1 La razza

1. La razza

1.1 Il concetto di razza

La consapevolezza di essere ciò che siamo come individui e il sentimento di appartenenza a un sé collettivo rinviano entrambi a ciò che si è soliti chiamare identità.

Come abbiamo già visto | ▶ unità 1, p. 26 |, gli antropologi hanno evidenziato che tutte le società tendono a elaborare forme di identità, cioè un senso del noi e al tempo stesso un senso di altri da noi. Costruire risposte culturali su chi siamo come persone, a livello individuale, psicologico, ma anche a livello sociale e collettivo, cioè pensare l’identità, implica sempre pensare la differenza: le caratteristiche dell’identità emergono in modo relazionale, cioè in rapporto a caratteristiche differenti dalle nostre, che definiscono la diversità, ossia gli altri, più o meno diversi da noi.

Il filosofo e saggista bulgaro naturalizzato francese Tzvetan Todorov (1939-2017) in un famoso libro, intitolato Noi e gli altri (1991), afferma che gli esseri umani si assomigliano ma al tempo stesso differiscono: questo significa che le comunità umane possono essere anche molto diverse fra loro, ma la specie (biologica) rimane una. Il problema allora è capire fino a dove si estende il territorio dell’identità e dove inizia quello della differenza. Nei secoli passati, la riflessione su questo problema si è sviluppata soprattutto intorno al concetto di “ razza”.

Con il termine “razza” si definisce un insieme di individui riconducibile a uno stesso tipo fisico, che si distingue da altri tipi simili appartenenti alla stessa specie. Se fu il medico e viaggiatore francese François Bernier (1620-1688) a utilizzare per la prima volta nel 1684 la parola “razza” nell’accezione moderna, la teoria della differenziazione biologica dell’umanità in razze risale ai lavori sistematici del medico e botanico svedese Linneo (1707-1778) e ha costituito il terreno di un costante dibattito fra antropologi e zoologi fino a tempi non troppo lontani. Linneo fondava la classificazione della specie umana in razze diverse sul riconoscimento di caratteri morfologici distintivi, in particolare il colore della pelle.

Le razze umane venivano assimilate alle specie animali: si stabiliva che fra due razze vi era la stessa distanza che si aveva per esempio fra il cavallo e l’asino; quindi non tale da impedire la fecondazione reciproca, ma sufficienti per stabilire una differenza chiaramente visibile. La classificazione più diffusa distingueva tre razze: la bianca, la gialla e la nera. Ma gradualmente, nel corso del tempo, questo schema si andò semplificando verso due soli poli fra cui disporre tutte le altre razze: il bianco e il nero.

 >> pagina 119 

1.2 Il razzismo

| La tendenza a discriminare i “diversi”, quelli che si considerano gli “altri da noi” (nazioni, culture, classi sociali inferiori), è antichissima. Nel corso dei secoli molti popoli o gruppi sociali ebbero la tendenza a chiudersi agli altri, escludendo o discriminando i diversi con un atteggiamento che si può definire  xenofobo ed etnocentrico | ▶ unità 2, p. 58 |, fondando la propria superiorità su elementi linguistici, culturali o religiosi.

Esempio: greci e romani definivano “barbari” i popoli che non parlavano la loro lingua, da “bar-bar”, espressione che indicava onomatopeicamente il loro balbettio incomprensibile.

È invece molto più recente la concezione, che si vuole “scientifica”, della suddivisione dell’umanità in razze biologicamente superiori e inferiori. Essa risale a un movimento di idee nato in Europa e collocabile nel periodo compreso fra la metà del Settecento e la metà del Novecento: il razzismo.

Con il termine “razzismo” si intende dunque la dottrina dell’esistenza biologica di differenti razze umane, a ciascuna delle quali sono attribuite determinate caratteristiche morali e intellettive, e che prevede la superiorità della razza di appartenenza su tutte le altre. Il razzismo è alla base di una prassi politica volta, con discriminazioni e persecuzioni, a garantire la purezza e il predominio della razza superiore.

