Dante Alighieri

LA VITA

La prima giovinezza, Beatrice e lo Stilnovo

Appartenente a una famiglia di piccola nobiltà e di modeste risorse economiche, Dante (il nome è forma accorciata, familiare, di Durante) nasce a Firenze, tra il maggio e il giugno del 1265, da Alighiero degli Alighieri e da Bella degli Abati.

Rimasto orfano della madre all’età di soli sei anni, trascorre la fanciullezza nella città toscana, dove apprende i primi rudimenti del latino e studia grammatica, quindi filosofia, probabilmente presso le scuole degli ordini mendicanti (lo Studio domenicano di Santa Maria Novella e soprattutto lo Studio francescano di Santa Croce, ma anche quello agostiniano di Santo Spirito). Il padre muore quando Dante ha diciassette anni, e per un periodo il giovane deve occuparsi degli affari di famiglia.

Intorno ai diciotto anni egli manifesta i primi segni della vocazione letteraria, iniziando a scambiare poesie con i maggiori poeti del suo tempo. A parte alcune prove minori, scrive versi amorosi per una donna di nome  Beatrice, identificabile con Bice di Folco Portinari, sposata a Simone de’ Bardi e morta nel 1290, a cui dedicherà in seguito la Vita nuova (1292-1293 o 1294), il suo capolavoro giovanile.

Gli anni dell’amore per Beatrice e della stesura della Vita nuova corrispondono alla partecipazione di Dante al movimento stilnovista. Nell’ambito di questa corrente, il poeta segue soprattutto, come modello, Guido Cavalcanti, l’autore più in vista e di maggiore richiamo.

A vent’anni Dante sposa Gemma Donati; si tratta di un matrimonio celebrato per decisione delle rispettive famiglie, come avveniva spesso a quei tempi presso i ceti sociali medio-alti, che vedevano nel connubio nuziale più un affare economico che non il libero coronamento dei sentimenti. Dal matrimonio nasceranno tre figli: Pietro e Iacopo, che saranno tra i primi commentatori della Divina Commedia, e Antonia, che si farà monaca a Ravenna con il nome di suor Beatrice. Fra il 1286 e il 1287 soggiorna a Bologna.

L’impegno politico

Per qualche anno dopo la scomparsa di Beatrice, Dante continua a coltivare i propri interessi letterari, lasciando emergere la propensione a sperimentare un linguaggio poetico diverso da quello della Vita nuova: così accade nelle rime cosiddette “petrose”, ispirate da una donna dura e insensibile come la pietra.

Nel 1289 Dante prende parte alla battaglia di Campaldino contro i ghibellini di Arezzo (poi vinta dai guelfi fiorentini), combattendo nella prima schiera dei cavalieri (se ne ricorderà nel canto V del Purgatorio, nell’episodio dell’incontro con Bonconte da Montefeltro).

Fra il 1295 e il 1304 si impegna attivamente nella realtà politica di Firenze. Nel quadro degli aspri scontri sociali tra l’antica nobiltà in declino e la nuova borghesia in ascesa, gli Ordinamenti di giustizia di Giano della Bella (1293) avevano stabilito un espresso divieto per i nobili di assumere cariche pubbliche. Nel 1295 gli Ordinamenti vengono mitigati, rendendo possibile l’accesso alla politica attiva anche agli aristocratici, a patto che si iscrivano a una delle Arti cittadine. È a questo scopo che Dante – il quale aveva frequentato Brunetto Latini, suo maestro, notaio e cancelliere del Comune, condividendone la passione politica – si iscrive alla  corporazione dei medici e speziali (cioè dei farmacisti), pur non avendo alcuna specifica competenza in tale campo (ma l’iscrizione era un semplice atto formale e allora esisteva una certa affinità tra gli studi di medicina e quelli di filosofia).

