2 Le culture cambiano

2. Le culture cambiano

2.1 DIFFERENZA O ALTERITÀ?

La definizione di cultura di Tylor ha portato nel tempo allo sviluppo di un ampio dibattito, all’interno del quale gli antropologi hanno messo a fuoco sempre meglio le caratteristiche antropologiche della cultura e i metodi per il suo studio.

La prima questione cruciale che sorge dalla riflessione tyloriana è quella della differenza. La concezione di Tylor implica infatti per definizione l’esistenza di una grande quantità di culture differenti, rendendo più appropriato un utilizzo al plurale del termine. Ma quali sono le cause di questo intenso proliferare storico di culture diverse, e cioè di credenze, strutture politiche, istituzioni, forme di famiglia e costumi differenti, in ogni angolo di mondo? In che senso dobbiamo intendere la diversità fra le culture?

L’antropologo francese contemporaneo Francis Affergan (n. 1945) ha suggerito che sarebbe meglio parlare di diversità piuttosto che di alterità: le culture umane sono spesso diverse, ma non sono completamente “altre”; le variazioni culturali fra le società, cioè, non sono infinite e non possono essere completamente prive di relazioni fra loro, perché tutte riguardano l’essere umano.

Le differenze emergono entro una logica generale comune e ciò apre alla possibilità di comprensione e traduzione interculturale. È indispensabile quindi pensare alle varie culture non come a contesti isolati fra loro, ma al contrario utilizzando una visione connessionista, cioè un approccio che metta in luce e indaghi i nessi e le profonde interdipendenze storiche, sociali ed economiche fra le società.

L’antropologia si pone quindi il problema di come i vari gruppi umani, le varie società e gli individui che ne fanno parte riflettano sul concetto di “differenza”: chi sono i diversi da noi e in che senso sono diversi? Differiscono dal punto di vista somatico: per la conformazione del volto, il colore della pelle? Differiscono sul piano dei costumi e dei comportamenti: hanno altri valori, credenze, istituzioni? Le differenze che percepiamo sono tutte reali o possono anche essere immaginate, inventate o costruite? La diversità ci spaventa o ci attrae? È una minaccia o una ricchezza?

Già nel Cinquecento, il filosofo Michel de Montaigne (1533-1592) scriveva pagine bellissime sull’importanza e il rischio della differenza ▶ APPROFONDIAMO |.

Sulla base di numerose ricerche gli antropologi hanno evidenziato che tutte le società tendono a elaborare un senso del noi e un senso di altri da noi, e che pensare la differenza implica costruire risposte culturali su chi è l’essere umano, che caratteristiche ha, quali confini ci sono fra l’umano e il disumano. Non esiste dunque soltanto l’antropologia in senso accademico, elaborata dal pensiero occidentale; anche le società extraoccidentali elaborano un loro discorso sull’essere umano, ovvero delle  antropologie implicite.

Come abbiamo visto, Tylor allarga il concetto di cultura a un gran numero di elementi, o tratti, apparentemente eterogenei fra loro: le lingue, le credenze, le forme politiche, l’economia, la parentela e così via. Gli antropologi, sullo spunto di Tylor che parlava di «insieme complesso», ritengono che questi tratti non siano semplicemente giustapposti, ma che siano interconnessi in modi specifici e variabili da società a società, che siano cioè integrati fra loro in una particolare logica sistemica, secondo una rete di correlazioni e covariazioni. Introducendo delle modifiche in uno di questi elementi, si innescano delle grandi o piccole, talvolta anche invisibili, variazioni a catena su tutti gli altri elementi della rete. Ciò significa che l’antropologo deve adottare un  approccio olistico: per quanto difficile sia, non si può studiare un singolo elemento culturale ignorando tutti gli altri. Questa impostazione richiede che l’antropologia culturale sia aperta a un costante dialogo interdisciplinare con la psicologia, la linguistica, la biologia, la zoologia e così via.