Questo tipo di razzismo viene definito “classico”, o “universalista”, per distinguerlo, come vedremo, dalle nuove forme di razzismo che, purtroppo, sono ancora diffuse nella società contemporanea: un razzismo debiologizzato, che si può definire “neorazzismo” o “razzismo differenzialista”.

Il razzismo classico ha preteso di stabilire un nesso causale tra aspetto fisico e cultura e di giustificare, sulla base delle differenze somatiche, la dominazione di alcuni gruppi su altri: a una supposta superiorità sul piano fisico (il bianco superiore al giallo e al nero) doveva necessariamente seguire una superiorità sul piano culturale e morale.

Todorov ci esorta a considerare attentamente il  postulato della continuità tra fisico e morale: le razze non sono semplici raggruppamenti di individui caratterizzati da un aspetto simile. «Il razzista postula la connessione fra le caratteristiche fisiche e le caratteristiche morali: in altri termini, alla divisione del mondo in razze corrisponde una divisione altrettanto netta per culture. Possono esserci diverse culture per ciascuna razza, ma ogni volta che c’è variazione razziale c’è anche cambiamento di cultura». Non vi è quindi solo la coesistenza fra razza e cultura, ma la relazione causale fra esse: le differenze fisiche determinano le differenze culturali. Affermando con forza il principio di causalità biologica, il razzismo comporta la percezione dell’altro come diverso per essenza, o per natura. E contemporaneamente, in modo speculare, afferma per essenza, o per natura, il valore immutabile della propria identità.

Questo principio, che è il cuore del razzismo classico, implica la trasmissione ereditaria della sfera simbolica e mentale e l’impossibilità di modificarla mediante l’educazione. Il comportamento dell’individuo dipende in larga misura dal gruppo razzial-culturale (o “etnico”, come vedremo nel prossimo capitolo) al quale appartiene.

Il razzismo elabora una classificazione gerarchica fra le razze, stabilendo la superiorità della razza bianca su tutte le altre. Ciò implica che il razzista abbia a disposizione una gerarchia unica di valori, un quadro valutativo etnocentrico in rapporto al quale può formulare giudizi universali. Ma sostenere la possibilità di questo quadro unico di riferimento avendo al tempo stesso rinunciato all’unità del genere umano è una contraddizione profonda. Il giudizio di valore di tipo razzista assume spesso una forma di valutazione estetica: la mia razza è bella, le altre sono più o meno brutte. Il giudizio riguarda anche le qualità intellettuali (l’intelligenza del bianco e la stupidità del nero) e le qualità morali (la nobiltà del bianco e la bestialità del nero).

Dal razzismo classico universalista discende quindi sempre un giudizio morale che si fa ideale politico; in questo modo l’assoggettamento delle razze inferiori, ma anche la loro separazione, il loro allontanamento, la loro discriminazione o eliminazione, possono essere giustificati dalla “scienza” accumulata in materia di razze.

 >> pagina 121 

1.3 Il razzismo istituzionalizzato

Una complessa serie di fattori concorsero alla diffusione del razzismo nell’Europa dell’Ottocento, un’epoca in cui molti paesi si lanciarono nell’impresa coloniale, con l’espansione militare e lo sfruttamento sistematico delle colonie. Tra i fattori più importanti, oltre al colonialismo, possiamo indicare:

  • l’industrializzazione, che rafforzò molto la visione evoluzionistica della superiorità tecnica e intellettuale della società europea su tutte le altre;
  • lo sviluppo delle scienze naturali, che, con l’influsso dell’evoluzionismo di Charles Darwin e lo sviluppo dell’etologia, spinse anche gli studiosi di scienze umane verso un approccio di carattere biologico alla diversità culturale;
  • i grandi flussi migratori, che misero in contatto forme culturali molto differenti fra loro;
  • il mito romantico del popolo, che rafforzò i nazionalismi con l’esaltazione di una forma culturale sulle altre.

L’ideologia razzista della superiorità dei bianchi sui neri, degli europei sugli africani e sugli asiatici, dei popoli nordici sui mediterranei, pose le basi concettuali, ideologiche e politiche di persecuzioni e massacri.

