T5 - I principati nuovi che si acquistano con le armi di altri e con la fortuna

T5

I principati nuovi che si acquistano con le armi di altri e con la fortuna

Il Principe, VII

Dagli esempi degli antichi eroi si giunge qui a un modello di principe contemporaneo. In questo capitolo, Machiavelli si sofferma a delineare le caratteristiche di un principe condotto al potere dalla fortuna e dalle milizie altrui: la figura dell’eroe virtuoso capace di plasmare, grazie all’azione, la materia offertagli dalla fortuna è Cesare Borgia, detto il Valentino. Il testo che proponiamo è in italiano moderno, nella riscrittura di Luigi Firpo.

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Audiolettura

1. Coloro che solamente con l’aiuto della fortuna da privati cittadini diventano

principi, con poca fatica diventano principi, ma con grande fatica mantengono il

potere. Essi non incontrano alcuna difficoltà lungo il percorso, perché lo fanno

come se volassero. Ma tutte le difficoltà sorgono quando sono giunti al potere.

5      Casi di questo tipo si presentano, quando un principe ottiene uno stato o per

danari o per la grazia di chi lo concede. Ciò avvenne a molti in Grecia, nelle città

della Ionia e dell’Ellesponto. Essi furono fatti principi da Dario,1 affinché mantenessero

quelle città per la sua sicurezza e per la sua gloria. Ciò avvenne ancora a

quegli imperatori romani che, da cittadini privati, pervenivano al potere mediante

10    la corruzione dei soldati.2 Essi restano semplicemente in balia della volontà e della

fortuna di chi ha loro concesso il potere, due cose molto volubili ed instabili.

E non sanno e non possono mantenere quel grado. Non sanno, perché, se non è

uomo di grande ingegno e virtù, non è ragionevole che, essendo sempre vissuto

come cittadino privato, sappia comandare. Non possono, perché non hanno forze

15    che possano essere loro amiche e fedeli. E poi gli stati che sono sorti in pochissimo

tempo, come tutte le altre cose della natura che nascono e crescono in poco

tempo, non possono far penetrare in profondità le loro radici e le loro ramificazioni.

In tal modo il primo tempo avverso li spegne,3 se, come si è detto, costoro,

che così rapidamente sono diventati principi, non sono di tanta virtù che sappiano

20    subito prepararsi a conservare quello che la fortuna ha messo loro in grembo,

e gli costruiscano poi quelle fondamenta che gli altri principi hanno fatto prima

di diventare principi.

2. All’uno ed all’altro di questi modi di diventare principe per virtù o per

fortuna io voglio addurre due esempi che sono avvenuti a nostra memoria.4 Essi

25    sono Francesco Sforza5 e Cesare Borgia.6 Francesco Sforza con i debiti mezzi7 e

con una grande virtù, da privato diventò duca di Milano. E quello che con mille

affanni aveva acquistato, con poca fatica mantenne. Cesare Borgia, chiamato

dal volgo duca Valentino, acquistò invece lo stato con la fortuna del padre, e

con quella lo perdette. Non servì a nulla che usasse ogni opera e facesse tutte

30    quelle cose che un uomo prudente e virtuoso doveva fare, per mettere le radici

in quegli stati che le armi e la fortuna di altri gli avevano concesso. Come più

sopra si disse, chi non fa le fondamenta prima, potrebbe con una grande virtù

farle poi, per quanto si facciano con disagio dell’architetto e pericolo dell’edificio.

Se dunque si considerano tutti i modi di agire del duca, si vedrà che egli ha

35    fatto grandi fondamenta alla sua futura potenza. Di esse non giudico superfluo

discutere, perché io non saprei quali precetti migliori dare a un principe nuovo,

che l’esempio delle sue azioni. E, se i suoi ordinamenti politici non gli recarono

profitto, non fu colpa sua, perché ciò dipese da una straordinaria ed estrema

malignità della fortuna.

40    3. Nel voler fare grande il duca suo figlio, Alessandro VI8 aveva numerose

difficoltà presenti e future. Per prima cosa non vedeva via di poterlo fare signore

di alcuno stato che non fosse lo stato di Chiesa.9 E, se si volgeva a togliere quello

della Chiesa, sapeva che il duca di Milano e i veneziani non glielo avrebbero

acconsentito,10 perché Faenza e Rimini erano già sotto la protezione dei veneziani.

