Altre opere minori

Altre opere minori

Di Dante ci rimangono anche 13 Epistole in latino: la quinta, la sesta e la settima riguardano la discesa di Arrigo VII in Italia, mentre la tredicesima (del 1316) è indirizzata a Cangrande della Scala e contiene la dedica del Paradiso.

Abbiamo poi, ancora, 2 Egloghe in esametri latini, un libello, sempre in latino, intitolato Questio de aqua et terra (Disputa sull’acqua e sulla terra), in cui l’autore confuta la teoria aristotelica in base alla quale in alcuni punti del globo le acque sarebbero più alte delle terre emerse, nonché due opere giovanili in volgare, di gusto allegorico tipicamente medievale, la cui autenticità è stata a lungo discussa (ma poi autorevolmente sostenuta dal filologo Gianfranco Contini): il Fiore, un poemetto costituito da 232 sonetti che rielabora il Roman de la Rose, e il Detto d’amore, un poemetto didattico in distici di settenari (di cui ci restano solo 480 versi).

T17

La discesa in Italia di Arrigo VII

Da Epistole, VII

Mentre si trova esule nell’Italia settentrionale, Dante assiste con rinnovata speranza al tentativo di Arrigo VII di Lussemburgo di ripristinare l’autorità imperiale in Italia. Intrapresa nell’ottobre 1310, la sua discesa non produce però gli effetti sperati: il giovane imperatore si attarda a sedare le rivolte nelle città settentrionali invece di puntare a Firenze, cuore della ribellione guelfa. È a questo punto, nell’aprile del 1311, che Dante decide di scrivergli in prima persona una lettera, di cui riportiamo la conclusione, in cui lo esorta a non temporeggiare più e a stroncare una volta per tutte la resistenza di Firenze.

Tu resti a Milano passandovi dopo l’inverno la primavera,1 e credi di uccidere 

l’idra pestifera con l’amputarle le teste?2 Che se ricordassi le grandi imprese del

glorioso Alcide,3 capiresti di sbagliare come lui, contro il quale la bestia pestifera, 

rinascendo le molte teste, per i colpi cresceva, finché quel magnanimo impetuosamente 

5      non attaccò la radice stessa della vita. Per estirpare alberi, infatti, non vale 

il taglio dei rami, che anzi di nuovo ramificano vigorosamente più numerosi, fin 

quando siano rimaste indenni le radici che forniscano nutrimento. Che cosa, o 

unico Signore del mondo, credi di aver compiuto quando avrai piegato il collo di 

Cremona ribelle?4 Forse che allora non si gonfierà inaspettata la rabbia o di Brescia 

10    o di Pavia? Anzi, quando questa rabbia anche flagellata sarà abbattuta, subito 

l’altra di Vercelli o di Bergamo o altrove scoppierà di nuovo, finché non si elimini 

alla radice la causa di questo tumore purulento e, strappata la radice di così grave 

errore, i rami pungenti insieme col tronco inaridiscano.

O forse ignori, eccellentissimo fra i principi, e non scorgi dalla specola della 

15    somma altezza5 dove si rintani la piccola volpe di codesto fetore, noncurante dei 

cacciatori? Certo la  scellerata non si abbevera alle acque precipiti del Po,6 né al 

tuo Tevere,7 ma le sue8 fauci infettano ancora la corrente dell’Arno impetuoso, e si 

chiama Firenze, forse non sai?, questo crudele flagello. Questa è la vipera avventatasi 

contro le viscere della madre; questa è la pecora malata che infetta col suo 

20    contagio il gregge del suo pastore; questa la scellerata ed empia Mirra che arde per 

gli amplessi del padre Cinira;9 questa è quella Amata furiosa che, rifiutate le nozze 

fatali, non ebbe paura di prendersi per genero colui che i fati vietavano, anzi lo 

eccitò furibonda alla guerra e infine, pagando il fio delle audacie malvagie, si impiccò.10 

Invero cerca di dilaniare la madre sua11 con viperina12 ferocia quando aguzza 

25    le corna della ribellione contro Roma, che la fece a immagine e somiglianza sua. 

Invero, evaporando l’umore corrotto esala fumi pestilenziali13 e i greggi vicini,14 

ignari, ne sono contagiati, quando seducendoli con false blandizie e menzogne si 

associa i confinanti e associatili li dissenna. Invero arde per gli amplessi paterni 

quando con malvagia procacità tenta di far violenza al consenso nei tuoi riguardi 

30    del sommo pontefice, che padre è dei padri.15 Invero resiste al comandamento di 

Dio col venerare l’idolo della propria volontà, quando disprezzando il re legittimo 

non arrossisce la folle di patteggiare con un re non suo16 diritti non suoi per 

aver facoltà di far male. Ma badi alla corda con cui si lega, la forsennata donna.17 

Ché spesso, uno si consegna al reprobo senno per fare, così consegnato, le cose 

35    che non dovrebbe fare; e sebbene siano azioni ingiuste, giusti tuttavia i castighi 

sono riconosciuti.