Negli Stati Uniti, nonostante l’abolizione della schiavitù nel 1865, i neri continuarono a essere discriminati e perseguitati dal terrorismo del  Ku-Klux Klan fino al 1964, quando un’ondata di manifestazioni antirazziste ottenne il divieto di ogni legge discriminatoria. Ciononostante, l’emarginazione sociale dei neri, come degli ispanici, non è ancora scomparsa.

L’espressione più tragica del razzismo si ebbe nella Germania nazista dal 1933 al 1945. Adolf Hitler (1889-1945) cercò di realizzare la supremazia

della razza ariana riducendo in schiavitù gli slavi ed eliminando gli ebrei, considerati “subumani”. La “soluzione finale” della questione ebraica, decisa durante la Seconda guerra mondiale, portò alla Shoah, lo sterminio nei lager di 6 milioni di ebrei.

Si parla dunque di “razzismo istituzionalizzato” quando le discriminazioni, le categorizzazioni e gli stereotipi vengono inclusi nel corpo legale e amministrativo del sistema politico-sociale. Un altro esempio, oltre alla dittatura di Hitler, è il caso dell’apartheid in Sudafrica.

Con il termine apartheid, che significa “separazione”, “isolamento”, si definisce il sistema di segregazione razziale ufficialmente praticato fino al luglio del 1991 nella Repubblica Sudafricana, dove circa 4 milioni di bianchi esercitavano una totale dominazione su più di 10 milioni di neri, sugli asiatici e sui gruppi misti. La maggioranza nera fu costretta a vivere segregata nei bantustan, le zone appositamente delimitate per i bantu, un vastissimo gruppo etnolinguistico che comprende oltre quattrocento etnie dell’Africa. In vigore formale dal 1943, la politica dell’apartheid risale alla rigida segregazione praticata dai  calvinisti olandesi dal Settecento nel loro vasto impero coloniale e considerata un imperativo divino.

Nella lotta antirazzista non si può non menzionare la figura centrale di Nelson Rolihlahla Mandela (1918-2013), premio Nobel per la pace nel 1993. L’attivista nero Nelson Mandela partecipò nel 1944 alla fondazione della lega giovanile dell’African National Congress, di cui divenne presidente nel 1950. Fu tra i promotori degli scioperi contro le leggi sulla segregazione e subì numerosi arresti. Si convinse in seguito della necessità di passare alla lotta armata, e fondò nel 1961 una organizzazione clandestina, la Umkhonto we sizwe, la “Lancia della nazione”. Fu condannato all’ergastolo nel 1964 e divenne il simbolo della lotta contro il segregazionismo in tutto il mondo. Liberato nel 1990, svolse un ruolo nel processo di democratizzazione del Sudafrica, di cui divenne primo presidente della Repubblica (1994-1999).

Nell’antisemitismo nazista e nell’apartheid sudafricano, due fra le maggiori forme di razzismo classico istituzionalizzato, possiamo individuare chiaramente e riassumere tutti gli elementi principali della dottrina razzista:

  • la xenofobia;
  • l’orgoglio aristocratico per la presunta “purezza di sangue”;
  • la creazione di un sistema gerarchico di caste superiori e caste inferiori | ▶ APPROFONDIAMO, p. 124 |;
  • l’etnocentrismo;
  • lo schiavismo;
  • il rifiuto dei diritti umani e la negazione della dignità umana;
  • il disprezzo per i seguaci di altre religioni.

 >> pagina 123 

  INVITO ALLA LETTURA 
Malcolm X e Alex Haley, AUTOBIOGRAFIA DI MALCOM X, Einaudi, 1965

In questa biografia, il giornalista Alex Haley pubblica il risultato dei suoi incontri e delle sue interviste con Malcolm X, una figura importante nel movimento per i diritti civili negli Stati Uniti negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Veniamo qui a conoscenza della sua infanzia difficile, del padre ucciso dal Ku-Klux Klan, dei suoi anni in prigione dove si imbatte nella Nation of Islam (Noi), un’organizzazione politica che lottava per la libertà della popolazione nera e di cui Malcolm X diventa il leader più carismatico e militante, combattendo per i diritti dei neri d’America e sostenendone l’emancipazione con ogni mezzo necessario.

