T1 - Geneviève Calame-Griaule, La teoria della parola dogon

PAROLA D’AUTORE

|⇒ T1  Geneviève Calame-Griaule

La teoria della parola dogon

Geneviève Calame-Griaule, figlia del celebre antropologo francese Marcel Griaule, è considerata una delle fondatrici dell’etnolinguistica francese. Nel suo libro del 1965, intitolato Ethnologie et Language, mostra come, tra i Dogon del Mali (Africa occidentale), lingua e cosmologia siano profondamente interconnesse. Il brano che segue è soltanto un assaggio dell’articolata “teoria della parola” dogon.

L’uomo manifesta la sua umanità attraverso la parola; è questo che lo distingue dall’animale e dall’oggetto inanimato. Ma se la parola è inerente all’uomo (non si può infatti concepirla senza un supporto umano che la produca) essa ha però una vita propria, una personalità che è una specie di doppio di quella dell’essere. La parola, così come la concepiscono i Dogon, si scompone in elementi multipli, paralleli a quelli della persona; non è possibile quindi analizzarne la natura senza avere previamente descritto le componenti della personalità entro la quale essa si colloca.

[…] I princìpi spirituali o essenze spirituali che, in mancanza di un termine migliore, abbiamo sinora chiamato “anime” sono otto. Il termine dogon kikínu viene messo in rapporto con kínu ‘naso,’ ‘soffio,’ ‘vita,’ perché i princìpi spirituali si spostano sotto forma di vento e penetrano nell’individuo attraverso la respirazione. Divisi in due gruppi di quattro, destinati rispettivamente al corpo e al sesso, sono maschi o femmine, “intelligenti” o “bestiali” […].

[…] La parola è la proiezione sonora nello spazio della personalità dell’uomo, originata dalla sua essenza perché è per mezzo della parola che si rivelano il carattere, l’intelligenza, e la passionalità. Espressione della vita psichica individuale, la parola genera anche la vita sociale, il canale attraverso cui due Io diversi entrano in comunicazione. Per questo i Dogon considerano la parola un’emanazione dell’essere a lui somigliante in tutte le sue parti.

Il corpo della parola è il suono, la materia sonora, formata, come il corpo umano, dai quattro elementi.

L’acqua è necessaria alla vita della parola quanto a quella del corpo umano animale o vegetale. Se manca la saliva, per il calore o per la sete, si parla con difficoltà. La parola è allora “secca” e solo bevendo le si restituisce la fluidità. Di una parola che scorre facilmente, che si esprime con chiarezza si dice “parola umida”. Inoltre, l’acqua è il supporto della vibrazione sonora […].

[…] Per poter produrre la parola l’acqua deve combinarsi con gli altri elementi.

L’aria che l’uomo respira è altrettanto necessaria: essa origina la vibrazione sonora che conduce il vapore acquo carico di suono […].

La terra è l’elemento che dà alla parola il suo peso, il suo significato: è cioè il senso delle parole, l’intelaiatura del discorso che corrisponde allo scheletro del corpo umano. La terra differenzia la parola dal rumore, sarebbe infatti incomprensibile una parola senza un minimo di significato. […]

Il fuoco è il calore della parola che dipende dalle condizioni psicologiche del parlante: quando egli è in collera o agitato la sua parola è bruciante mentre alla calma corrisponde una parola fredda.

I quattro elementi sono dunque, in diverso grado, indispensabili alla formazione della parola: ma sono dosati in modo variabile a seconda della sua natura, cioè secondo l’uso adottato dal parlante. […]

Come l’essere umano, anche la parola ha un sesso, che è in rapporto all’altezza del suono […].

A queste distinzioni si collegano alcune nozioni etiche. La parola maschile si identifica con la parola cattiva; l’uomo parla con voce rude e forte, con rapidità e impazienza. La sua parola corrisponde alla stagione secca […]. Al contrario, la parola della donna è dolce e lenta, il suo tono poco elevato perché la donna è paziente. A questa corrisponde la stagione delle piogge […].

