I temi e la visione del mondo

I temi e la visione del mondo

I dieci ragazzi raccontano, dunque, cento novelle, affrontando temi vari, ispirandosi a tradizioni diverse, introducendo talvolta addirittura un terzo grado di narrazione: un personaggio di una novella che a sua volta racconta. All’interno di questa struttura-contenitore delle novelle, che è di estrema compattezza, esiste una notevole libertà di contenuti, il cui unico vincolo rimane il tema di riferimento.

Nel corso di ogni singola giornata, infatti, ci si muove nello spazio e nel tempo, si seguono le gesta di marinai, principi, monaci e monache, pirati, cittadini, ma soprattutto mercanti; ci si trova in alto mare, nelle strade della Firenze e della Napoli che Boccaccio conosce così bene, nel chiuso dei conventi e delle chiese, in aperta campagna, tra la folla o in solitudine. In questo si rivela evidentemente preziosissima l’esperienza di Boccaccio nel mondo mercantile e finanziario delle diverse città italiane; il contatto con banchieri, mercanti e un infinito campionario di tipi umani rappresenta il bacino da cui l’autore attinge per la creazione delle novelle.

Le tre forze che muovono il mondo

Per Boccaccio sono tre, principalmente, le forze che guidano le azioni degli uomini: la fortuna, l’amore, l’ingegno (cioè l’intelligenza).

La fortuna Spesso i destini dei personaggi del Decameron sono determinati dalla fortuna, intesa come caso fortuito (il tema è particolarmente presente nelle novelle della Seconda e della Terza giornata: si veda, soprattutto, la novella di Andreuccio da Perugia, II, 5, T6, p. 496). Va detto però che il concetto che ha Boccaccio della fortuna è laico: essa è costituita, ai suoi occhi, da un insieme di forze, eventi e accidenti incontrollabili da parte dell’uomo, che però può cercare, per quanto riesca, di contrastarne l’azione distruttrice, opponendole (e qui sta l’ottimismo quasi prerinascimentale dello scrittore) le risorse dell’intelligenza.

Si tratta di un’idea molto diversa da quella che aveva Dante (e con lui tutta la cultura medievale): nel canto VII dell’Inferno viene detto chiaramente che la Fortuna è un’intelligenza angelica (per questo la parola è scritta con l’iniziale maiuscola), che ha il compito di trasferire i beni materiali da un individuo all’altro, da una famiglia all’altra, da una nazione all’altra e così via, per far comprendere agli esseri umani il carattere effimero delle cose di questo mondo.

L’amore Un altro argomento che trova frequente ospitalità nelle novelle di Boccaccio è l’amore. Abbiamo visto che tale tematica era già assai presente nelle opere giovanili. In quei testi, però, c’era un’urgenza autobiografica molto forte: erano opere, cioè, in cui l’amore di cui si parlava era spesso un sentimento effettivamente provato in prima persona dall’autore. Nel Decameron invece, Boccaccio, in età più matura, libero dalle passioni, può lasciarsi andare a contemplarle negli altri, con l’empatia di chi le ha sperimentate, ma anche con il distacco necessario per una loro rappresentazione più oggettiva.

La tematica amorosa è presente in moltissime novelle, non solo in quelle delle giornate Quarta (amori infelici: Lisabetta da Messina, IV, 5, T8, p. 509) e Quinta (amori felici: Federigo degli Alberighi, V, 9, T10, p. 523). Con esse Boccaccio si pone in netta polemica con lo spiritualismo e l’ascetismo medievale, che avevano visto per lo più l’amore come una realtà peccaminosa: da qui la satira spesso molto tagliente contro l’ipocrisia dei religiosi, quegli uomini e quelle donne di Chiesa (preti, frati, monaci, suore) che predicano la morale ma poi agiscono in modo opposto. Per Boccaccio l’amore e la sessualità sono invece realtà assolutamente naturali, alle quali è colpevole volersi opporre: devono essere assecondate, altrimenti si va contro le esigenze della natura.

Per questa sua posizione l’autore – prima ancora che il Decameron sia completato, quando probabilmente circolano già alcune delle novelle – è accusato di immoralità e oscenità. Boccaccio si difende nell’Introduzione alla Quarta giornata attraverso una «novelletta», la cosiddetta “novella delle papere” ( T7, p. 506), contenuta nella stessa Introduzione (e che potremmo considerare la centunesima novella del Decameron): si tratta di un piccolo manifesto della visione laica e naturalistica del sentimento amoroso, compresa la concreta espressione della sessualità, tipica di Boccaccio.

