1 Le costruzioni culturali della persona

1. Le costruzioni culturali della persona

1.1 La nascita biologica e la nascita sociale

Nella sua prima definizione antropologica, come abbiamo visto ▶ unità 1, p. 18 |, la cultura è «acquisita dall’uomo in quanto membro di una società» attraverso dispositivi di inculturazione: in ogni società, infatti, i contenuti culturali specifici (le conoscenze, le credenze, l’arte, i costumi e così via) si acquisiscono grazie a una complessa rete di interazioni sociali fra gli individui. Ciò è confermato anche dalle neuroscienze, secondo cui lo sviluppo delle connessioni neurali fra le cellule del cervello avviene in gran parte dopo la nascita, proprio in funzione delle interazioni con gli altri: l’essere umano è un animale sociale.

Per il filosofo e sociologo Max Weber (1864-1920), l’uomo si trova sospeso in una ragnatela di significati che egli stesso ha intessuto, e può vivere solo grazie a questa sottile e preziosissima tela fatta di fili che lo collegano costantemente agli altri e a ogni elemento dell’ambiente circostante. Come ci ricorda Clifford Geertz, il pensiero umano è essenzialmente un fatto sociale, per cui «il pensare non consiste in avvenimenti nella testa, sebbene l’attività cerebrale sia indispensabile perché il pensare abbia luogo, il suo habitat naturale è il cortile di casa, il mercato e la piazza principale della città», laddove si stabilisce «un traffico di simboli significativi».

Inoltre, ricordiamo che numerose ricerche antropologiche e archeologiche sulla filogenesi umana dimostrano che i processi di socializzazione, di acquisizione culturale, sono indispensabili a causa dell’incompletezza di base degli esseri umani: la cultura, durante i milioni di anni dell’evoluzione umana, costruisce e completa l’essere umano ▶ unità 1, p. 21 |.

Dal punto di vista antropologico, il nascere è dunque un processo complesso in cui si possono distinguere due aspetti fondamentali e simultanei:

  • un processo biologico (naturale), che produce organismi biologici;
  • un processo sociale (culturale), che produce esseri “umani”.

L’essere umano è con tutta evidenza un organismo biologico, ma in virtù dei processi di apprendimento che iniziano sin dai primi istanti di vita, è soprattutto una costruzione sociale; è un prodotto storico frutto del completamento con forme locali di cultura. Si impara a far coincidere l’umanità con certi cibi, con certe posture e con certe etichette di comportamento; con certe forme igieniche; con specifiche maniere di curare il proprio corpo e di abbigliarsi; con certe idee morali e religiose; con determinati modi di pensare e di sentire.

Esempio: in India, quando un ragazzo raggiunge l’“età della ragione” viene introdotto nella comunità degli adulti con il rito dell’upanayana. Il termine, di difficile traduzione, contiene l’idea di “guidare”, “condurre qualcuno verso qualcosa”, di introdurlo in un mondo nuovo. Chi per qualche ragione non sia stato sottoposto a questo processo di socializzazione viene di fatto escluso dalla comunità alla quale appartiene la sua famiglia, e non può sposarsi né prendere parte a celebrazioni religiose. L’aspetto essenziale è che l’upanayana rappresenta un’autentica nascita. I  testi vedici affermano che il celebrante diventa “incinto” del giovane su cui compie il rito, e nel momento culminante lo “mette al mondo”. Inoltre, la fascia di tessuto bianco senza cuciture che indossa il giovane durante la cerimonia, una volta spogliato, rappresenta la placenta: indica il preciso momento in cui simbolicamente il ragazzo viene posto all’interno del ventre del suo istruttore. Come sostiene lo storico delle religioni francese Jeanne Varenne (1926-1997), prima di ricevere il sacramento, nell’upanayana, il ragazzo non aveva alcun ruolo all’interno della sua famiglia: viveva con le donne, nessuno lo conosceva per nome e, come dicono i testi, «si trastullava spensierato, senza nessun dovere». Attraverso l’upanayana viene adottato dai maschi adulti, che gli insegneranno le regole di comportamento per stare nel mondo. Letteralmente egli nasce una seconda volta; alla nascita biologica si salda la nascita sociale e solo allora riceve il nome di dvi-ja: “due volte nato”.

