3 Oralità e scrittura

3. Oralità e scrittura

3.1 CULTURE A ORALITÀ PRIMARIA, DIFFUSA E RISTRETTA

La prima forma di scrittura si sviluppò fra i Sumeri della Mesopotamia intorno al 3500 a.C. Si utilizzava un piccolo strumento ad asta con cui incidere su tavolette d’argilla dei segni a forma piramidale e appuntita che potrebbero ricordare dei chiodini o dei cunei, da cui il nome di scrittura cuneiforme. Molti altri sistemi di scrittura sono nati successivamente e in modo indipendente l’uno dall’altro: per esempio i geroglifici egiziani nel 3000 a.C. o la scrittura cinese del 1500 a.C. Gli studiosi ipotizzano che ogni sistema di scrittura, in particolare quello cuneiforme, possa essere derivato da un qualche tipo di pittografia. I Sumeri, per esempio, registravano le operazioni economiche raffigurando sull’argilla simboli di oggetti.

Oggi la scrittura è presente in pressoché tutte le società e influenza profondamente i modi in cui pensiamo e ci esprimiamo. Le culture in cui la scrittura è ormai ampiamente diffusa e radicata sono dette a oralità ristretta.

Al contrario, si dicono a oralità primaria quelle culture, quasi tutte scomparse, che, a prescindere dalla loro complessità politica, economica e amministrativa, non conoscono alcuna forma di scrittura: ne sono esempi l’impero precolombiano degli Inca in Sudamerica o il regno del Dahomey nell’Africa occidentale precoloniale. In tali società talvolta venivano utilizzati sistemi molto diversi dalla scrittura per codificare alcune informazioni; strumento basilare per la contabilità nell’impero Inca delle Ande peruviane erano per esempio le cordicelle quipu, un insieme di piccole corde annodate di diversi colori. I nodi trasmettevano informazioni importanti ma solo a chi li sapeva interpretare.

Nel mondo contemporaneo vi sono anche culture che, pur avendo una forma di scrittura forte per leggi, regolamenti, calcoli e così via, non hanno ancora un alfabeto scritto e per comunicare prediligono la forma orale: si tratta delle culture a oralità diffusa. È bene precisare, però, che gli individui che vivono in tali comunità, in cui la scrittura è penetrata solo parzialmente, non possono essere definiti “analfabeti” nel senso corrente del termine. L’analfabetismo, nelle culture a oralità ristretta, è un importante fattore di emarginazione e povertà per gruppi e fasce sociali che, per molteplici ragioni, non sono in grado di accedere alle risorse messe a disposizione dal sistema scolare. Quando una persona cresciuta in una cultura a oralità diffusa entra nel contesto di una cultura a oralità ristretta – come per esempio molti migranti italiani all’estero nella prima metà del Novecento – si trova spesso a occupare una posizione socialmente svantaggiata rispetto a chi è in grado di accedere, grazie all’alfabetizzazione, a informazioni e risorse. Problemi analoghi si presentano oggi nel contesto dei grandi flussi migratori dal Sud del mondo.

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3.2 LE TEORIE LOCALI DELLA PAROLA

Bronisław Malinowski, durante la sua ricerca sul campo fra gli isolani delle Trobriand nel Pacifico occidentale, si accorse di un fenomeno molto importante dal punto di vista antropologico: in quella società a oralità primaria le parole pronunciate in particolari circostanze, come formule magiche, racconti, miti, discorsi morali, si caricavano di un potere causativo diretto: come se il “dire” fosse quasi un “fare”. Malinowski sostenne che quel tipo di linguaggio si avvicinava più alla sfera dell’azione che non a quella del pensiero.

Molti studiosi dimostrarono successivamente che nelle culture orali, in assenza di scrittura, le parole sono degli eventi, nel senso che “accadono” in un tempo preciso, cioè nel momento in cui vengono pronunciate, per poi svanire.

Esempio: gli agricoltori baruya della Nuova Guinea attribuiscono un potere straordinario all’utilizzo dei nomi; per contrastare la presenza di parassiti tra le piante dei loro orti, essi attuano una sorta di “rituale magico” in cui la pronuncia dei nomi segreti delle specie servirebbe a scacciarle. Ritengono infatti che i nomi propri, i nomi di oggetti o di divinità abbiano un potere di controllo effettivo sulle cose e sulle persone.

Le credenze e le azioni rituali che in una cultura definiscono le potenzialità delle parole vengono chiamate dagli antropologi teorie locali della parola.

