CRITICI A CONFRONTO - Benedetto Croce, Lanfranco Caretti, Stefano Jossa - E Ariosto che ne pensa?

CRITICI A CONFRONTO

Benedetto Croce, Lanfranco Caretti, Stefano Jossa

E Ariosto che ne pensa?

Qual è il rapporto che intercorre tra il poeta e la materia del suo poema? Per molti decenni, la critica letteraria italiana ha seguito la scia della risposta fornita da Benedetto Croce (1866-1952), che individua in Ariosto il campione dell’armonia intesa come arte pura, capace di conciliare contenuto e forma in una sintesi perfetta. Altre piste seguono, invece, le interpretazioni di Lanfranco Caretti (1915-1995), che vede nell’Orlando furioso una sorta di romanzo contemporaneo, specchio delle passioni e delle contraddizioni del suo tempo, e di Stefano Jossa (n. 1966), che sottolinea il ruolo dell’autore stesso, protagonista accanto ad Angelica, a Orlando e a tutti i paladini dell’universo cavalleresco.

Benedetto Croce

Tutti i sentimenti, i sublimi e gli scherzosi, i teneri e i forti, le effusioni del cuore e le escogitazioni dell’intelletto, i ragionamenti d’amore e i cataloghi encomiastici di nomi, le rappresentazioni di battaglie e i motti della comicità, tutti sono alla pari abbassati dall’ironia ed elevati in lei.

Sopra l’eguale caduta di tutti, s’innalza la maraviglia dell’ottava ariostesca, che è cosa che vive per sé: un’ottava che non sarebbe sufficientemente qualificata col dirla sorridente, salvo che il sorriso non s’intenda nel senso ideale, appunto come manifestazione di vita libera ed armonica, energica ed equilibrata, battente nelle vene ricche di buon sangue e pacata in questo battito incessante. Quelle ottave hanno la corporeità ora di floride giovinette ora di efebi ben formati, sciolte le membra nell’esercizio dei muscoli, e che non si affannano a dar prova della loro destrezza, perché essa si rivela, in ogni loro atteggiamento e gesto. […]

Si direbbe, l’ironia di Ariosto, simile all’occhio di Dio che guarda il muoversi della creazione, di tutta la creazione, amandola alla pari, nel bene e nel male, nel grandissimo e nel piccolissimo, nell’uomo e nel granello di sabbia, perché l’ha fatta lui, e non cogliendo in essa che il moto stesso, l’eterna dialettica, il ritmo e l’armonia.


(Benedetto Croce, Ariosto, Shakespeare e Corneille, Laterza, Bari 1920)

Lanfranco Caretti

Apparirà chiaro che l’Ariosto non è affatto indifferente alla propria materia, ma partecipa ad essa con tutto il suo impegno. Anzi, è egli stesso che la suscita, la foggia e la definisce, trasformando così il poema cavalleresco in romanzo contemporaneo, nel romanzo cioè delle passioni e delle aspirazioni degli uomini del suo tempo. E se tutto questo è avvenuto senza visibile spargimento di sangue, ma nella forma più semplice e naturale, il grande merito è da ricercare in quella condizione di straordinaria saggezza che l’Ariosto aveva saputo attingere attraverso un’attiva esperienza della vita. Quella saggezza consisteva in un’apertura serena e cordiale verso il mondo, fondata sulla conoscenza dell’uomo, della sua varia e anche contraddittoria natura, e sull’accettazione della realtà in tutti i suoi aspetti.


(Lanfranco Caretti, Ariosto e Tasso, Einaudi, Torino 1970)

Stefano Jossa

Ariosto non è solo il narratore che gestisce «varie fila a varie tele», ma è anche l’«io» del poeta che è personalmente coinvolto nella vicenda. Fin dall’inizio l’autore è come Orlando, pazzo d’amore, al punto che il destino del poema dipende dagli eventi esterni (I 2, 5-8): «se da colei che tal quasi m’ha fatto, / che ’l poco ingegno ad or ad or mi lima, / me ne sarà però tanto concesso, / che mi basti a finir quanto ho promesso». Il poema è fin dall’inizio, una sfida contro la morte, cioè contro la possibilità di un evento esterno che gli impedisca di arrivare alla fine. Più volte Ariosto si esibisce infatti come «poeta», costretto a confrontarsi con l’impossibilità della materia («Chi mi darà la voce e le parole [...]?», III 1, 1, oppure «Chi narrerà l’angosce, i pianti e i gridi [...]?», VIII 66, 1), ma soprattutto legato indissolubilmente ai suoi personaggi, come quando si sente chiamare da Astolfo che teme di essere stato dimenticato:


Di questo altrove io vo’ rendervi conto;

ch’ad un gran Duca è forza ch’io riguardi,

il qual mi grida, e di lontano accenna,

e priega ch’io no ’l lasci ne la penna.


o quando si sente responsabile del destino di Ruggiero:


Ma mi parrìa, Signor, far troppo fallo,

se, per voler di costor dir, lasciassi

tanto Ruggier nel mar che v’affogassi.


S’instaura in tal modo, tra l’autore e i personaggi, non solo un gioco di specchi, ma soprattutto una complicità narrativa, che è stata di volta in volta interpretata come demolizione della credibilità dell’opera o come esibizione del poeta creatore. Ciò che conta, però, è che Ariosto è dentro il poema molto di più di tutti i suoi predecessori, perché il poema non è solo una creazione dell’autore, ma anche il luogo in cui si deposita un’esperienza esistenziale che diventa paradigmatica in quanto, al tempo stesso, esperita soggettivamente dall’autore ed esperibile collettivamente da tutti.


(Stefano Jossa, Ariosto, Il Mulino, Bologna 2009)

PER SCRIVERNE

Concentrati sul testo di Ariosto che hai appena letto: Orlando e gli altri paladini cercano, inutilmente e in ogni dove, la donna di cui sono innamorati. Quale atteggiamento ti sembra manifestare Ariosto nel suo racconto? Quale delle tre interpretazioni critiche, a tuo giudizio, è più convincente nel descrivere in questo passo lo sguardo dell’autore? Motiva la tua risposta in un testo argomentativo.

Classe di letteratura - volume 1
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Dalle origini al Cinquecento