Tutte le società hanno sempre dedicato una grande attenzione culturale alla nascita, che è sottoposta in ogni cultura a un’intensa opera di plasmazione simbolica: è interpretata, celebrata, narrata e ritualizzata. Il nascere è il rito di passaggio più importante e delicato, anche più del morire, perché a questo momento particolare è connessa la continuità della famiglia. La procreazione è infatti un nodo essenziale della sopravvivenza e dello sviluppo della comunità.

per immagini

Le fasi lunari

L’antropologo italiano Piercarlo Grimaldi (n. 1945) ha condotto una sistematica ricerca sul territorio piemontese riguardante la tradizione del nascere: con l’efficace espressione di “levatrice lunare”, Grimaldi mostra come la luna sia il principale orologio del mondo contadino. Il calendario tradizionale è scandito dalla luna, che predice la nuova annata agraria e indica i tempi produttivi della cascina. La luna governa i ritmi vitali dell’uomo: osservando le sue varie fasi, egli affronta i grandi momenti della vita, come appunto la nascita. La luna presiede alla fecondità della donna. Questo sapere, che oggi è un labile frammento appartenente alla memoria delle generazioni più anziane, era in passato un patrimonio collettivo delle donne: contavano il tempo della gravidanza in lune e non in mesi e prevedevano la data precisa del parto in uno specifico quarto lunare che, secondo molti, dipendeva dal quello del concepimento.

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1.2 Come crescere

La famiglia è il primo nucleo sociale in cui si nasce e si comincia a crescere: si imparano i primi modelli di comportamento, si fanno le prime esperienze affettive; in altre parole, ci si forma. Vedremo che esistono molti tipi differenti di famiglia e che la composizione del nucleo familiare può essere molto diversa fra le varie società ▶ unità 7, p. 233 |.

Esempio: tra i Fore della Nuova Guinea, una comunità di cacciatori orticoltori, abituati a spostarsi su ampie zone di territorio, i bambini piangono raramente, giocano senza farsi male con i coltelli, le accette e con il fuoco. Presso questo popolo gli antropologi hanno osservato un modello di crescita improntato a una grande libertà individuale con relazioni cooperative. I più piccoli restano in contatto corporeo quasi continuo con la mamma e i suoi familiari o con le sue compagne di lavoro nell’orto. Fra genitori e figli vi è una continua comunicazione tattile in un modello educativo definito sociosensuale.

Esempio: i gruppi inuit del Canada educano alla non-aggressività facendo crescere i figli secondo i valori di ihuma e naklik. Dire che una persona ha ihuma equivale a dire che è un inuit pienamente socializzato, che ha maturità e umanità, che ha imparato a comportarsi in modo adeguato. Naklik è invece il valore della bontà. Quasi tutte le qualità negative, in particolare l’ostilità e l’aggressività, sono in opposizione al naklik. Fra gli Inuit si dice: «Il tale è arrabbiato, non sente naklik». Naklik definisce anche il comportamento più ragionevole. È chiaro che i due concetti/valori sono strettamente legati: la capacità di comportarsi secondo naklik deriva dal possesso di ihuma, che si apprende crescendo.

L’antropologa americana Ruth Benedict (1887-1948) ha evidenziato come l’integrazione dei tratti culturali di una comunità sia il risultato di un processo di modellizzazione sociale: la produzione e la trasmissione di un modello culturale di pensiero e di azione, una volta interiorizzato, formano le personalità dei membri di una società. Nelle sue ricerche su alcune popolazioni native americane degli Stati Uniti, Benedict ha sostenuto che i Pueblo del Sud-Ovest manifestano un tipo psicologico che si può chiamare modello apollineo, fondato cioè sul controllo rigoroso delle emozioni, mentre invece i nativi delle Grandi Pianure del Nord (Dakota, Wyoming, Nebraska e così via) si formano su un modello dionisiaco, in cui si ha la manifestazione pubblica e spesso estrema dei sentimenti e delle passioni, soprattutto quelli legati alla guerra e alla competizione.

