T1 - Émile Durkheim, Che cosa sono i fatti sociali

PAROLA D’AUTORE

|⇒ T1  Émile Durkheim

Che cosa sono i fatti sociali

Le regole del metodo sociologico si colloca tra i libri più importanti di Durkheim. Si tratta di un testo in cui lo studioso francese enuncia alcuni degli aspetti che caratterizzano l’analisi dei fenomeni collettivi come “fatti sociali”. All’inizio del libro l’autore sintetizza che cosa significa per lui studiare i “fatti sociali” e che cosa caratterizza questi oggetti privilegiati della sociologia.

Prima di vedere qual è il metodo funzionale allo studio dei fatti sociali, è importante comprendere quali tipi di fatti ricadono sotto questo nome. La questione è tanto più importante quanto più ci si serve di questa definizione senza troppa precisione. La si usa correntemente per designare presso a poco tutti i fenomeni che si verificano all’interno della società, per poco che essi presentino, con una certa generalità, un qualche interesse sociale. Ma, da questo punto di vista, non ci sono avvenimenti, per dir così, umani che non possano dirsi anche sociali. Ogni individuo beve, dorme, mangia, ragiona; e la società ha tutto l’interesse che queste funzioni si svolgano regolarmente. Se dunque tutti questi fatti fossero sociali, la sociologia non avrebbe un oggetto proprio ed il suo dominio si confonderebbe con quello della biologia e della psicologia.

Ma in realtà c’è, in ogni società, un gruppo determinato di fenomeni che si distinguono per caratteri spiccatamente diversi da quelli che studiano le altre scienze della natura. Quando assolvo il mio compito di fratello, di sposo, o di cittadino, quando rispetto gli obblighi che ho assunto, compio dei doveri che sono definiti, al di fuori di me e dei miei atti, nel diritto e nei costumi. Anche se essi sono in sintonia con i miei sentimenti e ne sento interiormente la realtà, questa non cessa di essere oggettiva, perché non sono io che li ho creati, ma li ho ricevuti attraverso l’educazione. [...]

Allo stesso modo, le credenze e le pratiche della sua vita religiosa, il fedele le ha trovate bell’e fatte nascendo; e, se esistono prima di lui, vuole dire esistono fuori di lui. Il sistema di segni di cui mi servo per esprimere il mio pensiero, il sistema monetario che uso per pagare i miei debiti, gli strumenti di credito che utilizzo nelle mie relazioni commerciali, le pratiche seguite nella mia professione ecc. funzionano indipendentemente dall’uso che ne faccio io. [...] Ecco, dunque, alcuni modi di agire, di pensare e di sentire, che presentano questa fondamentale caratteristica, che esistono al di fuori delle coscienze individuali.

Questi tipi di condotta e di pensiero non solo sono esteriori all’individuo, ma sono altresì dotati di un potere imperativo e coercitivo, in virtù del quale, voglia o non voglia, si impongono all’individuo. Indubbiamente, quando spontaneamente mi conformo a questi tipi di agire, questa coercizione non è più così evidente, essendo in questo caso inutile. Ma non per questo essa smette di costituire un carattere intrinseco di questi fatti. La prova è che questa coercizione si afferma quando tento di resistere.

Se tento di violare le regole del diritto, esse reagiscono contro di me in modo tale da impedire il mio atto, se ce n’è ancora la possibilità, o di annullarlo o di ristabilirlo sotto forma normale, se è compiuto e riparabile, o di farmelo espiare, se non può essere altrimenti riparato. Si tratta di massime puramente morali? La coscienza pubblica contiene ogni atto che possa offenderle, con la sorveglianza esercitata sulla condotta dei cittadini e le pene speciali di cui dispone. In altri casi, la costrizione è meno violenta, ma non cessa di esistere. Se non mi sottometto alle convenzioni civili, se, vestendomi, non tengo alcun conto degli usi seguiti nel mio paese e nella mia classe, il riso che provoco, la distanza in cui mi si tiene, producono i medesimi effetti che una punizione vera e propria, sebbene in una maniera più attenuata.