Esempio: l’antropologa contemporanea Pamela Ellen Israel negli anni Ottanta del Novecento ha compiuto una interessante ricerca sulla modernizzazione delle abitazioni degli Shuar, una tribù indigena dell’Amazzonia ecuadoriana, avviata dal governo nell’ambito di un progetto di miglioramento dei servizi logistici (acqua, luce elettrica, gas). La casa shuar tradizionale, di forma ovale in legno e cannucciato, venne gradualmente sostituita da moduli abitativi rettangolari in mattoni con tetti in lamierato ondulato. Il semplice cambiamento nel passaggio dalla pianta ovale a quella rettangolare ha comportato l’inizio di un drammatico processo di  deculturazione.

Per gli Shuar la forma ovale dello spazio domestico e la sua articolazione interna, con una coerente disposizione degli arredi e delle aperture, costituivano la rappresentazione concreta della loro visione religiosa del cosmo: il cuore delle credenze tradizionali. Il cambiamento forzato di semplici elementi dell’ambiente quotidiano, come la pianta di una casa, ha prodotto una dolorosa trasformazione di valori e simbologie religiose molto profonde.

Questo esempio non solo mette in luce la stretta connessione fra elementi culturali diversi e a prima vista non pertinenti fra loro (una religione e la forma di una casa), ma fa notare l’importanza degli aspetti concreti e materiali delle culture: gli oggetti quotidiani, la disposizione delle stanze in una casa, gli arredi o il tipo di mobilio sono spesso elementi dotati di significati culturali e contribuiscono alla socializzazione e alla trasmissione di valori, gusti, norme e codici estetici.

  INVITO ALLA LETTURA 
Takoua Ben Mohamed, SOTTO IL VELO, Becco Giallo, 2016

Takoua Ben Mohamed, una graphic journalist e sceneggiatrice di origini tunisine cresciuta a Roma, è autrice di questo fumetto che, con molta ironia, racconta vicende quotidiane e autobiografiche per far riflettere sull’alterità, i pregiudizi e la paura del diverso.

approfondiamo  MONTAIGNE: LE STRANEZZE DELLA DIVERSITÀ

Prima ancora dell’arrivo degli antropologi, sin dai tempi dello storico greco Erodoto (V secolo a.C.), storici, viaggiatori e missionari si sono interrogati sul tema della differenza culturale. Un esempio è il filosofo e scrittore francese Michel Eyquem de Montaigne, che nel 1571, in ritiro nel castello di famiglia, inizia a lavorare alla sua opera più famosa, gli Essais (“Saggi”). Nel saggio Sui costumi, scritto intorno al 1572-1574, Montaigne affronta il problema della differenza culturale. Inizia citando le usanze culinarie delle genti del Nuovo Mondo, a cui piace mangiare ragni, locuste, formiche, lucertole, pipistrelli e rospi, e per alcuni dei quali invece «le nostre carni e vivande risultarono mortali e velenose». Con un gioco di parole, l’autore sostiene che questi esempi, che a prima vista ci appaiono così estranei, in realtà non sono affatto “strani”. Ciò che ci appare strano dipende sempre da una questione di prospettiva. Le usanze e le consuetudini che apprendiamo sin dalla nascita «sembra siano quelle generali e naturali» e quindi «quello che è fuori dei cardini della consuetudine, lo si giudica fuori dei cardini della ragione» e dunque potenzialmente come una minaccia alla normalità e a ogni ordine prestabilito. Ciò ci impedisce di riconoscere che anche le nostre usanze sono strane e barbare agli occhi di coloro che noi chiamiamo barbari. La barbarie ha sempre a che fare con l’alterità, è una valutazione della differenza, un atteggiamento che usiamo per tracciare i confini fra “noi” e gli “altri”.

Come liberarci da questa rigidità di giudizio? Prendendo ispirazione da altri pensatori, Montaigne vede il viaggio e la frequentazione degli altri come «una delle più belle scuole che ci possano essere», dove ci si presenta «continuamente la diversità di tante altre vite, idee e usanze», dove possiamo «assaggiare una così continua varietà di forme della nostra natura». Per intraprendere questo viaggio, dobbiamo essere pronti a sfidare i limiti delle nostre consuetudini, e ad ammettere la possibilità che esistano «mille contrarie maniere di vita».

Il viaggio intrapreso al di fuori dei propri costumi implica sempre un rischio, in primis quello di sentirci scossi nel nostro giudizio. Da questo viaggio deriva una nuova forma di saggezza, che si misura non tanto nell’acquisizione di altri costumi, ma in un cambiamento di atteggiamento (una “moderazione”) nei confronti dei propri.