L’antropologa americana Margaret Mead ▶ L’AUTrice | si è concentrata sui processi di socializzazione per comprendere l’influenza esercitata dalla cultura sull’individuo e le modalità di apprendimento attraverso cui egli si adatta ai valori della società. Mead ha confrontato le caratteristiche psicologiche dell’infanzia e dell’adolescenza nella società statunitense e in quelle di Samoa e della Nuova Guinea, ed è giunta a riconoscere, per esempio, come i conflitti psicologici della pubertà non siano un tratto universale ma il prodotto di una particolare configurazione culturale.

Le ricerche di Mead e Benedict hanno messo in luce che a valori culturali diversi corrispondono differenti strategie educative e che queste modalità di educazione, di accompagnare i bambini nella crescita, determinano la formazione di personalità individuali diversamente strutturate.

l’autrice  Margaret Mead

Margaret Mead (1901-1978) è stata un’importante antropologa statunitense. Si laurea in psicologia e poi consegue il dottorato in antropologia all’università della Columbia. Nel 1925 parte per le isole Samoa dove svolge il suo primo lavoro etnografico, i cui risultati vengono pubblicati nel suo libro più celebre, L’adolescente in una società primitiva (1928). Nel 1929 parte per l’isola di Manus in Nuova Guinea, dove studia lo sviluppo dei bambini più piccoli e il modo in cui vengono plasmati dalla società adulta. Queste sue ricerche smentiscono le idee dell’epoca che i popoli “primitivi” fossero “come dei bambini”. È stata la prima antropologa a guardare allo sviluppo umano in una prospettiva interculturale e a dimostrare che le diverse fasi di sviluppo e le relazioni tra di esse devono essere studiate in ogni cultura. Ha dimostrato inoltre che i ruoli di genere differiscono da una società all’altra, a seconda almeno tanto della cultura quanto della biologia. Nel 1958 riceve la cattedra di antropologia alla New School e all’università della Columbia, dopo un periodo da curatrice di etnologia del Museo di Storia Naturale americano iniziato nel 1946. Muore a New York nel 1978.

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1.3 I riti di iniziazione

I processi di inculturazione più importanti nelle società extraeuropee studiate dagli antropologi sono i  riti di iniziazione. Si tratta di particolari  riti di passaggio, nei quali la comunità guida i giovani, ragazze e ragazzi nell’età fertile, nel delicatissimo passaggio trasformativo dallo stato di adolescente a quello di giovane adulto, e da questo, a quello di padre e madre di famiglia, come avviene anche oggi per esempio in Africa nella regione dei Grandi Laghi, fra Congo e Tanzania.

Come ha evidenziato l’antropologo francese Arnold Van Gennep (1873-1957) nel suo celebre volume I riti di passaggio (1909), il processo rituale riguarda il conseguimento della maturità sociale, che presso molti popoli avviene in concomitanza con la pubertà. I ragazzi, i maschi in maniera diversa dalle femmine, che spesso hanno propri percorsi iniziatici, attraverso il rito vengono ammessi a far parte della società adulta, godendo dei diritti connessi a tale status, soprattutto quelli relativi al matrimonio, alle attività politiche e religiose.

Secondo Van Gennep i riti di iniziazione si articolano in tre fasi:

  • la separazione, in cui il ragazzo (o la ragazza) viene separato dalla famiglia o dal gruppo di appartenenza e allontanato dal villaggio, condotto nella foresta o posto in particolari abitazioni destinate esclusivamente a questo scopo;
  • il periodo di margine, in cui avviene la trasformazione dell’individuo, con o senza segni esteriori, come le mutilazioni, di cui la più comune è la circoncisione, e con varie prove e istruzioni riguardanti le tradizioni e le norme proprie della comunità di cui entra a far parte; i ▶ tatuaggi, per puntura o per  scarificazione, che spesso rientrano fra gli interventi estetici sul corpo per decorare e abbellire la pelle, hanno anche un ruolo importante nelle iniziazioni puberali mediante un uso culturalmente controllato del dolore;
  • l’aggregazione alla comunità, in cui il neoiniziato si sottomette a pratiche purificatorie, osserva il silenzio o il digiuno, e spesso assume un nuovo nome.