Su dunque, rompi gli indugi, nuova prole di Iesse,18 trai la tua fede dagli occhi 

del Signore Dio degli eserciti, al cui cospetto tu operi e abbatti questo Golia con 

la fionda della tua saggezza e con il sasso della tua forza; poiché con la sua caduta 

40    la notte e l’ombra della paura coprirà il campo dei Filistei;19 fuggiranno i Filistei 

e sarà liberato Israele. Allora la nostra eredità, che, a noi tolta, incessantemente 

piangiamo, ci sarà restituita per intero; e come ora, memori della sacrosanta 

Gerusalemme, esuli gemiamo in Babilonia,20 così allora cittadini e respirando nella 

pace ricorderemo nella gioia le miserie della confusione.

45    Scritto in Toscana alla sorgente dell’Arno, il 17 aprile [1311], l’anno primo della 

faustissima venuta in Italia del divo Enrico.

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DENTRO IL TESTO

I contenuti tematici

Condannato all’esilio, Dante non cessa mai di sperare che un imperatore possa ristabilire l’autorità e la pace nella penisola. Nel canto I dell’Inferno aveva profetizzato l’arrivo di un «veltro», un cane da caccia che allude allegoricamente a un uomo inviato dalla Provvidenza a sconfiggere i mali che affliggono il mondo. Nell’autunno del 1310 un evento imprevisto ma a lungo auspicato accende la speranza nell’animo del poeta: Arrigo VII di Lussemburgo, incoronato ad Aquisgrana nel gennaio dell’anno precedente, decide di scendere in Italia con un esercito per ribadire la sua autorità. Anche il papa Clemente V pare favorevole, tanto che nella bolla Exultet in gloria proclama Arrigo rex iustus et pacificus (re portatore di giustizia e di pace) invitando tutte le città della penisola ad accoglierlo con onore.

Gli auspici di Dante si scontrano però ben presto con la realtà. Molti centri italiani infatti si ribellano: a guidarli è proprio Firenze, dove i guelfi neri intimano al papa, intanto trasferitosi ad Avignone, di schierarsi contro l’imperatore. Il poeta reagisce con una violentissima epistola scritta nel marzo 1311 indirizzata Agli scelleratissimi Fiorentini che vivono tra le mura di Firenze, nella quale annuncia loro con tono apocalittico l’imminente castigo divino. Risale invece al mese successivo l’epistola di cui abbiamo proposto la parte conclusiva: Dante si rivolge direttamente ad Arrigo VII, gli ribadisce fiducia e devozione, ma al tempo stesso lo incoraggia a rompere gli indugi e a marciare contro il covo della ribellione, ossia Firenze, definita la causa di questo tumore purulento (r. 12).
In effetti, qualche mese dopo, l’imperatore cingerà d’assedio Firenze, ma con mezzi insufficienti, senza ottenere risultati apprezzabili. Per Dante, intanto escluso da un’amnistia generale che favorisce molti altri fuoriusciti guelfi, sarà l’ennesima delusione politica: il sogno imperiale che lo aveva sorretto negli anni dell’esilio svanirà definitivamente poco dopo, quando – nell’agosto del 1313 – Arrigo VII morirà per un attacco di malaria.

Le scelte stilistiche

La lettera costituisce un esempio assai significativo di che cosa rappresenta per Dante la politica: una passione bruciante da vivere con l’intensità del militante. Vibra infatti nel testo l’indignazione accesa e vendicativa tipica delle invettive: con un tono elevato, il poeta inanella una serie di similitudini mitologiche, naturalistiche e bibliche che investe l’oggetto del suo astioso risentimento, Firenze. La città natale è prima paragonata a un’idra pestifera (r. 2) dalle molte teste, che richiama il mostro sconfitto da Ercole, e poi viene definita come una piccola volpe (r. 15) che si abbevera all’Arno e – con un’immagine evangelica – come una pecora malata (r. 19) che diffonde il contagio infettando l’intero gregge. La stessa eloquenza vigorosa e polemica sostiene le altre rappresentazioni di Firenze, ora accostata alle scellerate Mirra e Amata (colpevole la prima di incesto, la seconda di essersi opposta al fato e alle nozze di Enea e Lavinia), ora assimilata a una vipera che tenta di mordere la propria madre, cioè Roma.

VERSO LE COMPETENZE

COMPRENDERE

1 Quali accuse muove l’autore al suo destinatario e quale invito gli rivolge?

ANALIZZARE

2 Aiutandoti con la nota, spiega che cosa intenda dire Dante con la metafora dell’idra di Lerno.

interpretare

3 Per quale motivo in tutta la lettera Dante ricorre con tanta insistenza alla personificazione della città di Firenze?


Perché l’autore fa riferimento anche all’episodio del gigante Golia?

scrivere per...

ARGOMENTARE

5 Prova a rovesciare il punto di vista di Dante e omaggia la tua città con un testo celebrativo di circa 20 righe.

Il magnifico viaggio - volume 1
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Dalle origini al Trecento