Per Firenze questi sono anni sconvolti dalla rivalità che divide le fazioni dei guelfi bianchi e dei guelfi neri, sostenute rispettivamente dalla famiglia dei Cerchi e da quella dei Donati. Tale divisione risaliva al periodo in cui i guelfi si erano affermati a Firenze sui ghibellini: mentre i bianchi tenevano molto all’indipendenza della città, i neri non esitarono a cercare l’appoggio del papa pur di ottenerne il controllo totale.

Dopo avere ricoperto vari incarichi, Dante viene eletto tra i priori (i rappresentanti delle corporazioni, che costituiscono la più importante magistratura cittadina) per il bimestre dal 15 giugno al 15 agosto 1300. La magistratura del priorato ha una durata così breve perché, nell’incerta, debole e precaria democrazia fiorentina, questa misura è ritenuta efficace per contrastare le tentazioni autoritarie.

In questo ruolo Dante cerca di comportarsi in modo imparziale: per ottenere la pacificazione della vita politica cittadina, manda in esilio i capi principali delle due fazioni. Tra loro c’è anche l’amico Guido Cavalcanti, di parte bianca, che durante l’esilio in Lunigiana si ammala di malaria e ne morirà poco dopo il suo ritorno a Firenze.

Nel 1301 le pesanti ingerenze di papa Bonifacio VIII nella politica di Firenze inducono Dante a schierarsi con i bianchi, e a superare così la posizione di neutralità mantenuta fino ad allora. Nello stesso anno  il poeta viene inviato a Roma presso il pontefice con l’incarico di scongiurare un grave pericolo per l’autonomia del Comune: l’arrivo di Carlo di Valois, fratello del re di Francia e legato papale. Ufficialmente questi (che entra a Firenze alla testa di 1200 cavalieri) ha il compito di mettere pace tra le fazioni in lotta, ma il suo vero scopo è quello di favorire la vittoria dei neri e aprire così la via alla totale soggezione della Toscana agli interessi della Chiesa.

Carlo di Valois riuscirà tuttavia a raggiungere il suo obiettivo politico, richiamando in patria i capi della parte nera dall’esilio e consegnando a loro il governo del Comune.

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IL CARATTERE

Una personalità decisa

È Dante stesso ad averci lasciato il ritratto del suo carattere, tale che non potremmo desiderarlo più vivo, preciso, completo, sincero. La sua indole traspare specialmente dalla Divina Commedia, alla quale davvero, sotto questo aspetto, meglio calzerebbe l’appellativo di “Danteide”, che l’autore – secondo l’ipotesi dello scrittore settecentesco Gasparo Gozzi – pensò più volte di usare come titolo. Tutti i tratti personali, in parte desumibili anche dalle opere minori e dalle poche notizie biografiche certe, nella Commedia si dispiegano compiutamente e si riassumono efficacemente.

Tristezze dell’infanzia e forza di volontà

Da bambino, Dante non ha l’affetto di cui necessita: sua madre muore quando lui ha solo sei anni e suo padre si risposa presto con un’altra donna, da cui avrà tre figli. Con il padre Dante non ha alcuna confidenza: è un uomo severo e chiuso; si dice che presti denaro a usura. Ciò pesa come una vergogna sul giovane Dante, che invece mitizza il trisavolo Cacciaguida, morto nel 1147 combattendo nella seconda crociata (lo incontreremo nei canti centrali del Paradiso), sognando di rinnovare la gloria del suo blasone.

Dalla Divina Commedia emerge l’immagine di un uomo sincero, schietto, diretto, dotato di una prodigiosa energia nel volere e nel sentire, di una coscienza austera ed elevata, dalla sfera affettiva a quella etica, da quella intellettuale a quella religiosa. Il poeta stesso si fa proclamare da Virgilio «alma sdegnosa» (Inferno, VIII, 44): sdegnosa nei confronti della viltà, corruzione e stoltezza di cui è pieno il mondo. Ma lo sdegno esprime solo la reazione di fronte al disordine generale dell’umanità: la sostanza della sua anima è eroica.