Nella maggior parte dei casi, il rito di iniziazione ha carattere collettivo, interessa cioè tutti gli individui che abbiano raggiunto l’età idonea. Ciò avviene nei sistemi di classi d’età, in cui tutti i ragazzi raggruppati in una stessa “generazione”, non importa se aventi o no la stessa età anagrafica, affrontano contemporaneamente il rito che conferisce loro la maturità sociale; è solo in seguito a tale evento che la maturità fisiologica, già raggiunta o magari ancora da raggiungere, viene riconosciuta sul piano culturale.

Come ha osservato Van Gennep, spesso i riti di iniziazione nella loro funzione trasformativa assumono le forme simboliche di una morte seguita da una rinascita.

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L’esempio dei Banande

Un rito di iniziazione fra i più interessanti è quello della società Banande del Congo, in Africa centrale. I Banande sono una popolazione di coltivatori bantu stanziata nel Kivu settentrionale, sul lago Edoardo, studiata in Italia dall’antropologo Francesco Remotti (n. 1943). Essi si definiscono abakondi, cioè “abbattitori di alberi”, perché ricavano gli spazi domestici (eka) dei loro villaggi, che si presentano geometrici, puliti e ben curati, in prossimità di un bananeto (esyomboko), tagliando la boscaglia.

L’impegno e l’abilità nel tagliare gli alberi sono aspetti che li rendono differenti, nella percezione locale, dai gruppi vicini, come i Bapére o i Babìla, chiamati ngata, “fannulloni”, perché non si occupano di ripulire il territorio dalla boscaglia che cresce in modo disordinato. Il termine abakondi deriva dal verbo eri-konda, ossia “tagliare” in senso fisico. La forma di vita nande è un eritwa ekihugo: letteralmente un “tagliare il mondo”. I Banande tagliano la foresta circostante per sostituirvi campi, sentieri, bananeti, villaggi: dalla natura informe passano alla civilizzazione. Il gesto del taglio civilizza, in quanto si fonda sulla scelta: selezionando questo modo per diventare uomini, essi tagliano via tutte le altre possibilità; quella di diventare pigmei, di diventare babìla, di diventare europei. Come ricorda Geertz, tutti noi nasciamo con la potenzialità di vivere mille vite diverse, ma finiamo per viverne soltanto una.

Il rito di iniziazione maschile nande si chiama olusumba ed è connesso con il senso profondo che il taglio ha per questa cultura. La cerimonia prevede un allontanamento dei ragazzi dal villaggio e il taglio del prepuzio con una piccola incisione. Vi è anche un parallelo rituale di iniziazione femminile, chiamato erihinga, che si svolge quando una ragazza rimane incinta per la prima volta.

Per dare inizio alla cerimonia di iniziazione, quando i ragazzi accompagnati dagli adulti si apprestano a lasciare il villaggio per inoltrarsi nella boscaglia dove si compirà il rito, la comunità intona un canto su cui è importante riflettere brevemente.

O dio dei nostri antenati Katonda

in una casa, in una famiglia, in un villaggio,

un uomo, che cos’è?

Noi chiediamo il vostro ritmo, il ritmo degli iniziati

e voi gli antenati dei nostri genitori

ecco i nostri figli:

essi arrivano da ogni dove

confondono ancora le radici e le foglie dell’albero.

Che il nostro viaggio sia la vostra iniziazione

[...] che il nostro viaggio generi degli uomini

o dio Katonda, insegnaci ad abitare queste colline.

F. Remotti, Etnografia Nande, Il Segnalibro, Torino 1993, vol. 3, p. 63

I Banande affermano esplicitamente il proposito «che il nostro viaggio generi uomini», proprio perché gli “uomini”, gli esseri umani, non sono un prodotto biologico dato in natura, ma una complessa costruzione culturale. I Banande ne sono pienamente consapevoli e hanno la percezione dell’estrema delicatezza di questa operazione: del fatto che forse si stanno sbagliando, che forse è possibile e giusto fare anche scelte diverse. Lo esprimono chiaramente con la strofa centrale del canto, in cui viene formulata e lasciata temporaneamente in sospeso la domanda: «in una casa, in una famiglia, in un villaggio, un uomo che cos’è?», e poi con il verso finale rivolto al dio Katonda, che evidenzia la consapevolezza dello scopo di ogni atto culturale: «insegnaci ad abitare queste colline».

