I personaggi e il poeta

I personaggi e il poeta

La molteplicità dei personaggi

Una folla di personaggi, mitici e storici, dell’antichità e dei secoli a Dante più vicini, anima ininterrottamente tutto il poema dantesco, a cominciare da Virgilio, simbolo della ragione umana, prescelto a rappresentare l’eredità della cultura classica nella civiltà cristiana, come del resto l’altro poeta latino, Stazio, che Dante incontra durante l’ascesa del Purgatorio.

Personaggi classici… Dante si professa esplicitamente erede della tradizione antica, che però rivisita e rilegge in virtù della “vera” religione, quella cristiana, che si è imposta su quella pagana.

Il suo stesso viaggio nell’oltretomba, concepito come un privilegio concessogli da Dio, si oppone a quello di Ulisse, il quale, sfidando il divieto divino, aveva varcato con i suoi compagni le Colonne d’Ercole, il limite del mondo allora conosciuto: un viaggio destinato a fallire tragicamente perché non sorretto dalla fede.

Alla memoria classica risale gran parte degli orridi personaggi delegati a custodire il regno del male: da Caronte a Minosse, da Flegias al Minotauro, ai centauri; alla stessa matrice culturale appartengono il diabolico Capaneo e Catone, il severo guardiano del Purgatorio, simbolo della libertà dal peccato.

… e contemporanei Ai personaggi, storici e mitologici, tratti dal mondo classico si aggiungono nel poema figure storiche improntate di misticismo cristiano, da Manfredi di Svevia ai santi rievocati nel Paradiso: Francesco, Domenico, Pier Damiani.

Ma spiccano anche i personaggi contemporanei, positivi o negativi, costruiti o reinventati da Dante: Francesca da Rimini, Farinata degli Uberti, Pier delle Vigne, Brunetto Latini, il conte Ugolino; e poi Pia dei Tolomei, Sapìa senese, Piccarda Donati, il trisavolo Cacciaguida. E mille altri, minori e minimi, sui quali il poeta proietta le sue passioni, la sua umanità, la sua sensibilità artistica.

Dante poeta della certezza: fede, ragione, letteratura e profezia

Nella Divina Commedia Dante appare essenzialmente come il “poeta della certezza”. Nessun dubbio turba mai l’autore, che pure conosce e rappresenta la fragilità del cuore. Egli esamina e giudica, inflessibile, personaggi importanti e sconosciuti, i singoli e tutto il suo tempo, dall’Impero alla Chiesa.

Eppure il lettore non si domanda mai se quel giudizio così reciso sia legittimo, non ha mai l’impressione che sia pretenzioso e unilaterale, tanta è la saldezza della fede e delle convinzioni da cui deriva. Tale convinzione passa nel lettore, il quale finisce per avere la sensazione che a giudicare non sia Dante e che egli sia solo l’interprete di una legge che diventa, per così dire, indiscutibile.

La scienza A chiarire i problemi della scienza (e non solo di quella teologica, ma anche di quella fisica e naturale) Dante si sofferma assai spesso, specialmente nel Paradiso. Talora potrebbe sembrare un eccesso di erudizione e di sottigliezza, privo di una sostanza di impegno morale, ma la stessa scienza è per il poeta il «pane delli angeli»: chi non ne gusta almeno le briciole è un misero, è un infelice; e il Dante del Convivio e della Commedia ne ha pietà.

La scienza è indispensabile alla felicità umana; e dunque lo sforzarsi di raggiungerla è, oltre che un istinto, un dovere. Di nuovo, scienza, morale e religione sono una sola cosa.

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Fede e ragione Ancora: la salvezza spirituale si identifica con la libertà dal peccato, cioè con la conquista piena di sé stessi, con il dominio sicuro di sé nel turbinio delle tentazioni, nella stessa debolezza della carne, con l’animo che vince ogni battaglia.

La Rivelazione divina non esclude, anzi presuppone la ragione umana; è Beatrice a muovere Virgilio, ma viene da lui preceduta nell’opera di elevazione e di sublimazione di sé e di tutti gli individui che Dante canta nel suo poema. Il simbolo stesso della ragione è un poeta: pensiero e sentimento non cozzano tra loro, ma anzi costituiscono una salda unità.

