La Divina Commedia

398 Canto XI Le opere leggiadre degli antenati alludono alla liberale convivenza tra uomini, alla cortesia del perfetto cavaliere del buon tempo antico, virtù storicamente al tramonto e sempre ammirate da Dante. Ma il poeta condanna del personaggio il disprezzo per i valori della società comunale, il suo essersi isolato, mentre avrebbe dovuto rivitalizzare gli ideali cortesi e la nobiltà di sangue con la concezione borghese della vita. La superbia, dunque, è presunzione, è mancata volontà di comprendere quanto di nuovo emerge. Il limite della gloria artistica Il discorso di Oderisi, più ampio e inquadrato in una prospettiva universale, prende in considerazione il mutare degli stili e delle tecniche artistiche nella società comunale. Il suo modo tradizionale di decorare con il disegno è stato superato dall uso del pennello, quindi più ridente e luminoso, del più giovane Franco da Bologna. Anche Cimabue è stato sorpassato da Giotto; e, in letteratura, Guido Cavalcanti ha tolto a Guinizzelli «la gloria della lingua , e forse è già nato chi supererà l altro. Questi è, evidentemente, lo stesso Dante. Non certo un peccato di superbia il suo. Anzi, proprio il contrario, perché è da essa che egli si vuole purificare superando il conflitto tra aspirazioni metafisiche e pulsioni terrene, tra il fascino e la limitatezza della gloria terrena. Dante, pur consapevole della propria importanza storica, fa una asserzione di umiltà e proclama che la fama e la gloria terrena durano poco (Oh vana gloria de l umane posse!, v. 91). L unica eternità che premia le opere dell ingegno è quella del Paradiso: lui supererà i due Guidi, ma sarà, ineluttabilmente, a sua volta superato (Non è il mondan romore altro ch un fiato / di vento, ch or vien quinci e or vien quindi, / e muta nome perché muta lato, vv. 100-102). La profezia dell esilio L incontro con Oderisi ripropone il tema dell esilio di Dante. Il miniatore, parlando di Provenzan Salvani, svela a Dante che conoscerà il tremar per ogne vena (v. 138), l umiliazione di dover chiedere aiuto agli altri. Dante attribuisce la responsabilità ai cittadini di Firenze, ribadendo la propria innocenza, ma il destino di povertà e la prospettiva dolorosa dell esilio sono mitigati da una speranza: come Dio ha premiato il generoso atto di umiliazione di Provenzan Salvani (il trionfatore ghibellino di Montaperti si è mortificato per ottenere il denaro allo scopo di pagare il riscatto e liberare un amico), così le sofferenze che il poeta patirà da esule lo renderanno meritevole della misericordia divina. Questa seconda profezia dell esilio nel Purgatorio (dopo quella di Corrado Malaspina, VIII, vv. 133-139) chiude il canto con una intonazione dolente che lascia il segno indelebile nel lettore di ogni epoca (Più non dirò, e scuro so che parlo; / ma poco tempo andrà, che tuoi vicini / faranno sì che tu potrai chiosarlo, vv. 139-141). Lo stile del canto La traduzione in volgare del Pater Noster integrata da spiegazioni e commenti di Dante-autore, le metafore (la manna, v. 13; la cima dell albero e il nido per indicare la fama e la sua supremazia, vv. 92, 99; il tumor cioè il gonfiore morale della superbia, v. 119) e le similitudini (la fama è come un soffio di vento, vv. 100-102), il lessico ricercato e la complessità sintattica con cui Oderisi discorre di arte e di gloria (103-108), servono a esprimere un contenuto religioso, politico e culturale rilevante. Occorre infine ricordare che la lode a Dio nel Pater Noster (laudato sia l tuo nome e l tuo valore / da ogni creatura, vv. 4-5) riprende le espressioni del Cantico delle Creature di san Francesco (Laudato sie, mi Signore, cum tucte le tue creature, «Sii lodato, o mio Signore, insieme con tutte le tue creature , v. 5), che era stato composto in volgare per le classi popolari. Considerato che le preghiere venivano quotidianamente recitate nel Medioevo e che dalle traduzioni in volgare è nato il dramma sacro («agito dai fedeli sul sagrato o nella piazza antistante la chiesa), non va escluso che Dante nel comporre i suoi versi tenesse presente anche la dimensione scenografica dell evento. Il lessico del canto Nel canto XI spicca l elevata frequenza della parola nome, essa compare ai vv 4, 60 e 102. Ricorre dunque tre volte, ma se consideriamo i nomi con la stessa radice troviamo noma al v. 55 e nominanza al v.115; la frequenza della parola è del tutto unica nel panorama dell intera Commedia. Scrive Pierantonio Frare (vedi anche p. 401): «Il fatto non è di per sé sorprendente, poiché l oggetto in cui la superbia dell uomo si concretizza e si rivela è proprio il nome: nei due significati del nome proprio e della celebrità, che si fondono nell ultimo dei lessemi citati, appunto nominanza. Tanto è vero che il canto è percorso dalla presenza non soltanto della parola nome, ma anche da tutta una serie di nomi propri, i quali rimandano a loro volta alla persone che designano . E così Omberto vorrebbe conoscere il nome di Dante cotesti, ch ancor vive e non si noma, pronuncia il nome del proprio padre, aggiungendovi una significativa postilla Guigliemo Aldrobandeschi fu mio padre / non so se l nome suo già fu vosco, e rivela il proprio Io sono Omberto. «Inoltre scrive P. Frare, «il canto dei superbi è tra i più ricchi di giochi onomastici, già notati: CIMAbue dura poco sulla CIME, le carte di OdeRISI non RIDONO più, forse il discendente di CACCIAGUIDA è colui che CACCerà i due GUIDI dal nido. [...] Nel nominarsi e nell esser nominati la superbia trova il proprio fine e il proprio alimento; pare quindi degno di nota il diverso rapporto che i tre personaggi incontrati da Dante intrattengono con il proprio nome. Omberto si autonomina; Oderisi conferma, con una sorta di silenzio-assenso, che il proprio nome è quello pronunciato da Dante, ma volge ad altro discorso; Provenzano, infine, constata nelle parole del miniatore, che porta recenti novelle dal mondo terreno, la caducità della fama di cui il proprio nome aveva goduto .

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Edizione integrale aggiornata al nuovo Esame di Stato