4 - La rivoluzione della lingua

4 La rivoluzione della lingua

Dante merita pienamente il titolo di padre della lingua italiana: in primo luogo perché nell’intera sua opera, ma soprattutto nella Divina Commedia, ha talmente potenziato la giovane lingua italiana da lasciare in eredità agli scrittori che verranno dopo di lui uno strumento adeguato alla trattazione di qualsiasi argomento; mentre, nella forma in cui l’aveva ricevuta dai suoi predecessori, essa aveva un campo di applicazione limitato.

È stato calcolato che il novanta per cento del lessico fondamentale dell’italiano in uso oggi (costituito da circa duemila parole) è già presente nella Divina Commedia. Ma, oltre al lessico fondamentale, Dante ha “conquistato” alla lingua italiana moltissimi termini specialistici, dalla filosofia all’astronomia alla morale, gettando così le basi del lessico intellettuale. E ha talmente strutturato e irrobustito la sintassi, rendendola capace di argomentazioni anche assai complesse, da porre le premesse perché un giorno l’italiano potesse sostituire il latino come lingua di cultura.

Non a caso, lo studioso tedesco Erich Auerbach considerò la lingua di Dante come «un miracolo inconcepibile»: a confronto con i poeti che lo precedono, l’autore della Divina Commedia «conosce e impiega un numero talmente superiore di forme, afferra le più diverse apparenze e sostanze con piglio tanto più saldo e sicuro, che si arriva alla convinzione che quest’uomo abbia con la sua lingua riscoperto il mondo».

In effetti, la sua eclettica capacità di sperimentare registri stilistici differenti produce una pluralità di esperienze letterarie spesso molto lontane tra di loro, perfino antitetiche. Un elemento costante in tutta la produzione artistica di Dante è proprio tale disponibilità a percorrere strade nuove, cimentandosi in generi letterari e livelli stilistici diversi. Il punto d’approdo di questa particolare attitudine alla molteplicità è naturalmente la Divina Commedia, dove la compresenza di tanti linguaggi trova una mirabile sintesi; tuttavia, la varietà delle forme espressive collaudate dall’autore è visibile anche in molti componimenti scritti dopo la Vita nuova, ben distanti per forma e contenuto dalla produzione stilnovistica.

Basti pensare ai versi in cui, nel solco della poesia comica e giocosa, adotta un linguaggio volutamente basso e crudo o alle cosiddette rime petrose, dedicate a una donna “Pietra”, così chiamata perché rifiuta con durezza l’amore del poeta: qui sperimenta una poetica dell’asprezza declinata a tutti i livelli, da quello fonico a quello lessicale fino a quello retorico, grazie all’uso di metafore attinte dal campo semantico della guerra e del rancore.

Ciò spiega perché, in un saggio del 1970, lo studioso Gianfranco Contini indichi Dante come l’iniziatore di una linea linguistico-letteraria destinata a perdurare fino al Novecento, caratterizzata da una forte vocazione realistica, dall’impegno sperimentale, da un’accentuata tendenza espressionistica e soprattutto dal plurilinguismo e dal plurilistilismo, mentre l’altro padre fondatore della letteratura italiana, Francesco Petrarca, viene indicato come l’iniziatore di una linea antirealistica, retorica, classicistica, monolinguistica e monostilistica.

Infine, Dante è stato il primo a sviluppare una riflessione teorica sulla lingua volgare con una lucidità senza pari nella cultura italiana o in altre. Lo ha fatto, oltre che nel primo libro del Convivio, nel De vulgari eloquentia, che è stato definito dallo storico della lingua Claudio Marazzini «il maggior trattato di linguistica dell’Europa medievale».

Con questa sua operazione sul volgare il poeta dà inizio alla cosiddetta “questione della lingua”, un dibattito, relativo a quale lingua utilizzare per la produzione letteraria (stante la varietà delle diverse parlate e tradizioni lessicali regionali presenti in Italia), che si protrarrà fino al XX secolo.

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È indubbio che la sua proposta risulti per molti versi astratta e puramente teorica. Dante afferma la necessità, per la poesia più alta, di una lingua illustre, cioè attentamente scelta e selezionata, e afferma che tale lingua non corrisponde a quella che comunemente si parla in qualsiasi luogo d’Italia, ma è una lingua al di fuori delle contingenze pratiche, che ciascun autore conquista mediante lo studio dei migliori poeti che lo hanno preceduto.
Tuttavia, al di là del limite costituito dall’astrattezza della sua proposta, la lucidità di Dante è testimoniata dall’analisi che egli conduce dei dialetti italiani. L’autore è consapevole della mancanza, in Italia, di una sola «curia», di una corte centrale che funga da catalizzatore culturale e linguistico; perciò prende in esame i dialetti, ipotizzando che proprio gli uomini di cultura saranno i soli in grado di elaborare, tra gli idiomi italiani, il «volgare illustre» che egli sta cercando.

Il magnifico viaggio - volume 1
Il magnifico viaggio - volume 1
Dalle origini al Trecento