Tua vivit imago - volume 1

L autore Lucrezio 1247 inque aliis alium populum sepelire suorum certantes; lacrimis lassi luctuque redibant; inde bonam partem in lectum maerore dabantur; 1250 nec poterat quisquam reperiri, quem neque morbus nec mors nec luctus temptaret tempore tali. e gareggiando per seppellire l uno sugli altri la schiera dei propri cari; tornavano sfiniti di lacrime e pianto; poi si mettevano a letto, in gran parte, per l angoscia; e non si riusciva a trovare nessuno che in quel momento non fosse colpito da morbo o morte o lutto. (trad. L. Canali) 1247-1251. inque aliis tali Questi versi sollevano uno dei problemi lologici più importanti dell intera opera per le conseguenze che ha sull interpretazione generale del poema. Tra il v. 1246 e il v. 1247 non c è continuità logica; si è dunque pensato o a una lacuna dopo il v. 1246 o a una collocazione dei versi in questione dopo il v. 1286. Il libro e l opera verrebbero così a chiudersi in modo più soddisfacente di quanto non accada con i vv. 1283-1286. La collocazione a questo punto rafforza tra l altro la connessione con il resoconto tucidideo sulle varie forme di sepoltura (Guerra del Peloponneso II, 52, 4) e i vv. 12491251, che non hanno un corrispondente preciso in Tucidide, si prestano bene, per il tono generale, a concludere l intera sezione. Inoltre, questi versi sembrano caratterizzati in misura notevole da una intensa allitterazione, che ne innalza il tono stilistico. bonam partem: l accusativo è qui usato invece del nominativo perché si tratta di un espressione idiomatica, di senso quasi avverbiale, come partim. temptaret tempore tali: la triplice allitterazione è anche in altri passi lucreziani un segnale di chiusura : potrebbe essere un ulteriore indizio della corretta collocazione di questi versi al termine del libro. Analisi del testo Una chiusura nel segno della distruzione Questo nale del sesto libro sembra indocile a un interpretazione globale sicura, forse anche per il particolare rilievo che gli dà la sua posizione nel testo. Gran parte della critica ha visto nella cupa desolazione del trionfo della morte che chiude l opera la prova conclusiva del dilemma lucreziano, costretto tra un ideologia di lucido rigore intellettuale e le pulsioni inarrestabili di un angoscia intrinseca alla condizione mortale. Il De rerum natura, aperto dalla celebrazione della vita e della voluptas cantate programmaticamente nell inno a Venere ( T2), si chiuderebbe così, dopo una parabola scandita da tappe ineluttabili, nel segno della distruzione. o la prova ultima di un iter didascalico? A questa interpretazione si oppone forse, prima di tutto, la sua eccessiva ovvietà, il fatto stesso che si presenti con la forza un po dubbia della parafrasi super ciale. Questo, appunto, sembra dire il testo, che trascorre non c è dubbio da Venus a mors. Ma si deve ricordare che il De rerum natura è soprattutto un progetto di educazione, di salvezza offerta grazie agli aurea verba di Epicuro; e che le modalità di svolgimento e le tappe interne di questo progetto contano almeno tanto quanto una rigida sovrapposizione di concetti desunti da momenti diversi dell iter didascalico. così, per esempio, che alcune verità meno immediate e meno intuitive, come appunto lo statuto complesso dell eros nella teoria epicurea ( T14), vengono riservate per un secondo momento, quando il lettore-discepolo ha già afferrato i princìpi basilari che reggono l universo. La scansione per tappe successive dell esperienza del lettore (vera e propria gura di pro ciens, di adepto che progredisce sulla via della sapientia epicurea) è parte integrante del senso del testo, e trova precisi riscontri nella sua articolazione interna. Il lettore attento a decifrare le chiavi interpretative offerte dal poema dovrebbe aver raggiunto, alla ne del sesto libro, una consapevolezza assai diversa da quella con cui, tra scetticismo e timore dichiarato, si era approcciato all opera. Libro dopo libro, argomento dopo argomento, avrà visto dispiegarsi davanti ai suoi occhi le sublimi capacità di spiegazione che la scienza epicurea è in grado di offrirgli. Il testo orienta le reazioni del profectus verso un distacco emotivo che lo lasci spettatore imperturbabile della tragica sorte degli Ateniesi, distrutti, ancor più che dalla virulenza effettiva del morbo, dall incapacità di afferrarne le cause e di mantenere un comportamento eticamente accettabile anche di fronte a una disgrazia apparentemente senza cause e senza scampo. Il lettore maturo dovrebbe cioè vedere nelle reazioni degli Ateniesi pre-epicurei un exemplum terribile che mostra come non si deve reagire, e quanto la vita umana fosse preda di angosce intollerabili prima che il verbo di Epicuro indicasse una concreta via di salvezza. 525

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Età arcaica e repubblicana