1.4 Le razze umane non esistono

Numerose ricerche scientifiche hanno dimostrato in modo ormai inoppugnabile che non si può parlare di razze umane come nel caso degli altri animali, come per esempio per i cani o i cavalli, perché non esiste alcun criterio per individuarle che possa ritenersi scientificamente fondato. Certamente, le differenze nell’aspetto fisico tra individui appartenenti a popolazioni diverse sono evidenti e innegabili: il colore della pelle, dei capelli, la statura e la conformazione del corpo rivelano numerosi tratti distintivi. Queste caratteristiche esteriori però non sono utili per classificare i gruppi umani, in quanto riflettono solo molto debolmente il patrimonio genetico di cui sono espressione, e sono spesso influenzate da fattori ambientali. Se potessimo osservare con un solo colpo d’occhio tutti i tipi umani nel globo ci accorgeremmo che tali caratteristiche cambiano gradualmente e spesso si sovrappongono: come mostrano molte ricerche archeologiche e antropologiche, da tempi immemorabili le popolazioni si sono sempre ampiamente mescolate.

Non si possono utilizzare le ossa e il cranio di un individuo per stabilire se aveva la pelle bianca o nera, gli occhi rotondi o a mandorla, oppure i capelli biondi, lisci o ricci. L’unica analisi scientificamente valida sulle differenze fra i gruppi umani è quella del DNA. Il genetista italiano Luigi Luca Cavalli Sforza (1922-2018), autore di numerosi studi e ricerche presso l’università di Stanford negli Stati Uniti, ha dimostrato che le differenze somatiche tra gli esseri umani, anche quelle più evidenti, sono in realtà superficiali e molto recenti nella storia evolutiva della specie. Gli uomini possiedono un corredo genetico del tutto simile. Con l’analisi del DNA è stato anche dimostrato che sul piano genetico due individui appartenenti alla stessa popolazione (quella che per alcuni sarebbe la “razza”) possono presentare differenze genetiche statisticamente sei o sette volte superiori a quelle rilevate fra due individui presi a caso fra tutte le popolazioni del pianeta.

Sebbene nulla sul piano biologico autorizzi oggi a suddividere la specie umana in razze differenti, l’uso del termine “razza” è rimasto nel linguaggio comune e ha mantenuto precise connotazioni ideologiche. Il colore della pelle, la forma degli occhi, l’abbigliamento e la lingua sono caratteri distintivi esteriori che continuano a essere utilizzati per pensare l’identità e la differenza fra persone, gruppi e società. Essi continuano a funzionare come potenti marcatori dell’alterità, in base ai quali un gruppo umano si definisce in relazione e in opposizione agli altri gruppi. Quando questo atteggiamento si salda con un certo grado di intolleranza e di conflittualità nei confronti di appartenenti a gruppi percepiti come “diversi”, dà origine a nuove forme di razzismo. La razza da postulato biologico è diventata oggi innanzitutto una costruzione culturale. Il razzismo classico si è debiologizzato ed è ormai quasi del tutto scomparso. Sta affiorando al suo posto un altrettanto pericoloso neorazzismo culturale.

approfondiamo  LE CASTE

Il termine “casta” si riferisce a un’istituzione sociale presente in India e altrove nell’Asia meridionale in cui i gruppi di discendenza endogama, per cui il coniuge va scelto all’interno del proprio gruppo, noti come caste o sotto-caste, sono classificati gerarchicamente. In quanto forma sociale, la casta è vincolata dalle nozioni di varna e jati, dove varna è uno schema ideologico-religioso che divide la società in quattro gruppi principali (jati). Le caratteristiche distintive della casta sono il fatto che l’appartenenza è un carattere ascritto, cioè attribuito per nascita, e la sua endogamia, ovvero i membri appartenenti a una casta hanno una comunanza religiosa, di nascita, e/o di occupazione e sono spesso classificati a seconda del principio puro/impuro. La casta più elevata per esempio è quella dei sacerdoti (Brahmani), a cui fa seguito quella dei nobili o guerrieri, poi contadini e infine artigiani e servi. Vi sono anche ulteriori sotto-caste, per esempio quella dei Dalit, che vengono considerate inferiori e impure a causa delle abitudini alimentari o dei mestieri tradizionali.