Il filosofo francese Jean Paul Sartre (1905-1980), nel suo L’esistenzialismo è un umanismo (1946), inconsapevolmente ma in piena sintonia con la comunità nande, ha espresso con particolare incisività la stessa consapevolezza sulla natura profonda degli esseri umani: «L’uomo si presenta come una scelta da fare. [...] L’uomo si fa; non è qualcosa di bell’e fatto in partenza». E questa costruzione dell’umanità è sempre relazionale: «Per ottenere una verità qualunque sul mio conto, bisogna che la ricavi dall’altro. L’altro è indispensabile alla mia esistenza, così come alla conoscenza che io ho di me. [...] L’uomo, senza appoggio né aiuto, è condannato in ogni momento a inventare l’uomo».

Siamo invece educati a vivere la vita, le passioni, i dolori con emozioni diverse, a organizzare in modo differente il comportamento fra gli individui, mediante schemi categoriali che “tagliano” in maniera diversa la realtà. Le possibilità escluse, le altre forme di umanità, o alcune caratteristiche specifiche dell’“umanità degli altri”, vengono esplicitamente proibite, tabuizzate, ritenute innaturali, considerate talvolta dichiaratamente disumane.

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1.4 L’antropopoiesi

Il termine  antropopoiesi è stato coniato dall’antropologo Franceso Remotti e fa riferimento alla “costruzione dell’essere umano”, che comincia sin dalle prime fasi della nascita e procede con la crescita. Con questo termine si intende quell’insieme di processi inculturativi, comprendenti tutte le modalità di apprendimento e di educazione, anche molto diverse da cultura a cultura, che costruiscono le quattro sfere principali dell’essere umano:

  • la sfera intellettuale: idee, concetti, categorie secondo cui le varie culture osservano, pensano e classificano la realtà;
  • la sfera emotiva: emozioni e sentimenti secondo cui si vivono la vita, le passioni, i dolori;
  • la sfera morale: valori, regole, modelli di comportamento secondo cui le culture umane organizzano i rapporti fra gli individui e le norme etiche del bene e del male;
  • la sfera estetica: criteri di bellezza, gusto, arte secondo cui si perseguono fini estetici.

Non basta dunque la nascita biologica per diventare compiutamente esseri umani: è indispensabile che sin dai primi istanti di vita si attivi una progressiva nascita sociale, cioè che avvenga una costante e quotidiana opera di costruzione dell’essere umano mediante le relazioni con gli altri, a partire dal primo abbraccio della mamma con il neonato. Come afferma Geertz, si diventa esseri umani acquisendo piano piano «modelli culturali, sistemi di significato creati storicamente, nei cui termini noi diamo forma, ordine, scopo e direzione alla nostra vita». E i modelli culturali coinvolti non sono generali ma specifici.

Ma questi modelli non operano meccanicamente e rigidamente, come un software che si carica in un hardware per farlo funzionare, perché gli esseri umani mantengono una agency individuale, ossia la capacità che permette loro di ripensare e trasformare in maniera autonoma ciò che apprendono culturalmente, senza essere dei semplici “ricevitori” passivi.

I dispositivi sociali che costruiscono e trasmettono queste costellazioni di valori, di norme di comportamento, di principi etici, sono processi di interazione sociale quotidiana, pervasivi e costanti, in ogni ambito: familiare, scolastico, lavorativo. L’antropologo francese naturalizzato britannico Maurice Bloch (n. 1939) ha efficacemente espresso l’idea che gli esseri umani completano se stessi apprendendo da un vasto arco di esperienze concrete. La plasmazione culturale degli individui agisce anche sull’immaginazione visiva, sulle capacità cognitive sensoriali, sulle valutazioni, sui ricordi di sensazioni: come scrive Bloch, la vita in una società è appresa quando da bambini si seguono altri bambini per cercare lamponi nel bosco, quando si cucina con le risorse del focolare, quando si osserva il passo pesante di un nonno.