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L’ingegno Il critico Umberto Bosco ha definito il Decameron come «poema dell’intelligenza». L’opera si configura infatti come una grande esaltazione dell’intelligenza degli uomini, quella che Boccaccio chiama «ingegno» (o anche «industria») e che contempla una serie molto varia di sfumature: dalla semplice capacità di penetrazione del reale e di adattamento alle diverse circostanze, in modo da volgere le situazioni a proprio favore (come nel caso di Andreuccio da Perugia, II, 5, T6, p. 496, o di Masetto da Lamporecchio, III, 1), all’astuzia del furfante più disonesto (come avviene con ser Ciappelletto, I, 1, T5, p. 486).

Il tema dell’intelligenza è sviluppato soprattutto nella seconda metà dell’opera: nella Sesta giornata, dedicata ai motti di spirito (Chichibio, VI, 4, T11, p. 530, e Guido Cavalcanti, VI, 9, T12, p. 533), nella Settima, con le beffe delle donne ai mariti (Tofano e monna Ghita, VII, 4), e nell’Ottava, con le beffe in generale.

Se il valore dell’intelligenza è da Boccaccio così apprezzato, altrettanto criticato è il disvalore della dabbenaggine e della stoltezza. Lo scrittore non nasconde la propria simpatia per i personaggi che manifestano finezza, ingegno e persino astuzia diabolica, magari a scapito degli stolti e dei creduloni (come lo sciocco Calandrino, vittima in tre diverse novelle di altrettante beffe: vedi per esempio la VIII, 3, T13, p. 537 e la IX, 3).

L’esaltazione delle qualità umane

Il relativismo etico Nell’intreccio dei diversi temi, ciò che colpisce è l’inno che Boccaccio innalza all’essere umano, al suo «ingegno», alle sue capacità intellettuali e pratiche, alla sua iniziativa personale e alle sue doti creative, in grado di salvarlo da qualunque insidia che la fortuna e l'amore possono riservare. Viene meno, da parte dell’autore, un criterio organico e universale per giudicare sul piano morale la condotta individuale: Boccaccio ritiene superate le impalcature ideologiche e filosofiche presenti nella mentalità medievale (quella dantesca, per esempio) e si astiene pertanto dall’emettere sentenze di natura etica, volgendosi invece a una forma di relativismo, secondo il quale ogni azione può essere condannata o giustificata a seconda delle circostanze.

Ciò spiega perché nel Decameron i personaggi vincenti, ancorché talvolta riprovevoli secondo una concezione morale tradizionale, rigida e precettistica, siano quelli che mostrano una capacità di uscire indenni dagli ostacoli posti dall’esistenza grazie all’intraprendenza e alla sagacia, sia pure truffaldina o disonesta: a cominciare da ser Ciappelletto che, nella prima novella, apre la raccolta. Si tratta di capacità trasversali dal punto di vista sociale: sono messi alla berlina principi e sempliciotti, uomini di Chiesa corrotti (la satira anticlericale è un altro motivo ricorrente nell’opera) e servi sciocchi. Segni distintivi dell’intelligenza sono anche la consapevolezza della realtà e l’accettazione delle sconfitte. Siamo ben lontani – appare evidente – dall’atteggiamento fatalistico, aristocratico e teocentrico che aveva caratterizzato la cultura precedente. E questa è un’altra grande conquista di Boccaccio.

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L’arte di saper parlare Hanno successo, nelle varie novelle, i personaggi che sono in grado di superare le peripezie grazie alle loro capacità tutte umane, affidandosi completamente all’intuito, alla conoscenza del mondo e dell’uomo, all’esperienza e alla parola. Su quest’ultimo punto – la celebrazione della parola – Boccaccio insiste in diverse novelle: saper parlare bene, a proposito, in maniera efficace e adatta alla situazione è una qualità che lo scrittore mostra di apprezzare in particolar modo. E in fondo l’intero Decameron può essere letto come un’esaltazione dell’arte del parlare, oltre che del raccontare.

Etica cortese ed etica borghese L’ultima giornata è dedicata ai valori della cortesia e della magnanimità, cioè a quei valori che erano stati tipici della società e della letteratura cortese (presenti, d’altronde, anche in diverse novelle delle altre giornate, come la già citata V, 9, T10, p. 523). Lo scrittore sceglie di proporli al nuovo pubblico borghese, che gli appare pronto a subentrare, sul piano della primazia sociale, all’antica nobiltà feudale.

Tuttavia Boccaccio non è affatto un nostalgico del tempo passato. Al contrario, tutto proiettato com’è nel futuro, è il primo a riconoscere che l’universo feudale aveva spesso dato origine a vere e proprie aberrazioni, per esempio l’esasperazione di un potere assoluto senza limiti e senza freni: nell’ultima novella del libro troviamo l’esempio della «matta bestialità» di Gualtieri, il marchese di Saluzzo, che tormenta crudelmente la propria moglie, Griselda, per metterne alla prova la pazienza e la fedeltà ai limiti dell’umana sopportazione. Con questa novella l’autore vuole mostrare l’estremo negativo del mondo aristocratico-feudale. Non per questo, però, Boccaccio crede che le virtù cortesi siano tramontate: quei valori vanno trapiantati, e adattati, nella nuova società comunale.