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2.2 IL MUTAMENTO SOCIALE

Un’altra caratteristica importante delle culture è il mutamento. La nostra vita è un continuo cambiamento: nel corso del tempo cambiamo casa, cambiamo scuola, gusti alimentari o musicali, cambiamo partner o taglio di capelli; cambiamo costantemente, rinnovando tutte le cellule della pelle. Così anche le culture, come le lingue, sono in continuo mutamento.

L’antropologo francese George Balandier (1920-2016), in un celebre libro dal titolo Le società comunicanti del 1971, ha affermato che esistono due dinamiche da cui dipende il mutamento culturale: una dinamica interna e una dinamica esterna:

  • la dinamica interna è costituita da invenzioni, scoperte o esaurimento di una pratica, e anche dal fatto che nei processi di inculturazione gli elementi culturali vengono sì insegnati e tramandati, ma mai in modo rigido e immutabile. Gli esseri umani conservano sempre una più o meno ampia  agency individuale, ovvero una capacità di rielaborare, a volte contestare, quanto viene loro culturalmente trasmesso, per esercitare una forma di controllo decisionale sulle loro vite;
  • la dinamica esterna è invece dovuta a contatti, e spesso a scontri, fra culture diverse: migrazioni, forme di dominazione coloniale, ma anche forme di mutamento pianificato come nei processi di cooperazione allo sviluppo.

I due tipi di dinamica culturale sono legati fra loro, ma indubbiamente la dinamica esterna ha una forza maggiore: i cambiamenti più interessanti e profondi, talvolta drammatici, sono dovuti alla natura asimmetrica delle relazioni di potere che si stabiliscono fra le culture che entrano in contatto, per cui una delle due risulta egemone e dominante costringendo l’altra in una posizione di più o meno forte subalternità. Oggetti, merci, innovazioni tecnologiche, ma anche parole, idee, credenze circolano, o più spesso vengono imposti, nel processo di  acculturazione, avviando così un cambiamento che coinvolge con intensità diversa entrambe le culture.

Tutto ciò spinge gli antropologi a considerare le culture non dei prodotti statici e immutabili ma dei processi fluidi e variabili, la cui analisi e comprensione non può prescindere da una prospettiva storica: la storia dell’umanità è storia di contatti culturali in cui differenti costumi, mescolandosi e fondendosi fra loro, cambiano costantemente nel corso del tempo.

Le culture non sono mai entità completamente chiuse e impermeabili verso l’esterno. Per effetto del mutamento non sono mai nemmeno omogenee e compatte al loro interno; presentano al contrario differenziazioni e stratificazioni di tipo sociale, economico, politico: mai, in nessun caso, coloro che si riconoscono in un determinato orizzonte culturale di credenze, pratiche e valori, vi aderiscono completamente e in modo incondizionato, credendo tutti nelle stesse cose, allo stesso modo, con la stessa intensità. In ogni contesto culturale, per quanto rigido o dogmatico si possa presentare, vi sono sempre forme di contestazione, di critica e di conflitto interno. Se i contatti e gli scambi fra culture diverse sono una costante storica del genere umano, potremmo chiederci allora: è possibile parlare di “culture pure”? È davvero applicabile l’idea di purezza ai costumi e agli universi culturali?

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2.3 CULTURE ED EVOLUZIONISMO

Come le culture siano soggette a cambiamento nel corso del tempo è un tema centrale all’epoca della nascita dell’antropologia. Tylor ricopre la prima cattedra di antropologia a Oxford nel 1896, lavora nell’Inghilterra vittoriana all’apice della Rivoluzione industriale, vivendo in un periodo di profondi mutamenti dati dalla diffusione delle fabbriche, dalle invenzioni della ferrovia e della macchina a vapore, che trasformano radicalmente le relazioni sociali, il senso delle distanze e i sistemi economici. In un clima  positivista di grande ottimismo per lo sviluppo tecnologico dell’Europa, le Grandi Esposizioni universali di Londra (1851) e di Parigi (1867) presentano in enormi stand centinaia di dispositivi industriali per il miglioramento produttivo, segni tangibili della forza del metodo scientifico come punto di vertice del pensiero occidentale.