Nel corso del Novecento, molti studiosi in ambito accademico usarono casta e razza, razza e nazione e persino religione e razza in modo intercambiabile. In termini di differenze razziali era interpretata anche la divisione fra i due gruppi indù: gli indù ariani di casta superiore dalla pelle chiara e gli indù di casta inferiore dalla pelle scura, detti dravidici. I Dravidi erano un gruppo di genti di origine etnica diversa, costituenti il substrato protostorico dell’India, frutto probabilmente di migrazioni e invasioni da nord-ovest avvenute alcuni millenni prima delle invasioni ariane.

Sebbene la tendenza a equiparare casta e razza sia svanita, è più difficile sradicare la discriminazione di casta rispetto al razzismo, dove gruppi di persone vengono etichettati come esseri “impuri”. Come gerarchia occupazionale, tuttavia, la casta ha importanti dimensioni socioeconomiche: è infatti una forma sociale che dipende da un insieme variabile di relazioni istituzionali, per cui non può essere definita esclusivamente in termini di endogamia, eredità e rango. Le caste si sviluppano in fazioni politiche in competizione tra loro per obiettivi economici o politici comuni. La casta quindi definisce anche i meccanismi attraverso i quali rivendicare il potere, creare nuove alleanze, articolare il malcontento, chiedere giustizia, criticare le ideologie dominanti e proiettare le visioni del mondo strutturate e multidimensionali e le esperienze degli emarginati, costringendo talvolta a un ripensamento della gerarchia e creando spazi per l’articolazione di differenze.

 >> pagina 126 

1.5 Le nuove forme di razzismo

Il neorazzismo non si basa più su fattori di tipo biologico, ma si alimenta di un relativismo culturale estremo | ▶ unità 2, p. 60 |. Anziché presentare una visione dell’umanità a comparti gerarchizzati (le razze), il neorazzismo concepisce le culture umane come degli universi chiusi, assolutamente distinti e non comunicanti. Il neorazzismo enfatizza in modo generalizzato le differenze reali o immaginarie di tipo sociale, religioso, economico, o di identità nazionale.

Nelle nuove forme di razzismo, il termine “razza”, ancora assai diffuso, non si riferisce più a una realtà empirica, nel senso di marcare una diversità sul piano biologico, ma è utilizzato per assolutizzare le differenze di carattere culturale. Da un tipo di razzismo classico, che abbiamo definito “razzismo universalista”, si passa dunque a una nuova forma di razzismo: il razzismo differenzialista | ▶ APPROFONDIAMO |.

Possiamo puntualizzare le caratteristiche del nuovo tipo di razzismo confrontandole con quelle del razzismo classico ottocentesco.


Il razzismo classico universalista

Il razzismo differenzialista

si basa sul concetto supposto scientifico dell’esistenza biologica delle razze umane

ha abbandonato il concetto di razza come elemento biologico distintivo

classifica le società e le culture su una scala etnocentrica di valori comuni, quelli della civiltà occidentale, che reputa di validità universale

è animato dalla forte preoccupazione di preservare le differenze culturali

gerarchizza le differenze secondo una logica evoluzionista

naturalizza le differenze, ne fa delle essenze e le pone come assolute e insuperabili

concepisce le differenze come stadi inferiori o attardamenti rispetto al presente della civiltà occidentale, postulata come superiore

afferma l’incompatibilità e l’incomunicabilità fra culture diverse

arriva a negare l’umanità del gruppo rifiutato

ha una visione assolutizzante dell’identità culturale che va preservata fino ad arrivare all’attuazione di sanguinose violenze