Il seme della parola, come quello dell’essere umano, è simbolo della sua fertilità. Si definisce “parola senza seme” una parola vuota, senza interesse, che non desta alcuna eco in chi la ascolta e non avrà alcuna ripercussione fecondante nei rapporti umani.

Dalla forza vitale della parola dipende quella del parlante, essa le conferisce energia e autorità per convincere. […]

Infine la parola, a immagine dell’uomo, possiede otto principi spirituali classificati con lo stesso criterio. Riferito alla parola, il concetto di principio spirituale indica il tono […]; comprende sia i toni linguistici che l’intonazione emotiva, insomma tutte le modalità e le variazioni che possono modificare l’emissione della parola. Questi diversi toni sono compresi nel termine (che abbiamo già visto nel significato di ‘voce’) e che qui si applica al timbro, all’altezza e al tono.

Rispondi

1. Nel primo paragrafo si dice che, secondo i Dogon, la parola «si scompone in elementi multipli, paralleli a quelli della persona». Come emerge questa idea nel corso del brano? Trova degli esempi.

2. Che cos’è una “teoria locale della parola”? E in che senso quella descritta nel brano può essere considerata tale?

3. Quali elementi relativi alla teoria dogon sulla parola e la persona ti colpiscono di più?

4. Osserva quello che viene detto sulla relazione tra i principi spirituali (kikinu) e gli aspetti sonori della parola (). Nella tua cultura, esistono associazioni simili tra voce, intonazione, pronuncia ecc. e tipi di persona (genere, carattere ecc.)?

 >> pagina 208 

|⇒ T2  Carlo Severi

Una storia hasidim

Nel libro Il percorso e la voce, l’antropologo Carlo Severi analizza i modi di “fare memoria” tipici delle società non occidentali a tradizione orale. Il libro si apre con l’analisi di una storia tratta dalla tradizione ebraica chassidica che mira a far riflettere su come, anche in una religione fondata sul libro e sulla scrittura, la narrazione orale sia comunque fondamentale per la costruzione della memoria.

Così racconta una storia ebraica, della tradizione hasidim:


Il padre di mio nonno, per onorare Dio, usciva di casa prestissimo, alle prime luci dell’alba. Andava nel bosco, seguendo un sentiero che solo lui conosceva. Arrivato vicino a una sorgente, si metteva di fronte a una grande quercia, e cantava in ebraico una preghiera solenne, antica e segreta.

Suo figlio, il padre di mio padre, usciva anche lui di casa molto presto, e andava nel bosco seguendo il cammino che il padre gli aveva mostrato. Solo che lui, che aveva il respiro pesante e tanti guai nella testa, si fermava prima. Aveva trovato una betulla vicino a un ruscello, davanti alla quale cantava la preghiera ebraica che aveva imparato a memoria da bambino. E così, anche lui onorava Dio1.

Suo figlio maggiore, mio padre, aveva meno memoria, era meno pio, e aveva una salute meno vigorosa. Così, non si alzava più così presto, andava giusto vicino a casa, in un suo giardino dove aveva piantato un alberello, e, in modo molto più impreciso, mormorava qualche parola ebraica, spesso zeppa di errori, per onorare Dio.

Io, che non ho né memoria né tempo, ho dimenticato dove si trovava il bosco, non so più nulla di ruscelli o di fonti, non sono più in grado di recitare nessuna preghiera. Però mi alzo presto e racconto questa storia: e questo è il mio modo di onorare Dio.

Questa storia è meno semplice di quanto sembri. A prima vista, il senso può apparire ovvio: si tratta di un apologo2. Un apologo sulla memoria che gradatamente scompare. Di generazione in generazione, sembra dire il narratore, tutto si perde. Le informazioni che non sono messe per iscritto (il bosco, il sentiero, il prato, la collina, la quercia), come i dettagli del canto in onore di Dio che il capostipite della famiglia del narratore seguiva con tanto scrupolo, inevitabilmente si perdono senza lasciare traccia. Come le preghiere in ebraico che il narratore non sa più recitare.