L’acceso dibattito scaturito dalla pubblicazione del libro L’origine delle specie di Charles Darwin (1809-1882) nel 1859 contribuisce all’affermazione dell’idea di progresso come principio guida dell’epoca, dapprima fra gli intellettuali e poi nel senso comune.

Appaiono particolarmente efficaci le chiavi di lettura che rappresentano il cambiamento storico delle società in termini di progresso delle capacità cognitive. Come già negli scritti del filosofo August Comte (1798-1857) agli inizi dell’Ottocento, anche in Tylor l’affiorare del pensiero razionale è concepito come il risultato di una lenta e progressiva maturazione intellettiva del genere umano.

Il britannico James George Frazer (1854-1941), eminente antropologo e storico delle religioni, nel suo volume Il ramo d’oro (uscito in prima edizione nel 1890) afferma che l’evoluzione delle culture è scandita da un lento raffinamento del pensiero, che sarebbe progredito da una fase magica verso una fase religiosa per giungere finalmente a una fase scientifica. Nasce così il primo  paradigma della storia dell’antropologia culturale, “l’evoluzionismo”, la cui visione del mutamento sociale è ben riassunta nel titolo dell’opera principale di Lewis Henry Morgan (1818-1881), antropologo e avvocato repubblicano di New York: Ancient Society or Researches in the Lines of Human Progress from Savagery, through Barbarism, to Civilization (1877) (“La società antica o ricerche sulla linea del progresso umano dallo stato selvaggio, attraverso la barbarie, alla civiltà”).

Per gli antropologi evoluzionisti Tylor, Frazer e Morgan, tutte le società, dalle più semplici alle più complesse, potevano essere collocate in un’unica scala, in una sequenza di progresso tanto naturale quanto necessario: da uno stato di selvatichezza si passava alla barbarie, per poi arrivare alla civiltà. Inoltre, per gli antropologi evoluzionisti direttamente influenzati dagli studi di importanti archeologi come John Lubbock (1834-1913), le ricerche etnografiche sui selvaggi contemporanei potevano fornire informazioni utili per leggere meglio i reperti archeologici, proprio come se i nativi fossero dei fossili viventi.

La vita dei primitivi abitanti dell’Europa (in senso archeologico) poteva essere paragonata alla vita dei selvaggi contemporanei (in senso etnografico); così le culture dei “selvaggi contemporanei” erano concepite come sopravvivenze di stadi culturali precedenti, rispetto all’Europa civilizzata di fine Ottocento, nel lungo arco evolutivo della storia dell’umanità.

Con la relazione di Tylor al Congresso di archeologia preistorica di Norwich nel 1868, in cui viene avanzata questa tesi, il termine “primitivo” sostituisce per la prima volta il termine “selvaggio” diventandone sinonimo. Questo passaggio è concettualmente profondo perché contiene l’idea di base dell’evoluzionismo antropologico: chi è venuto prima, in senso cronologico, è anche più semplice, più elementare, più rozzo e posto a un livello evolutivo inferiore di chi è venuto dopo. Il riferimento cronologico contiene implicitamente un giudizio di valore.

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2.4 CRITICHE ALL’EVOLUZIONISMO ANTROPOLOGICO

Franz Boas ▶ L’AUTORE | è stato l’antropologo che per primo e con grande incisività ha mosso forti critiche all’evoluzionismo antropologico. Nel fondamentale articolo I limiti del metodo comparativo in antropologia, apparso sull’importante rivista “Science” nel 1896, egli affermava che l’errore più importante dell’approccio evoluzionista consisteva in una modalità profondamente errata di comparazione. Non è possibile concepire il cambiamento storico delle società come un processo di evoluzione sociale di dirozzamento e incivilimento, utilizzando il progresso tecnico e materiale come misura del progresso sociale. Se infatti si possono comparare due dispositivi meccanici, come per

l’autore Franz Boas esempio, fra i mezzi di trasporto, una locomotiva a vapore e un carro tirato da buoi, e stabilire con criteri oggettivi che l’una è tecnicamente più progredita rispetto all’altro, al contrario non esistono criteri oggettivi per affermare che una forma di famiglia o un sistema di credenze è più evoluto di un altro.