L’ideologia che deriva da questo secondo tipo di razzismo va dal rifiuto del meticciato biologico o culturale all’apartheid, fino all’esito estremo del genocidio. Ha provocato orrore la ripresa negli anni Novanta del Novecento di pratiche di pulizia etnica, che si speravano scomparse con la fine del nazismo: programmi di eliminazione delle minoranze realizzati mediante il loro allontanamento coatto o con atti di aggressione militare per salvaguardare l’identità e la purezza del gruppo dominante, come per esempio le violenze perpetrate nella ex Iugoslavia che hanno coinvolto serbi, croati e albanesi nel Kosovo.

Le nuove forme dottrinarie di razzismo che stanno affiorando in Europa si articolano intorno all’imperativo del “diritto alla differenza” che paradossalmente un tempo era sostenuto dall’antirazzismo. Il razzismo differenzialista frammenta l’universo umano in tanti mondi isolati per giustificare il rifiuto e l’esclusione: non è più interessato ad affermare una gerarchia evoluzionista fra le culture, poiché tale gerarchia è già implicita nell’esclusione che esso opera in virtù del principio della differenza.

L’appello al diritto alla differenza nasconde spesso un forte argomento razzista: il rifiuto del meticciato, la paura dell’indistinzione, del contatto e delle relazioni fra i gruppi, che dunque è bene rimangano isolati ognuno entro i propri confini. Per questa ragione il riemergere contemporaneo di forme di antisemitismo e di razzismo ha come bersaglio gli immigrati detti “extracomunitari”, considerati una minaccia sociale, culturale o addirittura genetica alle società di accoglienza e all’identità europea. Per il razzista contemporaneo l’arrivo di nuove identità, come per esempio quella musulmana, è un pericolo perché comporta la corruzione delle identità culturali, religiose e nazionali dell’Europa, che egli concepisce, in modo antistorico, come essenzialmente omogenee, stabili e definitive.

Per il razzismo differenzialista i conflitti fra culture diverse si possono scongiurare solo allontanando gli stranieri e frenando in ogni modo l’immigrazione, che provoca disgregazione e insicurezza sociale. Questa ideologia strumentalizza i tentativi di applicare equilibrate politiche di controllo dell’immigrazione. Per il razzista contemporaneo l’immigrazione minaccia tanto le culture europee, quanto quelle degli stessi immigrati. Vi è quindi l’uso profondamente distorto della stessa prospettiva antropologica: l’immigrazione è un pericolo per l’identità della cultura di accoglienza così come per quella da accogliere. I discorsi del razzismo differenzialista contengono una perorazione quasi antropologica della difesa delle identità culturali.

In questa ideologia gli “altri”, i “diversi”, sono per definizione non integrabili. L’incompatibilità può essere definitiva, se non più in termini biologici, in termini altrettanto forti di carattere religioso, culturale, e di identità nazionale, per il carattere collettivo e la diversità delle origini.

È importante sottolineare il manifestarsi di un fenomeno complesso che deve destare molta attenzione fra gli studiosi e i politici: l’emergere di sentimenti e comportamenti razzisti che coinvolgono oggi anche strati sociali non privilegiati, che vivono in situazioni critiche, di disagio economico, di povertà, di marginalizzazione. Come molto puntualmente ha osservato l’antropologa italiana Annamaria Rivera (n. 1945), il razzismo permette a un gruppo o a una persona che si sente socialmente minacciato nei propri diritti, immaginari o reali, di spostare la frustrazione, la minaccia, la discriminazione subite su quelli che sono loro socialmente più vicini.