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1.5 La tecnica del corpo, l’habitus e l’embodiment

Ogni pratica educativa, formativa o inculturativa, agisce direttamente sul nostro corpo. Per comprendere i processi di acquisizione della cultura è dunque indispensabile affrontare il tema della corporeità.

L’antropologo francese Marcel Mauss ▶ L’AUTORE | ha dato un contributo molto importante su questo tema con il suo Saggio sulle tecniche del corpo (1936). Egli parte da un’attenta osservazione di alcune pratiche quotidiane come per esempio il nuoto: un tempo, egli scrive, si insegnava a tuffarsi solo dopo aver imparato a nuotare. Nel tuffo si chiedeva di chiudere gli occhi e di riaprirli nell’acqua. In seguito la tecnica è cambiata e oggi si insegna in modo opposto. Mauss continua con altri esempi: si può capire con sicurezza che un bambino è inglese se sta a tavola con i gomiti stretti al corpo e, quando non mangia, con le mani sulle ginocchia. Un bambino francese non riesce invece a stare dritto: tiene i gomiti a ventaglio, li butta sulla tavola, e così via. Anche l’esperienza della guerra è significativa e in particolare il modo di zappare: le truppe inglesi, con le quali si trovava lo studioso, non sapevano servirsi delle zappe francesi, il che rendeva necessario sostituire 8000 zappe tutte le volte che si dava il cambio a una divisione inglese e viceversa.

Da queste osservazioni Mauss ricava la convinzione che tali “abitudini” mutano non solo con gli individui, ma soprattutto con il variare della società, delle educazioni e delle mode, ed elabora il fondamentale concetto di tecnica del corpo: i modi in cui gli uomini nelle diverse società si servono del loro corpo per uniformarsi alla tradizione. Il corpo è infatti il primo e più naturale strumento dell’uomo.

Il concetto di “tecnica del corpo” indica la capacità di naturalizzare la tecnica appresa, di assorbirla fino al punto di non riconoscerne più il carattere culturale. Le tecniche del corpo riflettono un insieme di abitudini proprie di uno specifico contesto storico-sociale; dunque il nostro comportamento e la nostra corporeità sono sempre elementi impregnati di storia. Ma così non si apprendono soltanto modi di fare, gesti o atteggiamenti; allo stesso modo si assimilano valori, convinzioni, credenze, tutti elementi che si fondono insieme in un “habitus”. Con questo termine Mauss indica un sistema di disposizioni durevoli, di modi di essere, una predisposizione e un’inclinazione, ma anche il risultato di un’azione organizzatrice.

L’habitus è un complesso di atteggiamenti psicofisici mediante cui gli esseri umani stanno nel mondo, è un insieme di saperi appresi per abitudine e in qualche modo incorporati, come il saper cucinare o il sapere suonare uno strumento musicale o il saper nuotare. Questo stare nel mondo è di natura sociale e culturale, per cui il nostro habitus varia tanto sulla base delle nostre particolari caratteristiche psicofisiche, quanto a seconda dei modelli comportamentali e delle rappresentazioni che noi mettiamo in atto come individui facenti parte di una determinata cultura. Tutto ciò che noi facciamo reca l’impronta di un processo di apprendimento, di educazione e di formazione.

Gli antropologi utilizzano la parola inglese  embodiment (“incorporazione”): nel suo senso più ampio il termine si riferisce alla fissazione di certi valori e disposizioni sociali nel corpo e per mezzo del corpo. Il corpo non è un oggetto che deve essere studiato in relazione alla cultura, ma va considerato il soggetto stesso della cultura, o in altre parole la base esistenziale della cultura. La nostra cultura è frutto di embodiment, ossia è embodied (“incorporata”).

Gli aspetti culturali essenziali alla vita di una società devono in qualche modo essere “naturalizzati”, cioè apparire come naturali: per poter funzionare devono in un certo senso occultare la loro caratteristica essenziale di essere delle costruzioni culturali. Come scrive l’antropologo e sociologo francese Pierre Bourdieu (1930-2002), che ha ripreso e sviluppato il concetto di habitus dagli studi di Mauss, «il mondo mi comprende, io però lo comprendo, perché mi comprende»: ciò significa che il mondo, proprio perché mi ha prodotto, in quanto ha prodotto le categorie che gli applico, mi appare così naturale, così ovvio.