45    Per seconda cosa vedeva che gli eserciti dell’Italia11 (in particolare quello di

colui di cui si poteva servire) erano nelle mani di coloro che dovevano temere la

grandezza del papa. Perciò non se ne poteva fidare, poiché erano tutti capeggiati

dagli Orsini e dai Colonna,12 e dai loro complici. Era adunque necessario che si

sconvolgessero quegli ordinamenti politici e che si disarticolassero gli stati di

50    costoro, per far sì che egli si potesse insediare con sicurezza su parte di quegli

stati. Ciò gli fu facile; perché trovò che i veneziani, mossi da altre cause, avevano

deciso di far ritornare i francesi in Italia.13 Ciò non solamente non ostacolò i

suoi piani, ma li rese anche più facili con lo scioglimento del precedente matrimonio

del re Luigi XII.14 Il re passò dunque in Italia con l’aiuto dei veneziani e

55    con il consenso di Alessandro VI. Non era giunto a Milano, che il papa ebbe da

lui un contingente di soldati15 per l’impresa di Romagna.16 Essa gli fu resa possibile

per la reputazione17 del re. Così egli acquistò la Romagna e batté i Colonna.

Per mantenerla e per procedere con i suoi piani, il duca era impedito18 da due

cose: l’una, le sue armi che non gli sembravano fedeli; l’altra, la volontà della

60    Francia. Egli temeva che le armi degli Orsini, delle quali si era finora valso, lo

abbandonassero, e non solamente gli impedissero di acquistare altri territori,

ma gli togliessero anche quelli che aveva acquistato. Temeva che anche il re si

comportasse allo stesso modo. Della scarsa affidabilità degli Orsini ebbe un

riscontro di lì a poco, quando dopo l’espugnazione di Faenza, assalì Bologna.

65    Li vide andare freddi in quell’assalto.19 Circa il re, conobbe il suo animo quando,

conquistato il ducato di Urbino, assalì la Toscana. Da questa impresa il re

lo fece desistere. Perciò il duca decise di non dipendere più dalle armi e dalla

fortuna di altri. Per prima cosa indebolì i partigiani degli Orsini e dei Colonna

in Roma: guadagnò20 tutti i loro aderenti che fossero gentiluomini,21 facendoli

70    suoi gentiluomini e dando loro grandi stipendi. Secondo le loro qualità li onorò

di comandi militari e di governi. In tal modo in pochi mesi negli animi loro

l’attaccamento alle fazioni si spense e si volse tutto verso il duca. Dopo questa,

aspettò l’occasione di spegnere gli Orsini, avendo dispersi quelli di casa Colonna.

L’occasione gli giunse bene ed egli la usò meglio.22 Gli Orsini si erano accorti

75    troppo tardi che la grandezza del duca e della Chiesa erano la loro rovina. Perciò

fecero una riunione alla Magione, nel territorio di Perugia. Da quella riunione

nacquero la ribellione di Urbino, i tumulti di Romagna e infiniti altri pericoli.

Il duca li superò tutti con l’aiuto dei francesi. Una volta riacquistata la reputazione,

non fidandosi della Francia né delle altre forze esterne, per non doversi

80    scontrare con esse, ricorse agli inganni. Seppe tanto dissimulare il suo animo,

che gli Orsini, attraverso il signor Paolo Orsini, si riconciliarono con lui.23 Con

lui il duca ricorse ad ogni genere di cortesie per rassicurarlo. Gli diede danari,

vesti e cavalli; tanto che la loro semplicità24 li condusse a Sinigallia nelle sue

mani.25 Spegnendo questi capi e riducendo i loro partigiani ad amici suoi, il

85    duca aveva gettato fondamenta molto buone alla sua potenza: aveva il possesso

della Romagna con il ducato di Urbino. In particolare gli sembrava di aver acquistato

l’amicizia della Romagna e di essersi guadagnato tutti quei popoli, che

avevano incominciato a gustare il loro bene essere.26

4. Questa parte è degna di nota e merita di essere imitata da altri, perciò

90    non la voglio tralasciare. Il duca conquistò la Romagna e trovò che era stata

comandata da signori impotenti, che avevano spogliato i loro sudditi più che

riportati all’ordine. E avevano dato loro motivi di disunione, non di unione,27

tanto che quella provincia era tutta piena di latrocini, di brighe e di ogni altro

genere di insolenza.28 Per ridurla pacifica e obbediente al potere sovrano, egli

95    giudicò che fosse necessario darle un buon governo. Perciò vi prepose messer