Esempio: molto significativo il caso della popolazione dogon del Mali (Africa occidentale) studiata dall’antropologo francese Marcel Griaule (1898-1956) fra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento e successivamente da sua figlia Genéviève Calame-Griaule (1924-2013), anche lei antropologa. Per i Dogon la parola è costituita da quattro elementi:

  • l’acqua che la “inumidisce”;
  • l’aria che la rende vibrazione sonora;
  • la terra che le conferisce peso;
  • il fuoco che le dà calore come riflesso delle emozioni di chi parla.

La concezione dogon della parola è molto complessa: il tono con cui essa si manifesta è detto kikinu e rappresenta il soffio della parola stessa, il nesso diretto con la struttura psichica di ogni individuo. Il kikinu non esiste di per sé, si manifesta solo attraverso il , la voce, con cui si lega in un gran numero di combinazioni; da questo ne derivano: la voce pesante, quella “grossa”, la voce irritata, alta, debole e così via.

In molte culture a oralità diffusa l’intera cosmologia nativa si può esprimere attraverso una teoria locale della parola, in cui la parola ha un potere creativo e fecondante.

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3.3 ORALITÀ, MEMORIA E SCRITTURA

Nelle culture a oralità diffusa vi è un nesso immediato fra parola ed esperienza. Le ricerche dello psicologo russo Lev Vygotskij (1896-1934), negli anni Trenta del secolo scorso, hanno mostrato che i processi psichici non dipendono solo dall’attività mentale del soggetto e non possono essere separati dal contesto della sua vita reale. Lo sviluppo del pensiero umano non è qualcosa di puramente naturale, è invece il prodotto dell’interazione fra processi psichici e processi socioculturali.

Nello stesso periodo, seguendo l’impostazione di Vygotskij, un altro importante psicologo russo, Aleksandr Lurija (1902-1977), condusse delle ricerche in Uzbekistan per indagare in una cultura a oralità diffusa la relazione fra l’attività cognitiva dei soggetti e il loro contesto concreto d’esperienza. Lurija chiese a diversi gruppi di individui di osservare alcuni oggetti di uso quotidiano: un’ascia, un martello, una sega e un ceppo, chiedendo loro di separare gli oggetti che potevano essere qualificati con lo stesso termine, per esempio “strumento”. Essi dichiararono che i quattro oggetti appartenevano a un unico ambito pratico indivisibile, in quanto erano molto simili tra loro: la sega serviva per tagliare il ceppo e l’ascia per farlo a pezzi. Alla richiesta di quale oggetto poteva essere escluso, sceglievano l’ascia perché meno utile della sega. E quando Lurija fece notare che il ceppo non era classificabile come “strumento” precisarono: «Sì, ma anche se abbiamo gli strumenti, il legno ci vuole, perché senza legno non si costruisce nulla».

Questo dimostra come la comunicazione e la trasmissione delle conoscenze hanno per queste popolazioni un carattere concreto piuttosto che astratto.

Sulla base di questi importanti contributi della psicologia cognitiva, l’antropologo britannico Jack Goody ▶ L’AUTORE |, svolgendo numerose ricerche etnografiche in Africa, in Ghana e in Costa d’Avorio, fra le popolazioni Lodagaa, Lowiilii e Gonja, dimostrò che gli esseri umani possiedono tutti le stesse potenzialità intellettive, ma, in un contesto culturale a oralità primaria, gli individui non pensano in termini di figure geometriche, categorie o definizioni astratte, afferrabili come tali solo da un pensiero che è stato influenzato dalla scrittura. Goody sostiene che la scrittura, laddove si è diffusa, ha agito come una specie di «domesticamento del pensiero»: essa consente di riflettere in modo sistematico su parole e frasi fissate in un testo scritto, e ciò paradossalmente comporta l’aumento della possibilità di immaginare delle alternative a quanto viene affermato nel testo stesso. La possibilità di rileggere più volte un testo scritto sviluppa infatti la capacità di immaginare altri modi e parole per dire la stessa cosa o per dire cose completamente differenti. Questa flessibilità si riduce molto se la scrittura è considerata sacra: in questo caso il testo diventa indiscutibile.