Esempio: se io sono nato e cresciuto a Roma, conosco il dialetto di Roma e posso utilizzarlo; il contesto sociale (il mondo) in cui sono nato ha prodotto questa forma linguistica, che proprio per questo a me appare naturale (ci sono nato “dentro”) e mi viene spontaneo utilizzarla applicandola alle esperienze che vivo per poterle esprimere. Parlare romanesco in certe occasioni è dunque un mio habitus.

l’autore  Marcel Mauss

Marcel Mauss (1872-1950) è stato un antropologo e sociologo francese i cui lavori sullo studio comparativo delle relazioni tra le forme di scambio e la struttura sociale hanno influenzato importanti scienziati sociali, tra cui Lévi-Strauss ed Evans-Pritchard. Era il nipote del sociologo E. Durkheim, che contribuì alla sua formazione intellettuale. Nel 1902 diventa professore di religione primitiva presso l’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Nel 1925 fonda l’Istituto di Etnologia all’università di Parigi. Mauss è meglio conosciuto per i suoi contributi a “L’Année sociologique”, la rivista fondata da Durkheim e dai suoi studenti. Tra le sue opere più celebri, oltre al Saggio sulle tecniche del corpo (1936), vi è il Saggio sul dono (1925), dove si concentra sulle forme di scambio e contratto in Melanesia, Polinesia e Nordamerica, esplorando gli aspetti religiosi, legali, economici, mitologici del dare. Ha formato molti etnologi francesi sui metodi e sulle teorie della ricerca etnografica, che successivamente pubblica nel Manuale d’etnografia (1947). Muore a Parigi nel 1950.

  INVITO ALLA VISIONE 
Kim Ki-Duk, TIME, 2006

In questo film drammatico, il regista Kim Ki-Duk esplora il rapporto di una coppia di giovani dopo due anni di relazione. L’insicurezza di perdere il proprio compagno e la gelosia della protagonista sono talmente forti da farle prendere la decisione di ricorrere alla chirurgia estetica e cambiare radicalmente il proprio viso, convinta di poter ravvivare il rapporto ed essere sicura una volta per tutte di avere il compagno devoto solamente a lei. Questa operazione però cambia i suoi lineamenti e il suo corpo così drasticamente che la ragazza non riconosce più se stessa, soprattutto dopo aver sedotto, con il nuovo aspetto, il suo compagno, il quale, ignaro di tutto, se ne innamora. Il film si dipana dunque tra le continue tensioni del volere e del volersi piacere e accettare, ma anche delle trasformazioni causate dal desiderio della costruzione del sé che, in casi estremi, portano alla distruzione.

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  esperienze attive

Il gioco e la costruzione del sé Dividetevi in gruppi di cinque o sei persone. Andate in un negozio di giocattoli; intervistate i vostri genitori/parenti; osservate un parco giochi; chiedete ai più piccoli che giochi fanno. Come sono cambiati rispetto ai giochi che fate/facevate voi? Quali sono le differenze? Sono giochi di gruppo o individuali? In casa o all’aperto? Che importanza hanno/avevano quei giochi? Scrivete le risposte su un foglio o su un cartellone e confrontatele con quelle degli altri gruppi.

per lo studio

1. Che cosa sono i riti di iniziazione?

2. Che cos’è l’habitus?

3. Che cosa significa in antropologia il termine embodiment?


  Per discutere INSIEME 

Che cos’è l’antropopoiesi e quali sono secondo te i processi inculturativi che ti hanno reso la persona che sei adesso? Fai una lista di alcuni di questi processi e confrontala con quelli dei tuoi compagni. Sono diverse? Se sì, perché? Discutetene insieme e riflettete sull’importanza per l’individuo della “nascita sociale”.

Dialoghi nelle Scienze umane - volume 2
Dialoghi nelle Scienze umane - volume 2
Antropologia, Sociologia, Psicologia – Secondo biennio del liceo delle Scienze umane