Boas ha dimostrato che non è possibile costruire una scala gerarchica in senso evolutivo delle società ordinandole in base a una estrapolazione di elementi caratteristici considerati simili (un sistema di credenze, una forma politica, la trama di certi racconti mitici e così via), con l’idea che ciò dipenda dalle stesse cause e che quindi ci sia stata una evoluzione uniforme e lineare. Per spiegare la sua teoria egli propose l’efficace esempio delle maschere.

Le maschere sono un elemento concreto il cui uso è molto diffuso in tante culture e la cui origine non è ancora del tutto chiara. In alcune culture le maschere sono indossate per ingannare gli spiriti portatori di malattie sull’identità di chi le indossa. Si tratta quindi di una funzione protettiva. In altre società, la maschera rappresenta una divinità che viene personificata da chi la porta, come nella cosiddetta impersonazione rituale zuñi delle comunità pueblo del Sud-Ovest degli Stati Uniti. Si tratta in questo caso di una funzione mistica: una forma profonda di preghiera in cui, indossando la maschera raffigurante una divinità, si accoglie la divinità stessa dentro di sé.

Ci sono poi altri contesti culturali, in cui le maschere hanno usi del tutto differenti. Per esempio, possono raffigurare aspetti del carattere di un defunto (l’allegria, la forza e così via) e si indossano in occasioni rituali per ricordarlo con affetto e onore. In questo caso le maschere hanno una funzione commemorativa.

La presenza di uno stesso elemento dalle caratteristiche formali simili in società differenti, magari anche molto distanti fra loro geograficamente o storicamente, è frutto di processi storici diversi e risponde a esigenze sociali diverse specifiche per ogni società. Dunque, tornando al nostro esempio, non solo è sbagliato accomunare società differenti esclusivamente in base all’uso delle maschere, senza comprendere quali significati esse hanno nel contesto culturale di chi le utilizza; è anche impossibile pretendere di stabilire che una cultura in cui la maschera ha un uso mistico sia oggettivamente inferiore, o più primitiva, rispetto a una cultura in cui essa ha un uso commemorativo, oppure rispetto a una cultura in cui le maschere non si usano affatto.

l’autore  Franz Boas

Franz Boas (1858-1942) nasce a Minden, in Germania, in una famiglia ebrea. La versatilità che lo caratterizza sin da bambino lo porta a spaziare dalla zoologia alla biologia, dalla matematica alla storia, fino a conseguire il dottorato in fisica nel 1881, presso l’università di Kiel. Il forte interesse per le culture artiche maturato con la tesi dottorale, lo porta a imbarcarsi, nel 1883, in una spedizione scientifica di un anno presso gli Inuit dell’Isola di Baffin, nel nord del Canada, che lo inizia all’antropologia. La sua ricerca, focalizzata sulla descrizione dettagliata della quotidianità della popolazione locale, è pionieristica in quanto getta le basi per la formulazione della teoria sul relativismo culturale con la quale critica le teorie di matrice razzista ed evoluzionista dell’epoca. Nel 1886 si trasferisce a New York, dove diventa prima lettore e poi professore di antropologia alla Columbia University nel 1899, fondando il primo dipartimento di antropologia negli Stati Uniti. Pubblica diverse opere antropologiche come Limiti del metodo comparativo in antropologia del 1896, La mente dell’uomo primitivo del 1911 (che revisiona e amplia nel 1937) e Race, language and culture (“Razza, linguaggio e cultura”) del 1940. Muore a New York nel 1942.

per lo studio

1. Perché le società cambiano?

2. Che cosa sono le antropologie implicite?

3. Perché l’evoluzionismo antropologico utilizza una comparazione errata?


  Per discutere INSIEME 

Prova a riflettere su quante volte, nel tuo quotidiano, usi inconsapevolmente i termini “primitivo”, “civilizzato”, “rimanere indietro”. Leggendo nuovamente la critica di Boas al metodo comparativo evoluzionista, discuti insieme ai tuoi compagni sull’erroneità di questi termini e sulle pericolose conseguenze di questa categorizzazione.

Dialoghi nelle Scienze umane - volume 2
Dialoghi nelle Scienze umane - volume 2
Antropologia, Sociologia, Psicologia – Secondo biennio del liceo delle Scienze umane