L’animosità e l’alto sentire di sé

Ma altri aspetti del suo carattere ci fanno vedere l’uomo non solo con la sua ferma volontà di continua ascesa spirituale, ma anche con i suoi limiti e difetti. Un’ombra sull’immagine idealizzata di Dante è proiettata, anzitutto, dalla violenza in cui più di una volta trascende la sua indignazione. Occorre dire però che nel poema l’impeto e l’ira di Dante non appaiono mai come sfogo di astio e vendetta personale, ma come reazione del sentimento di giustizia offeso. Comunque, questo lato del suo carattere risulta innegabile: fattosi giudice e giustiziere, dimostra di essere più incline alla collera che alla misericordia evangelica.

Un altro dei lineamenti controversi che si rivelano nella Divina Commedia è la superbia per la consapevolezza della sua «altezza d’ingegno». Lo testimonia, del resto, anche Boccaccio: «Molto presunse di sé, né gli parve meno valere che el valesse» [Ebbe un’alta stima di sé e fu convinto di non valere meno di quanto effettivamente valesse]. Dante stesso nel Purgatorio (XIII, 136-138) riconosce la propria superbia, l’unico peccato che confessò esplicitamente.

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Gli ultimi anni, l’esilio e la morte

Sulla strada del ritorno dalla missione diplomatica a Roma, probabilmente a Siena, Dante apprende di essere stato condannato il 27 gennaio del 1302 all’esilio per due anni, oltre che all’esclusione dagli uffici pubblici. È accusato di baratteria, cioè di avere tratto illeciti guadagni dagli incarichi ricevuti dal Comune, con l’aggravante di essersi dimostrato ostile al papa e al suo rappresentante Carlo di Valois. Non essendosi presentato a discolparsi, una successiva sentenza (10 marzo) lo condanna a morte e alla confisca di tutti i beni.

Ha inizio così la sua vita di fuoriuscito. Dante – che polemicamente si definirà, nelle sue lettere, florentinus et exul immeritus (fiorentino ed  esule senza colpa) e anche florentinus natione, non moribus (fiorentino di nascita, non di costumi) – si troverà a peregrinare di corte in corte nell’Italia settentrionale: da Forlì a Verona, ad Arezzo, poi nel Trevigiano e in Lunigiana; forse si reca anche a Parigi.

Nel 1304, dopo essere stato il rappresentante dei bianchi in esilio, il poeta rompe definitivamente con loro. Nel 1310 la discesa in Italia dell’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo, con l’obiettivo di riportare la penisola sotto il controllo imperiale, riaccende in Dante la speranza di tornare a Firenze, ma la morte improvvisa di Arrigo nel 1313 (a Buonconvento, presso Siena) gli spegne ogni illusione.

Già alla metà di quell’anno (secondo altri non prima del 1315) è ospite a Verona di Cangrande della Scala, vicario imperiale in Italia, presso il quale si tratterrà fino al 1318-1320. Successivamente è a Ravenna, ospite di Guido Novello da Polenta: lì termina il Paradiso (mentre i primi canti dell’Inferno sono stati scritti molti anni prima, quando è ancora a Firenze). Al ritorno da un’ambasceria a Venezia, il poeta muore a Ravenna, probabilmente di malaria, fra il 13 e il 14 settembre del 1321.

Dante viene seppellito presso il convento di San Pier Maggiore a Ravenna, ma sei anni dopo un legato pontificio ordina che i suoi resti siano bruciati: un’ingiunzione che però non viene eseguita. Molto tempo dopo, papa Leone X vuole portare a Firenze le ceneri del poeta, ma al momento dell’apertura il sepolcro risulta inspiegabilmente vuoto. Il mistero rimane irrisolto fino al 1865, quando, durante dei lavori di restauro, si trova una cassetta di legno contenente ossa umane e una lettera, datata 1677, a firma del priore del convento, il quale attesta che quelli erano i resti di Dante, nascosti dai frati per impedire che fossero traslati a Firenze. Vengono così nuovamente tumulati e nel 1921 si effettua la ricostruzione dello scheletro del poeta, che da allora riposa in pace nella tomba ravennate.

Classe di letteratura - volume 1
Classe di letteratura - volume 1
Dalle origini al Cinquecento