace di severità, anche là dove tale atteggiamento sarebbe necessario. Al contrario, il contatto personale lo spinge a comprensione e compassione nei riguardi degli stessi colpevoli: «Io ’l confesso ingenuamente, ch’io non son omo da governare altri omini, che ho troppo pietà, e non ho fronte di negare cosa che mi sia domandata». Chissà quanti hanno provato ad approfittarsi di questa debolezza del funzionario Ludovico Ariosto.

Il magnifico viaggio - volume 2
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Il Quattrocento e il Cinquecento