Se l’autore quindi da una parte manifesta la propria adesione ai valori della borghesia mercantile a lui contemporanea (intelligenza pratica, prontezza di spirito, audacia, libertà intellettuale e religiosa, capacità di indirizzare le circostanze a proprio vantaggio, considerazione degli aspetti economici, riconoscimento del valore degli individui rispetto ai privilegi derivanti dalle origini familiari), dall’altra ritiene che possano ancora essere validi e nobilitanti per la borghesia stessa i valori della società cortese, aristocratica e feudale (liberalità, magnificenza, lealtà, coraggio, senso dell’onore).

La celebrazione della realtà terrena Il fatto che le diverse giornate e novelle siano incentrate su temi diversi non mette in discussione l’unità dell’opera. Il Decameron è un libro organico, unificato nei suoi diversi momenti – oltre che, sul piano formale, dalla struttura che abbiamo descritto sopra – dall’acuta capacità di Boccaccio di osservare la realtà e forse soprattutto dal suo costante sentimento di adesione alla vita: l’autore canta l’esistenza umana nei suoi molteplici aspetti, compresi quelli concreti e terreni, che anzi sono i primi a essere esaltati, senza preoccupazioni morali e religiose. Questo aspetto centrale della sua opera consente di affermare che egli ha molto contribuito, con le sue cento novelle, alla formazione della concezione della vita e della letteratura che si affermerà nel Quattro e nel Cinquecento.

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Le novità dello stile

Il Decameron è un’opera estremamente innovativa, non solo, come abbiamo visto, per i contenuti, ma anche per la struttura e le soluzioni stilistiche adottate dall’autore.

Il ruolo dei dieci narratori Dal punto di vista formale, il primo aspetto caratteristico è senza dubbio la scelta di Boccaccio di affidare la narrazione a “narratori intermediari”, quasi sempre portatori del suo punto di vista. Sono personaggi la cui caratterizzazione è quasi unicamente affidata al loro nome-simbolo e che all’occorrenza consentono all’autore una certa presa di distanza dalla materia trattata. In altre parole, non identificandosi con nessuno dei narratori in particolare, l’autore può introdurre nel testo una molteplicità di punti di vista, corrispondenti a quelli dei dieci giovani della brigata; e ciò gli consente un’estrema libertà di sguardo, liberandolo da un eccessivo coinvolgimento psicologico e ideologico.

L’efficacia della narrazione Boccaccio sa sempre delineare molto bene i caratteri dei personaggi delle varie novelle, sui quali è costantemente concentrata l’azione narrativa, senza cedimenti a particolari inutili o sovrabbondanti che distrarrebbero il lettore dallo svolgimento dell’azione stessa.

Anche l’ambiente non è mai trascurato: lo sfondo in cui si svolgono le azioni è anzi sempre caratterizzato efficacemente, sebbene spesso con pochi ed essenziali tratti. Insomma, Boccaccio si rivela nel Decameron uno scrittore molto accorto e pienamente padrone della tecnica narrativa, della quale non a torto sarà a lungo considerato un maestro imprescindibile.

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La lingua e la sintassi Per quanto riguarda, infine, le scelte sintattiche e lessicali, Boccaccio si dimostra sempre molto attento nell’adeguare il linguaggio ai personaggi, agli ambienti, alle situazioni e alle epoche. Ogni personaggio parla la “sua” lingua: a partire dalla base del volgare fiorentino codificato da Dante, l’autore riesce in ogni novella a caratterizzare, per alcuni particolari aspetti lessicali, la lingua dei personaggi in base alla classe sociale, al livello culturale, al luogo geografico e al momento storico.

In tal modo variano e si intrecciano, da una novella all’altra, i registri linguistici: da quello popolaresco a quello aristocratico, da quello commerciale a quello giuridico-notarile, da quello laico a quello ecclesiastico. Anche da questo punto di vista, dunque, il Decameron rappresenta un campionario di straordinaria ricchezza, una testimonianza di varietà linguistica davvero preziosa. Per questo possiamo parlare, a proposito del Decameron, di plurilinguismo e di pluristilismo (diversamente dal Canzoniere di Petrarca, caratterizzato dal monolinguismo e dal monostilismo).

La prosa di Boccaccio, però, è modellata stilisticamente sui classici latini, soprattutto Cicerone e Livio: da qui una certa complessità della costruzione dei periodi, che in taluni passi può inibire un’immediata comprensione da parte del lettore odierno. La difficoltà è, dunque, più nella sintassi che nella lingua, che presenta ovviamente molti vocaboli per noi arcaici e desueti, ma non è poi così lontana dalla nostra.

Classe di letteratura - volume 1
Classe di letteratura - volume 1
Dalle origini al Cinquecento