Esempio: il Corano, il libro sacro dell’Islam, è considerato “parola di Dio”, non un testo semplicemente “ispirato” da Dio. Il Corano deriva da una riforma del califfo Othman alla metà del VII secolo, quando un gruppo di eruditi e uomini di religione stabilì quali parti del testo si sarebbero dovute considerare autentiche: ciononostante il Corano resta parola di Dio, interpretabile, ma non discutibile.

l’autore  Jack Goody

Jack Goody (1919-2015) è stato uno degli antropologi sociali più importanti e poliedrici del XX secolo. Nasce a Londra e si forma in letteratura inglese al St. John College di Cambridge, dove interrompe gli studi nel 1940 per combattere in Nordafrica durante la Seconda guerra mondiale. Durante la guerra, nel 1942, viene catturato dai tedeschi e trascorre due anni e mezzo di prigionia tra Libia, Italia e Germania. La lettura del Ramo d’oro di Frazer e dei lavori dell’archeologo Gordon Childe (1892-1957) lo portano a interessarsi all’antropologia. Dopo la sua liberazione nel 1946, inizia gli studi a Oxford dove viene influenzato dalla scuola funzionalista di Evans-Pritchard e Meyer Fortes (1906-1983). Nel decennio successivo, compie varie ricerche di campo in Ghana e pubblica molti articoli e libri che spaziano da parentela e matrimonio a oralità, scrittura e rappresentazione; a tecnologia e cultura materiale. Nel 1954 completa il dottorato a Oxford e diventa assistente di Fortes a Cambridge per poi succedergli nel 1973, ottenendo la cattedra di antropologia sociale. Si ritira nel 1984 e muore a Cambridge nel 2015. Tra le pubblicazioni più importanti ricordiamo: L’addomesticamento del pensiero selvaggio (1977); Oltre i muri. La mia prigionia in Italia (1997); Capitalismo e modernità. Il grande dibattito (2004).

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Conservare e tramandare un patrimonio di conoscenze
Le culture a oralità primaria e diffusa presentano dunque tecniche altamente elaborate di conservazione della memoria e di trasmissione del sapere. Come ha evidenziato lo studioso statunitense Walter J. Ong (1912-2003), nel celebre volume Oralità e scrittura (1982), queste tecniche consentono di pensare per moduli mnemonici che assicurano un rapido recupero orale, come proverbi e ripetizioni.

Esempio: l’epopea di Gilgameš, scritta in cuneiforme fra il 2600 e il 2500 a.C. è una splendida narrazione poetica delle gesta eroiche di Gilgameš, re sumerico di Uruk, in Mesopotamia, composta da forme tipiche della poesia orale, come la ripetizione, parola per parola, di passi lunghi, descrittivi o di dialogo, intese a facilitare la recitazione. Non sappiamo per quanto tempo il poema sia stato recitato, ma il fatto che quei passi si siano conservati, secondo Ong, fa pensare che per un certo periodo la tradizione orale si sia mantenuta parallela a quella scritta.

Studiando il rapporto fra oralità e scrittura, il linguista statunitense Milman Parry (1902-1935) rivoluzionò negli anni Venti del Novecento gli studi su Omero. Secondo Parry, l’Iliade e l’Odissea nacquero in una cultura orale, in una società che non conosceva ancora la scrittura. Egli analizzò le cosiddette “formule” dei poemi omerici: gruppi di due o più parole, come la formula “nome più epiteto” (“Il pelide Achille”), che si ripetono immutati o con minime variazioni per adeguarsi al racconto o alla metrica, riferiti a temi ricorrenti come l’eroe, la battaglia o lo scudo dell’eroe. Queste formule consentivano ai rapsodi, i cantori professionisti dell’antica Grecia, di imparare più facilmente i versi a memoria. Legando insieme le varie formule, erano in grado di recitare l’intero poema ogni volta con pochissime variazioni. Gli studi di Parry misero fortemente in dubbio l’esistenza stessa di Omero, in quanto questo sistema non poteva essere il risultato della composizione da parte di un singolo autore, ma era venuto formandosi col passare dei secoli e con il contributo di un numero indefinito di anonimi recitatori.

Gli studiosi hanno mostrato che anche nei testi biblici si può notare la presenza di elementi formulaici di tipo orale; la loro conservazione dimostra che la Bibbia, pur essendo formata da libri differenti per origine, composizione, lingua e datazione, deriva da una lunga tradizione orale.

Se la scrittura amplia moltissimo la capacità di conservare una massa enorme di ricordi anche inutili, nelle culture orali ciò che viene ricordato, una leggenda, un mito, un racconto, ha sempre un’utilità in riferimento all’oggi, un significato e un nesso diretto nel presente.

Esempio: le veglie tradizionali nel mondo contadino, ovvero le sere invernali trascorse dalla famiglia intorno al focolare, sino a non molto tempo fa, trasmettevano di generazione in generazione gesti e parole essenziali per la vita quotidiana.