Anche quando, di fatto, posso affrancarmi da queste regole e posso violarle con successo, questo non accade mai senza che io sia obbligato a lottare contro di esse. Anche quando esse sono, infine, vinte, fanno sufficientemente sentire il loro potere coercitivo per la resistenza che oppongono. Non c’è innovatore, anche fortunato, le cui imprese non finiscono con l’urtare in opposizioni di questo genere.

Rispondi

1. Quali sono i “fatti sociali” che Durkheim identifica come significativi per la sociologia?

2. Che cosa, secondo Durkheim, esiste «al di fuori delle coscienze individuali»?

3. In che senso l’autore parla di «coercizione»?

 >> pagina 305 

|⇒ T2  Max Weber

Il concetto di potere

Il seguente passaggio di Max Weber è dedicato a spiegare che cosa sia il potere e quali siano le differenti forme che assume nella società. Quello che è importante osservare, scrive Weber, è quando e in che misura un certo comando possa venire considerato come legittimo da chi obbedisce.

Per «potere» si deve intendere la possibilità per specifici comandi (o per qualsiasi comando) di trovare obbedienza da parte di un determinato gruppo di uomini [...]. Inteso in questo senso il potere (o «autorità») può fondarsi, nel caso singolo, sui più diversi motivi di disposizione a obbedire, cominciando dalla cieca abitudine fino a considerazioni puramente razionali rispetto allo scopo. Ad ogni autentico rapporto di potere corrisponde un minimo di volontà di obbedire, cioè un interesse (interno o esterno) all’obbedienza.

Non ogni potere si serve di mezzi economici e ancor meno ogni potere ha scopi economici. Ma ogni potere su una pluralità di persone richiede normalmente, anche se non sempre, un apparato di uomini, che costituisce l’apparato amministrativo; il potere richiede, cioè, la sicura possibilità di poter agire in modo specifico per realizzare i propri obiettivi generali e i suoi comandi concreti da parte di determinati uomini di fidata obbedienza. Questo apparato amministrativo può essere vincolato alla obbedienza rispetto al detentore del potere soltanto in base alla tradizione o per motivi puramente affettivi, oppure in base a interessi materiali o a motivi ideali. [...]

L’esperienza ci mostra che nessun potere può accontentarsi di fondare la propria permanenza su motivi esclusivamente affettivi o razionali. Ogni potere cerca piuttosto di suscitare e di coltivare la fede nella propria legittimità. A seconda del tipo di legittimità a cui mira, è però fondamentalmente diverso anche il tipo di obbedienza [...]. Di conseguenza è opportuno distinguere i tipi del potere a seconda della loro tipica pretesa di legittimità. […]

La «legittimità» di un potere può naturalmente essere considerata soltanto come la possibilità che esso sia ritenuto tale in una misura rilevante, e che da ciò derivi una corrispondente azione concreta. Non è affatto vero che ogni tendenza a obbedire al potere sia orientata in modo primario in base a questa idea. La disposizione a obbedire può essere simulata dal singolo o da interi gruppi soltanto per motivi di opportunità, può essere assunta come inevitabile per debolezza e per bisogno di protezione. Tutto questo non è però decisivo per il tipo di potere. Ciò che è decisivo, invece, è il fatto che la pretesa che un potere sia legittimo varia a seconda del tipo di potere in una misura rilevante, garantendo la sua sussistenza e insieme determinando la specie dei mezzi di potere prescelti.

Rispondi

1. Perché il potere deve essere legittimato da chi obbedisce ai comandi?

2. Perché al potere serve un apparato amministrativo?

3. In che senso Weber parla di «volontà di obbedire»?

Dialoghi nelle Scienze umane - volume 2
Dialoghi nelle Scienze umane - volume 2
Antropologia, Sociologia, Psicologia – Secondo biennio del liceo delle Scienze umane