2.1 IL RELATIVISMO LINGUISTICO
Negli anni Venti del Novecento, Bronisław Malinowski | ▶ unità 1, p. 35 |, in base alle sue ricerche etnografiche fra i Trobriandesi del Pacifico occidentale, aveva affermato «l’importanza del contesto e della conoscenza dei presupposti culturali condivisi dagli individui per poter comprendere gli enunciati verbali».Più o meno nello stesso periodo anche Franz Boas | ▶ unità 1, p. 31 | aveva richiamato l’attenzione sullo stretto legame fra lingue e culture. Attraverso i suoi studi sulle lingue native del Nordamerica aveva criticato la classificazione evoluzionistica delle lingue del mondo elaborata dai linguisti nella seconda metà dell’Ottocento. Si parlava all’epoca di lingue superiori e inferiori, si distingueva fra lingue civilizzate e lingue primitive, ponendo al vertice della gerarchia evoluzionista la famiglia linguistica indoeuropea e il latino.
Boas al contrario dimostrò che, dal punto di vista logico e funzionale, tutte le lingue sono equivalenti, non è possibile disporle in scale evolutive di superiorità o inferiorità; ogni lingua deve poter essere compresa nel contesto culturale a cui appartiene. In antropologia culturale divenne quindi sempre più importante studiare il legame fra lingua, cultura e pensiero, e questo tema cominciò a essere al centro di dibattiti interdisciplinari con la linguistica e la psicologia. In particolare, i due antropologi e linguisti statunitensi, Edward Sapir (1884-1939) e Benjamin Lee Whorf (1897-1941), fra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta del Novecento dettero un fondamentale contributo al dibattito in corso introducendo il concetto di ▶ relativismo linguistico.
Notando che lingue diverse spesso descrivono la stessa situazione in modi grammaticalmente diversi, sostennero che la lingua ha il potere di plasmare la visione del mondo. La struttura e il vocabolario di una lingua derivano infatti dall’esperienza e ne sono una codificazione simbolica, ma a loro volta le strutture linguistiche orientano la percezione degli individui sulla base di quell’esperienza codificata, determinando la particolare visione del mondo che essi possiedono. Sapir in particolare sosteneva che il mondo reale è in larga misura costruito inconsapevolmente proprio a partire dalle abitudini linguistiche dei vari gruppi linguistici. Negando l’idea che le parole possano essere delle semplici etichette che si appongono sulle cose e sulle esperienze, egli affermò con forza il principio di relativismo linguistico in questi termini: «i mondi in cui società diverse vivono sono mondi diversi, non semplicemente lo stesso mondo con etichette diverse». Anche Whorf fu dello stesso avviso: le differenze fra questi mondi sono tali che nessuna traduzione consente di oltrepassarle, l’uomo può pensare solo ciò che può dire, la lingua non solo rappresenta il mondo, ma di fatto lo costruisce. Questa si chiama ipotesi forte del principio di relativismo linguistico di Sapir-Whorf, e la si può rendere con un esempio relativo al genere.
Come abbiamo visto | ▶ unità 3, p. 99 |, il genere è un importante elemento culturale nella costruzione della persona. In molte società i comportamenti di genere sono fortemente marcati e i ruoli sociali della sfera maschile e di quella femminile possono essere posti in una relazione asimmetrica di potere (in alcuni contesti culturali il genere maschile è considerato ancora oggi superiore a quello femminile). I generi hanno anche una codificazione grammaticale; per esempio in italiano le desinenze -o e -a denotano una netta suddivisione di genere: gatto (maschio) e gatta (femmina). In questo caso, l’ipotesi forte del relativismo linguistico di Sapir-Whorf si può esprimere così: «lingue che codificano il genere grammaticale costruiscono mondi in cui il genere sociale è fortemente marcato». Questa però è un’ipotesi errata; non tutte le culture, infatti, possiedono una codificazione grammaticale di genere: per esempio la lingua fulfulde dei Fulbé del Camerun ne è priva, eppure nella cultura fulbé vi è una forte demarcazione e contrapposizione fra i generi sociali. D’altra parte, se davvero la lingua costruisse in modo deterministico il mondo, non esisterebbero le comunità multilingue, né si spiegherebbe come tanti bambini possano crescere parlando lingue radicalmente diverse come, per esempio, l’italiano e il giapponese.
Si può tuttavia formulare un’altra ipotesi, detta ipotesi debole del principio di relativismo di Sapir-Whorf, che eviti di estremizzare questa prospettiva pur mantenendo valido il concetto di base secondo cui vi è una strettissima connessione fra lingua e cultura. Considerando lo stesso esempio, potremmo dire che il genere grammaticale non determina il genere sociale, ma fa apparire la separazione di genere come naturale, proprio grazie all’abitudine linguistica. In altri termini: in ogni società la suddivisione sociale fra generi, talvolta anche la disparità e i conflitti fra generi, derivano da processi storici e culturali molto lunghi e complessi. Ma nelle società in cui vi sia anche una lingua con una netta demarcazione di genere grammaticale, la lingua contribuisce a rafforzare la convinzione che la differenza sociale di genere sia un dato naturale e non invece una costruzione storica modificabile attraverso scelte educative, culturali, politiche.
Da un punto di vista antropologico questo tema è molto importante perché fa riflettere sul fatto che la lingua può favorire i processi di naturalizzazione di cui abbiamo già parlato | ▶ unità 3, p. 96 |.