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La scrittura nella costruzione di un’identità culturale
L’introduzione della scrittura nelle culture a oralità primaria non ha comportato soltanto una ristrutturazione del pensiero e del ricordo, ma è stata spesso determinante anche nei processi di costruzione dell’identità etnica | ▶ unità 4, p. 131 |.

Esempio: uno degli esempi più interessanti è il movimento N’Ko studiato da Jean-Loup Amselle. Questo movimento si è sviluppato in Mali (Africa occidentale) e si è diffuso tra le popolazioni mandingo islamizzate nella seconda metà del Novecento, all’interno del contesto storico-politico dei movimenti post-coloniali volti a “restituire l’Africa agli africani”. L’intento di N’Ko era quello di rivendicare una propria identità storica e culturale in contrapposizione alle identità europea e araba. Molti africani, infatti, anche se musulmani, rifiutavano categoricamente l’identificazione dell’islam con il mondo arabo e per prenderne le distanze in modo netto, Suleiman Kanté, guida del movimento, iniziò a utilizzare la scrittura in senso politico, inventando un nuovo alfabeto per gli aderenti al movimento N’Ko. Questo alfabeto era simile a quello latino, con lettere sempre uguali (la loro grafia non cambia a seconda che si trovino all’inizio, nel mezzo o alla fine della parola, come avviene invece nella scrittura araba) e con vocali scritte, che invece mancano nell’alfabeto arabo. L’unica somiglianza con l’alfabeto arabo stava nella necessità di leggere da destra verso sinistra.

È molto significativo in questo caso notare come, attraverso la scrittura, memoria e identità oscillino sempre in un alternarsi di vicinanza e di distanza fra l’identità culturale ereditata dal colonialismo europeo e quella derivante dalla precedente islamizzazione da parte degli arabi.

  INVITO ALLA LETTURA 
Laura Faranda, Le lacrime degli eroi. Pianto e identità nella Grecia antica, Jaca Book, 1992

Laura Faranda, esperta di antropologia del mondo classico, in questo libro esplora in modo avvincente l’influenza che ha esercitato la logica della scrittura sulle modalità di espressione delle emozioni più profonde legate al dolore e al pianto, in particolare nella Grecia antica. L’autrice indaga le rappresentazioni scritte del piangere, nella costruzione culturale della sfera emotiva maschile e femminile, dall’epica di Omero alla produzione tragica di Eschilo.

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3.4 LA MORTE DI UNA LINGUA

L’estinzione linguistica non è un fenomeno nuovo, pensiamo per esempio alla diffusione del latino che, secondo alcuni studiosi, provocò la scomparsa di forse cinquanta o sessanta lingue locali parlate nell’area mediterranea prima del 100 a.C.

Oggi molti antropologi fanno parte di progetti volti a conservare e rivitalizzare quelle lingue che corrono il rischio di estinguersi perché parlate da un numero sempre più esiguo di persone. Per un antropologo, infatti, la sparizione di una lingua coincide con un inevitabile impoverimento culturale.

Il processo di estinzione di una lingua avviene gradualmente in quattro fasi, in cui la lingua:

  • subisce un progressivo declino, che si può notare dal fatto che i parlanti dispongono di un vocabolario sempre più limitato e ricorrono sempre più spesso all’uso di un’altra lingua che conoscono perfettamente o molto bene;
  • viene definita a rischio, quando è parlata da meno di diecimila persone; attualmente molte comunità si trovano in questa situazione e sono coinvolte in programmi di rivitalizzazione linguistica: per esempio i parlanti kiowa nell’Oklahoma (Stati Uniti) o coloro che utilizzano i linguaggi indigeni dei segni in Australia, ma anche i parlanti irlandesi nel Regno Unito;
  • diviene prossima all’estinzione, quando soltanto pochi anziani la parlano;
  • si considera estinta, quando nessuno riesce più a parlarla correttamente.

L’antropologo australiano Michael Walsh (n. 1949) ha analizzato la complessità della situazione in cui si trovano oggi molte lingue indigene parlate in comunità che hanno subito devastanti processi di colonizzazione.

È possibile affrontare in modo unitario il problema della rivitalizzazione di una lingua solo se tutte le comunità si trovano entro i confini dello stesso Stato nazionale, come per esempio accade in Guatemala. In questo caso la maggioranza delle popolazioni parla le lingue maya, strettamente imparentate fra loro, e nelle scuole sono già attive alcune iniziative per ottenere il riconoscimento ufficiale delle loro lingue native.