Il fine della poesia La poesia medesima è concepita non come un sogno, ma come una battaglia, con precisi obiettivi pratici di ammaestramento e ammonimento, che Dante ha cura di mettere esplicitamente in luce.

Il poeta dell’Inferno, colui che ha osato rappresentare direttamente il disordine delle passioni umane, sa che, nonostante ogni apparenza, c’è un ordine supremo, che ogni crea­tura, navigando «per lo gran mar de l’essere» (Paradiso, I, 113), giunge, sì, a diversi porti; ma sa anche che la riva è unica e che la corda dell’arco divino porta ogni essere irresistibilmente al luogo per lui decretato, un luogo di felicità e perfezione.

La fiducia nella giustizia divina Da questa concezione dell’ordine dell’universo viene a Dante – che ama dipingersi come esule innocente, colpito dall’ingiustizia, tradito dai concittadini per il suo amore nei loro confronti, spettatore lucido e angosciato del male – la sua certezza nella giustizia. Una giustizia non solo oltremondana: un giorno, quando Dio nei suoi imperscrutabili disegni lo vorrà, l’ordine e la giustizia prevarranno anche nel mondo. Dante si fa garante di questa convinzione.

Dante profeta Del resto Dante stesso presenta il proprio viaggio come una visione. Uno studioso in particolare, il dantista e storico della filosofia Bruno Nardi (1884-1968), ha insistito, nell’interpretazione della Commedia, sul suo significato di visione profetica. Lo ha fatto in un saggio pubblicato nel 1942 intitolato Dante profeta, in cui spiegava come Dante si sentisse chiamato a svolgere una missione profetica, essendo egli convinto di avere avuto una visione reale.

Da qui la polemica contro la riduzione del viaggio dantesco a finzione letteraria di significato allegorico o semplicemente poetico e la rivalutazione del significato letterale o “istoriale”: «Non artificio letterario, ma vera visione profetica ritenne Dante quella concessa a lui da Dio, per una grazia singolare, allo scopo preciso che egli, riconosciuta la verità sulla cagione che il mondo aveva fatto reo, la denunziasse agli uomini, manifestando ad essi tutto quello che aveva veduto e udito».

La lingua

Linguisticamente la Commedia, insieme al Canzoniere di Petrarca e al Decameron di Boccaccio, ha fatto sì che il volgare fiorentino diventasse, concretamente, la lingua nazionale italiana, prima ancora che il letterato rinascimentale Pietro Bembo (1470-1547), duecento anni dopo, lo stabilisse anche sul piano teorico.

La grande ricchezza del vocabolario dantesco

Una risposta pratica alla questione della lingua I vocaboli coniati da Dante e poi mai più utilizzati dopo di lui sono pochissimi, una parte infinitesima del gran corpo della lingua della Commedia, che tuttora vive nella lingua italiana.

Con la Commedia Dante risolve praticamente la questione linguistica affrontata teoricamente nel Convivio e soprattutto nel De vulgari eloquentia, dimostrando sia la capacità del volgare di trattare qualunque argomento, sia quali caratteristiche tale lingua dovesse possedere e come essa potesse essere utilizzata: una lingua fondamentalmente frutto di dottrina e di studio, ma viva, varia e aderente ad argomenti anche molto diversi tra loro.

Anche sotto questo aspetto, la Commedia riflette e conclude tutta la riflessione linguistica di Dante. E ancora una volta si rivelano il mirabile equilibrio e il felicissimo intuito dell’artista, nell’aver adottato come mezzo di espressione quel dialetto che egli avverte come il più idoneo, per armonia di suoni e di forme, tra tutti i dialetti della penisola, a diventare l’ideale volgare italico dei dotti, degli uomini della «curia» e della «reggia», ai quali specialmente intende rivolgersi con la Commedia.

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L’aderenza al reale Conviene dunque concentrarsi sul lessico di quest’opera, che ha esercitato un influsso sulla storia della lingua italiana incommensurabile rispetto a quello delle opere precedenti. Dante si getta nella composizione del poema, puntando non sulla separazione ma sulla commistione degli stili.

Questa disposizione mentale è la condizione del suo straordinario realismo linguistico, della sua ricettività a 360 gradi, del suo saper trovare le parole per aderire, con la messa a fuoco più nitida, a qualunque aspetto della realtà, dal più alto e sublime al più basso e triviale.