La memoria degli uomini è fragile. Tutto lotta contro la memoria: le parole, tutte le parole, anche le più solenni, sono puro fiato, si perdono nell’aria, sembra aggiungere il racconto.

Un secondo senso dell’apologo riguarda certamente, di riflesso, la scrittura e l’uso dei libri, o del Libro, come è naturale che sia nella tradizione ebraica, e il suo rapporto con la memoria. Si pensa subito alle tradizioni orali: alla loro fragilità, al modo che hanno di scomparire, perché sono sostenute soltanto dal fiato di coloro che raccontano. […] Chi racconta è mortale – sembra dire l’io narrante – la sua memoria viva si perde nella polvere, o nell’incomprensione. Il narratore stesso è la prova che i dettagli del rito si perdono […].

Però, conclude il narratore, anche lui continua a onorare Dio. […] Lo fa raccontando come è scomparsa la preghiera, che lui non può più recitare. Qui il testo […] traccia invece una prima distinzione nell’ambito delle parole dette: tra ciò che si può raccontare, le storie, e parole di ordine diverso, che vanno rivolte, in modo solenne, direttamente a Dio. Alcune parole sono fatte per raccontare, altre per celebrare, sembra aggiungere l’apologo hasidim, e insieme offre la più bella prova che solo il narrare, non il rito e le sue esotiche funzioni, fanno memoria. […]

Eppure […] sembra che ci sia qualcosa in questa storia che ne contraddice il contenuto manifesto. […] Quella storia non è solo narrazione di qualcosa, da padre a figlio, generazione dopo generazione. È anche qualcosa di molto diverso. In realtà è anche una preghiera, raccontata per onorare Dio. […] Questa che si rivela essere la storia di una preghiera scomparsa dalla memoria conserva, proprio grazie al suo carattere ironico, che ne accresce l’ambiguità, una sua efficacia performativa. Basta raccontarla, e si trasforma in preghiera.

Chi narra celebra Dio: la narrazione e la recitazione rituale – che sono i due grandi rami delle tradizioni orali – si trovano in questa storia in ammirevole equilibro. […] È per questa ragione che, proprio quando il narratore dichiara che tutto si perde, dice invece che qualcosa di essenziale resta. […] È dunque […] l’atto di celebrare, e non il contenuto della storia, a persistere nella tradizione. […]

Questa storia è perfetta anche per un’altra ragione: […] perché è una storia raccontata a voce sulla fragilità della parola detta, e così mette contemporaneamente in luce una relazione stretta tra memoria e oblio. [….] La stessa ambigua relazione che si stabilisce tra parola che narra e parola che celebra, tra storia e preghiera, si riflette nella relazione tra memoria e oblio: una preghiera dimenticata sta in una storia che il narratore non dimentica. […] Solo la storia è rimasta nella sua mente. Eppure, quella stessa storia può essere fluida, instabile, contestata, o piena di lacrime. Quel che resta […] qui e ora, sta solo nella preghiera che, in forma implicita, contiene.

Rispondi

1. Quali sono le riflessioni dell’autore circa il tema della memoria nella tradizione orale?

2. Qual è il rapporto tra storia e preghiera così come emerge dall’esempio dell’apologo hasidim?

3. Prova a spiegare, con parole tue, la contraddizione di cui si parla nel testo: come può l’atto di narrare una preghiera scomparsa trasformarsi in preghiera?

4. Che cosa intende secondo te l’autore quando scrive che la storia ha “un’efficacia performativa”? Come si collega questo punto a quello che hai imparato sulle funzioni sociali e rituali del linguaggio?

Dialoghi nelle Scienze umane - volume 2
Dialoghi nelle Scienze umane - volume 2
Antropologia, Sociologia, Psicologia – Secondo biennio del liceo delle Scienze umane