Se invece i confini coloniali separano i membri di una comunità linguistica, spesso accade che da una parte del confine la rivitalizzazione della lingua indigena trovi miglior sostegno rispetto all’altra parte: per esempio i parlanti della lingua ojibwa ricevono un sostegno maggiore in Canada che negli Stati Uniti, o i parlanti quechua hanno differenti forme di sostegno in Ecuador, Bolivia e Perù.

Ma la rivitalizzazione delle lingue indigene incontra spesso difficoltà legate anche a fattori politici: alcuni governi si oppongono alla conservazione e alla rivitalizzazione delle lingue native per timore che ciò possa favorire lo sviluppo di movimenti identitari locali, e molti altri sono poco disponibili a impiegare risorse finanziarie per il sostegno di programmi linguistici a favore delle comunità indigene.

Spesso la violenza dei processi di colonizzazione è causa diretta dell’estinzione di una lingua, come è accaduto fra i Sámi della Lapponia. La poetessa russa contemporanea Oktjabrina Voronova (1934-1990) ha scritto poesie molto intense su questo tema.

I sistemi di rivitalizzazione linguistica si avvalgono dell’istituzione scolastica, oppure dell’apprendimento basato sulla relazione fra maestro e apprendista (in cui un anziano insegna la propria lingua a un solo studente alla volta), e anche di servizi di supporto all’insegnamento linguistico in rete. Ma tutti questi sistemi richiedono molta cautela, perché per esempio i metodi efficaci per i gruppi alfabetizzati, come i francofoni del Québec, possono risultare del tutto inappropriati per coloro che parlano lingue prive di una lunga tradizione di alfabetizzazione, come nel caso delle lingue indigene delle Americhe o dell’Australia.

La rivitalizzazione linguistica è spesso ostacolata anche nel contesto nativo locale perché molti genitori anziché tentare di mantenere viva la loro lingua morente scelgono di assicurare ai figli l’alfabetizzazione in una lingua che offra loro la possibilità di affermazione economica e mobilità sociale. In altre culture la lingua tradizionale è utilizzata oggi soltanto in contesti rituali per rivolgersi alle autorità religiose locali, anche se alcuni gruppi indigeni non concordano con la riduzione a un uso solo cerimoniale di quella che un tempo era una modalità comunicativa pienamente funzionale.

Va ricordato infine che, accanto al pericoloso fenomeno di morte linguistica, continuano a nascere nuove lingue derivanti dai processi di pidginizzazione e creolizzazione di cui abbiamo già parlato.

Oggi, la sempre maggiore applicazione delle tecnologie digitali per la comunicazione rischia di incrementare una sorta di nuovo analfabetismo “informatico” per fasce d’età, dato che molti anziani fanno fatica a imparare l’uso di Internet. Allo stesso tempo, secondo alcuni antropologi e sociologi, la diffusione del computer e l’uso sempre più frequente dei social media stanno provocando il ritorno nella civiltà contemporanea a forme di  oralità secondaria.

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  INVITO ALLA ASCOLTO 
Sofia Jannok, Áššogáttis (“Dalle braci”), 2009

I canti tradizionali dei pastori sámi della Lapponia, chiamati joike, si basano su una melodia “centrica” chiamata vuolle. Il centro tonale può essere la nota FA, su cui ricorrono in modo oscillante dei suoni superiori, il SOL bemolle, e inferiori, il MI oppure il DO, con numerose possibilità di variazione. Si utilizzano in tante occasioni per esprimere socialmente emozioni di allegria, di dolore o di lutto. Possono essere senza parole e hanno una fortissima carica espressiva. Questi canti conservano anche oggi un alto valore di bene culturale. Sofia Jannok, giovane cantautrice sámi svedese compone joike in forma pop reinventando in modo creativo la tradizione musicale del suo popolo.

per lo studio

1. Che differenza c’è fra una cultura a oralità primaria e una a oralità diffusa?

2. Che cos’è una “teoria locale della parola”?

3. Quali sono le fasi in cui si manifesta la scomparsa di una lingua?


  Per discutere INSIEME 

Pensa alla lingua o alle lingue, anche dialetti, che parlano i tuoi nonni e i tuoi genitori e rifletti sulla lingua/lingue che utilizzi per comunicare con loro. Quali differenze noti? Qual è la lingua/dialetto dominante e che impatto ha sulla tua “identità”? Discuti di queste differenze in classe con i tuoi compagni.

Dialoghi nelle Scienze umane - volume 2
Dialoghi nelle Scienze umane - volume 2
Antropologia, Sociologia, Psicologia – Secondo biennio del liceo delle Scienze umane