Le diverse componenti del linguaggio

Il lessico basso… La Commedia si apre, senza remore derivanti da pregiudizi retorici, al lessico fiorentino quotidiano e popolare, esibendo parole che il De vulgari eloquentia declassava come «puerili» (mamma e babbo), come «selvatiche» (greggia), come «scivolose» e «squallide» (femina e corpo), come «municipali» (manicare, mangiare, e introcque, intanto).

Parole basse, plebee, idiomatiche, come grattare, porcile, sterco, tigna, oscene come puttana, merda, fiche, magari poste in rima a scopo espressivo come incrocicchia (incrocia) : nicchia (si lamenta) : picchia oppure scuffa (divora grufolando) : muffa : zuffa, si concentrano nell’Inferno, e soprattutto in Malebolge, la zona di massima comicità (nel senso di realismo estremo e addirittura espressionistico) del poema. Ma ancora nel canto XXVII del Paradiso san Pietro inveisce contro il suo successore che «fatt’ha del cimitero mio cloa­ca / del sangue e de la puzza» (vv. 25-26).

… e quello alto: latinismi e gallicismi Al polo opposto, nella lingua della Commedia entrano molti latinismi, che raggiungono il massimo dispiegamento nel Paradiso, in corrispondenza delle tematiche filosofiche e teologiche, ma pervadono anche l’Inferno (per esempio il «secreto calle» di memoria virgiliana del canto X), messi in rilievo in rime con parole quotidiane come azzurro : curro (latinismo per “carro”) : burro; sepe (siepe) : epe (latinismo per “fegato, addome”) : pepe; mentre nel Paradiso abbiamo rime latineggianti esclusivamente alte, come colubro (serpente) : rubro (rosso) : delubro (tempio).

C’è poi, accanto ai latinismi, un altro grande “serbatoio”: i gallicismi della tradizione letteraria. Le formazioni poetiche di origine provenzale-siciliana, che dopo gli esordi giovanili erano state espunte dalla poesia stilnovistica, ricompaiono in forze nell’onnivora Commedia, dove alcune voci più frequenti si scrollano l’originaria connotazione tecnico-lirica e grazie a Dante diventano parole di uso generale: per esempio gioia e noia (quest’ultimo vocabolo, come molesto, ha in Dante un significato più forte che nell’italiano moderno).

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I vocaboli scientifici Sono numerose anche le parole scientifiche, che avevano fatto la loro apparizione nel Convivio: dall’astronomia (emisperio, epiciclo, meridiano, orbita, plenilunio) alla geometria (circunferenza, quadrare), alla medicina (complessione, idropico, oppilazione, quartana).

Ci sono poi non solo grecismi come archimandrita, baràtro (anche questo entrato nell’uso comune, con spostamento dell’accento), ma anche arabismi, desunti dalle traduzioni scientifiche latine, come alchìmia e cenìt (zenit).

Un grecismo dottissimo come tetragono è entrato nell’uso proverbiale a partire dall’espressione – presente in Paradiso, XVII, 24 – «tetragono ai colpi di ventura» (saldo sotto i colpi della sorte), e questo è uno dei numerosi esempi della forza con cui la Commedia ha impresso una diffusione generale ai vocaboli della più varia provenienza in essa confluiti.

Regionalismi e forestierismi Il contributo dell’esilio alla lingua di Dante fu cospicuo in molti sensi, e particolarmente in un limitato ma vistoso numero di lemmi dialettali, come la forma affermativa bolognese sipa (sia, sì), il lombardo mo e istra (ora), il lucchese issa (ora).

Troviamo nella Commedia parole evocative di particolari realtà regionali, come la forma sarda donno (signore). Evocativi sono anche alcuni francesismi contemporanei: alluminare, in «quell’arte / ch’alluminar chiamata è in Parisi» (Purgatorio, XI, 80-81), cioè la miniatura, e gibetto (forca), perché il suicida che «fece gibetto a de le sue case» (Inferno, XIII, 151) è un mercante fiorentino che, fallito, si impiccò a Parigi.

Classe di letteratura - volume 1
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Dalle origini al Cinquecento