Remirro de Orco,29 un uomo crudele e di modi sbrigativi, al quale dette i pieni

poteri. Costui in poco tempo la ridusse pacifica ed unita, ottenendo una grandissima

reputazione. Il duca giudicò poi che non era necessario un’autorità così

eccessiva, perché temeva che divenisse odiosa. E prepose un tribunale civile30 al

100  centro della provincia con un presidente davvero eccellente.31 In esso ogni città

aveva il suo avvocato. E, poiché capiva che le repressioni precedenti gli avevano

procurato qualche odio,32 per liberare da ogni ostilità gli animi di quei popoli

e guadagnarseli del tutto, volle mostrare che, se era avvenuta qualche crudeltà,

non era stata colpa sua, ma del cattivo carattere del ministro.33 Cogliendo l’occasione

105  opportuna, una mattina lo fece mettere tagliato in due pezzi sulla piazza

di Cesena, con un pezzo di legno e un coltello insanguinato accanto.34 La ferocia

di quello spettacolo fece sì che quei popoli rimanessero ad un tempo soddisfatti

e stupiti.35

5. Ma ritorniamo al punto di partenza. Dico che il duca si trovava assai potente

110  ed in parte si era assicurato dei presenti pericoli, poiché si era armato a suo modo

e aveva in buona parte spente quelle armi che, vicine, lo potevano offendere. Ora,

se voleva procedere con l’acquisto di altri territori, gli restava il rispetto del re di

Francia. Egli capiva che il re, il quale si era accorto troppo tardi del suo errore,36

non glielo avrebbe permesso. Per questo motivo incominciò a cercare nuove amicizie

115  e a prendere le distanze con la Francia, quando i francesi fecero una spedizione

verso il regno di Napoli contro agli spagnoli che assediavano Gaeta.37 La sua

intenzione era quella di assicurarsi la loro neutralità. Ciò gli sarebbe facilmente

riuscito, se Alessandro VI fosse rimasto in vita.38

6. Questi furono i suoi comportamenti quanto alle cose presenti. Ma, quanto

120  alle future, egli temeva in primo luogo che il nuovo successore alla Chiesa39

non gli fosse amico e che cercasse di togliergli quello che Alessandro VI gli aveva

dato. Pensò di eliminare ogni incertezza in quattro modi: primo, spegnere

tutti i discendenti di quelli signori che egli aveva spogliato, per togliere al papa

quell’occasione; secondo, guadagnarsi tutti i gentiluomini di Roma, per potere

125  tenere con quelli il papa in freno; terzo, ridurre il Collegio dei cardinali più

suo che poteva;40 quarto, acquistare tanto potere, prima che il papa morisse, da

poter resistere da solo a un primo scontro. Alla morte di Alessandro VI aveva

condotto a termine tre di queste quattro imprese. Aveva quasi portato a termine

anche la quarta. Dei signori spogliati dei loro beni ne ammazzò quanti ne poté

130  raggiungere, e pochissimi si salvarono. Si era guadagnato i gentiluomini romani.

E nel Collegio cardinalizio aveva grandissimo séguito. Quanto al nuovo acquisto,

aveva disegnato di diventare signore della Toscana. Possedeva già Perugia

e Piombino, e aveva preso la protezione di Pisa. E, come se non dovesse avere

rispetto per la Francia (non gliene doveva più, perché i francesi erano già stati

135  spogliati del Regno di Napoli dagli spagnoli, così che ciascuno di loro era costretto

a comperare la sua amicizia), assaliva41 con successo la città di Pisa. Dopo

questo, Lucca e Siena cedevano42 subito, in parte per invidia43 dei fiorentini, in

parte per paura. I fiorentini non avevano alcun rimedio da opporre.44 Se ciò gli

fosse riuscito (gli riusciva45 l’anno stesso in cui Alessandro VI moriva), acquistava

140  tante forze e tanta reputazione, che si sarebbe sorretto da solo, e non sarebbe

più dipeso dalla fortuna né dalle forze di altri, ma dalla sua potenza e dalla sua

virtù. Ma Alessandro VI morì dopo cinque anni che egli aveva incominciato ad

impugnare la spada.46 Lo lasciò con lo stato di Romagna solamente consolidato,

con tutti gli altri in aria,47 tra due potentissimi eserciti nemici,48 e soprattutto

145  malato a morte.49 Il duca era di grande ferocia e di grande virtù; conosceva bene

come gli uomini si guadagnano e si perdono; ed al suo stato aveva anche saputo

costruire valide fondamenta in poco tempo. Per questo motivo, se non avesse

avuto quegli eserciti addosso o se egli fosse stato sano, avrebbe saputo far fronte

ad ogni difficoltà. E che le sue fondamenta fossero buone, si vide con sicurezza:

150  la Romagna l’aspettò per più d’un mese;50 a Roma, per quanto mezzo morto,

stette sicuro; e, benché Baglioni, Vitelli ed Orsini51 venissero in Roma, non tentarono

nulla contro di lui. Egli poté fare papa, se non chi egli voleva, almeno

che non fosse chi non voleva.52 Ma, se alla morte di Alessandro VI fosse stato

sano, ogni cosa gli era facile. Egli mi disse, nei giorni in cui fu nominato Giulio

155  II,53 che aveva pensato a ciò che poteva succedere, alla morte di suo padre, e a

tutto aveva trovato rimedio, eccetto che non pensò mai, alla sua morte, di stare

ancora lui per morire.

7. Riflettendo su tutte le azioni del duca qui riportate, non saprei rimproverarlo.

Mi pare anzi, come ho già fatto, di poterlo indicare come modello da

160  imitare per tutti coloro che grazie alla fortuna e con le armi di altri sono saliti

al potere. Egli aveva un grande animo e una nobile intenzione,54 perciò non si

poteva comportare in altro modo. Ai suoi disegni si oppose soltanto la brevità

della vita di Alessandro VI e la sua malattia. Chi dunque giudica necessario nel

suo principato nuovo assicurarsi dei nemici,55 guadagnarsi degli amici, vincere o

165  per forza o per frode, farsi amare e temere dai popoli, farsi seguire e farsi temere

dai soldati, spegnere quelli che ti possono o ti devono offendere, innovare con

nuove istituzioni gli ordinamenti politici antichi, essere severo e grato, magnanimo

e liberale, spegnere la milizia infedele, crearne una nuova, mantenere le

amicizie di re e di principi in modo che ti abbino o a beneficare con grazia o

170  a offendere con rispetto,56 non può trovare esempi più freschi57 che le azioni

di costui. Si può solamente muovergli qualche rimprovero per la nomina del

pontefice Giulio II, nella quale egli fece una cattiva scelta. Come si è detto, se

non poteva fare un papa a suo modo, poteva almeno ottenere che uno non fosse

papa. Non doveva neanche permettere che divenisse papa uno di quei cardinali

175  che egli aveva offeso o, se lo diveniva, doveva fare in modo che avesse paura di

lui. Gli uomini offendono o per paura o per odio. Quelli che egli aveva offeso

erano, fra gli altri, San Pietro in Vincoli, Giovanni Colonna, San Giorgio, Ascanio

Sforza. Tutti gli altri cardinali, che fossero divenuti papa, dovevano temerlo,

eccetto Roano e gli spagnoli. Questi per il legame di parentela e per obbligo;

180  quello per la potenza, poiché aveva alle spalle il re di Francia.58 Pertanto il duca,

prima di ogni altra cosa, doveva creare papa uno spagnolo. Non potendo, doveva

acconsentire che fosse Roano e non San Pietro in Vincoli. E chi crede che

nei grandi personaggi i benefici nuovi facciano dimenticare le ingiurie vecchie,

si inganna. Il duca quindi commise un errore in questa elezione. E questo errore

185  fu causa della sua rovina definitiva.

 >> pagina 862

DENTRO IL TESTO

I contenuti tematici

A differenza della condizione analizzata nel capitolo VI, nel VII Machiavelli prende in esame una situazione più difficile, quella di chi voglia mantenere il potere dovendo dipendere dalle armi e la fortuna di altri (r. 31). Questa è un’impresa ardua, in quanto al principe che ha beneficiato della fortuna spetta il compito poi di emanciparsi da essa. Infatti, uno Stato costituito solo grazie al concorso di circostanze esterne propizie è paragonato a un albero cresciuto in fretta, senza le radici e le loro ramificazioni (rr. 17-18): questa metafora* botanica rivela ancora una volta la concezione naturalistica di Machiavelli e rende l’idea della vulnerabilità dello Stato, se a esso non vengono fornite al più presto le fondamenta, che la fortuna non è in grado di erigere.

 >> pagina 863

Fatte queste premesse generali su Coloro e’ quali solamente per fortuna diventano di privati principi (r. 1-2), Machiavelli dedica tutto il capitolo a una figura esemplare: il duca Valentino, Cesare Borgia, figlio naturale di papa Alessandro VI. La ricostruzione della vicenda del Valentino offre un documento eccezionale della realtà delle lotte per il potere in un Cinquecento brutale e sanguinario, ben lontano dall’immagine idealizzante divulgata dall’arte rinascimentale. Il personaggio, così come lo delinea Machiavelli, assume le fattezze di un eroe tragico e grandioso, in lotta con gli ingranaggi di un potere losco e subdolo, costretto a soccombere, pure a dispetto delle sue grandi virtù.

Per descrivere l’azione politica del principe seguiremo l’andamento cronologico utilizzato dall’autore isolando tre fasi essenziali: la conquista dello Stato; il rafforzamento del potere; i progetti futuri e la sconfitta.

Il racconto delle vicende del Valentino inizia con le difficultà presenti e future di papa Alessandro VI nel volere fare grande il duca suo figliuolo (rr. 40-41) e dargli un principato. La discesa in Italia di Luigi XII permette al pontefice di superare i due ostacoli maggiori: l’opposizione veneziana e milanese e l’insidia rappresentata dalle fazioni legate alle potenti famiglie romane degli Orsini e dei Colonna.

Ottenuto il principato, Cesare Borgia mostra risolutezza nel non dipendere più dall’arme e fortuna di altri (r. 31). Machiavelli indica le sue iniziative più lungimiranti (e, in alcune occasioni, efferate, ma ciò non induce l’autore a stigmatizzarle): uccidere gli Orsini, accaparrarsi il favore dei romagnoli, preparare un’alleanza con gli spagnoli.

Il Valentino è consapevole che la stabilità del suo Stato deriva dal favore del papa, e inizia a operare in modo che il pontefice destinato a succedere al padre non gli sia ostile. A questo fine, uccide gli eredi e i parenti di quelli che aveva spogliato di beni e potere, e si guadagna il favore dei nobili romani e del Collegio cardinalizio.

Eppure, nonostante la sua abilità, il tentativo del Valentino fallisce. L’avversativa usata da Machiavelli (Ma Alessandro morì, r. 143) evidenzia l’ingerenza negativa della fortuna, che si concretizza nella morte del padre e nella malattia del principe. Il capitolo dunque sembrerebbe avviarsi a un epilogo sconsolante: la fortuna è onnipotente, se è vero che anche un uomo “virtuoso” come il Valentino non ha potuto resisterle. Tuttavia, in conclusione Machiavelli introduce una diversa valutazione e attribuisce al Valentino un fatale errore di calcolo. Solamente si può accusarlo (r. 158) di non avere evitato che alla morte di papa Pio III ascendesse al soglio pontificio un irriducibile nemico dei Borgia, Giuliano della Rovere: la ruina (r. 173) di Cesare Borgia è dipesa proprio da questa mala elezione (r. 159).

VERSO LE COMPETENZE

Comprendere

1 Riassumi in 20 righe il contenuto del capitolo.


2 L’insuccesso finale del Valentino viene spiegato da Machiavelli fornendo, in passi diversi, due interpretazioni contraddittorie tra loro. Quali?

ANALIZZARE

3 Quali eventi, tra quelli narrati, hanno avuto Machiavelli come testimone diretto?

INTERPRETARE

4 Oltre a quello di Cesare Borgia, l’autore analizza anche l’operato di Francesco Sforza. Perché?


5 Sintetizza le ragioni dell’ammirazione di Machiavelli per il Valentino esposte nel capitolo.

scrivere per...

COMUNICARE

6 Immagina di essere l’avvocato difensore del Valentino e il pubblico ministero che lo accusa. Metti per iscritto le due arringhe.

Dibattito in classe

7 Secondo Machiavelli, il potere politico conquistato con l’appoggio di altri è più instabile rispetto a quello conquistato facendo affidamento unicamente sui propri mezzi. Sei d’accordo con lui? Ti vengono in mente esempi, storici o recenti, che suffraghino l’una o l’altra tesi? Discutine con i compagni.

Classe di letteratura - volume 1
Classe di letteratura - volume 1
Dalle origini al Cinquecento