Nel pensiero razzista differenzialista l’umanità e gli individui non hanno valore in quanto tali: ciò che conta sono le identità culturali rigidamente definite dai loro confini territoriali, linguistici, geografici. Come abbiamo detto, la presunta non integrabilità degli stranieri viene attribuita a differenze di cultura, di costumi, di mentalità, concepite come radicali e assolute e generalmente ricondotte a un fondamento di tipo originario: l’etnia.

  esperienze attive

Un episodio di razzismo Dividetevi in gruppi di tre o quattro persone. Ogni gruppo cerchi un articolo o una storia che rifletta un episodio di razzismo. Poi, attraverso la forma di un disegno, un’intervista, una canzone, un racconto o un breve video, racconti la storia provando a mettersi nei panni della persona discriminata.

approfondiamo  “I LAPPONI RIMANGANO LAPPONI!”

Un triste esempio di razzismo differenzialista in cui l’appello al diritto alla differenza nasconde il rifiuto del contatto e delle relazioni sociali ci viene dalla storia della popolazione sámi.

Durante i primi decenni del Novecento, in Svezia vennero istituite le nomadskolor, le “scuole per nomadi”, che dovevano accogliere i bambini sámi delle famiglie di pastori nomadi di renne, che all’epoca erano ancora chiamati “Lapponi” in senso dispregiativo - probabilmente dallo svedese lapp, “straccio”, per la precarietà dei loro vestiti - e non invece con l’etnonimo proprio del gruppo. Vitalis Karnell, il pastore luterano del villaggio di Karesuando, nella Lapponia svedese, tratteggiava così il programma di queste nuove scuole: «Favorire i Lapponi in ogni modo, insegnare loro abitudini morali e la moderatezza nei comportamenti, renderli un minimo colti ma non lasciare che si abbeverino di più al calice della civiltà, lasciare che lo gustino a piccole dosi affinché non restino mai confusi. I Lapponi devono essere Lapponi».

In altri termini: i Lapponi, etnicamente differenti, vanno sì integrati, ma soltanto quel minimo indispensabile per rendere loro possibile la vita nella società svedese, prestando attenzione però a non creare loro confusioni e difficoltà. Secondo Karnell e l’ideologia dominante dell’epoca, la cultura scandinava, evidentemente troppo complessa, avrebbe potuto confondere le loro menti “primitive”: è giusto che Lapp skall vara Lapp, che i “Lapponi rimangano Lapponi”. In questa forma di razzismo, da un lato, si auspica che i Lapponi vengano difesi dal processo di deculturazione che ha coinvolto molte altre popolazioni indigene al contatto con la società occidentale; dall’altro, si preferisce che essi rimangano come sono e cioè primitivi e inferiori, tanto, anche volendo, non riuscirebbero a tenere il passo con lo stile di vita svedese. Durante gli anni Sessanta del Novecento, tutte le nomadskolor cessarono progressivamente la loro attività, sebbene, nell’ultimo periodo, l’impostazione culturale di fondo fosse lievemente cambiata.

  INVITO ALLA VISIONE 
David Fedele, THE LAND BETWEEN, 2014

Questo film offre una visione intima delle vite nascoste dei migranti dell’Africa sub-sahariana che vivono nelle montagne a nord del Marocco. Per la maggior parte, il loro sogno è entrare in Europa scavalcando una barriera altamente militarizzata a Melilla, un’enclave spagnola nel continente africano. Il regista documenta la vita quotidiana di questi migranti intrappolati nel limbo dell’incertezza, così come l’estrema violenza e il costante maltrattamento che subiscono da entrambe le autorità marocchine e spagnole.

cittadini responsabili

La tutela dell’uguaglianza e l’uso del concetto di “razza” nella Costituzione italiana

Come abbiamo visto, per quanto il concetto di “razza” sia stato delegittimato da tempo sul piano scientifico, esso è ancora presente nel linguaggio comune, dove indica un confuso insieme di tratti fenotipici e culturali che possono essere chiamati in causa per diverse ragioni, ma che spesso vengono utilizzati per giustificare comportamenti violenti e/o discriminatori nei confronti di alcuni individui. Proprio perché ancora operante nel pensiero e nello sguardo di molte persone come base ideologica della discriminazione, il concetto di “razza” viene usato anche come fattore individuante di tali comportamenti discriminatori, nell’interesse di tutelare i soggetti discriminati.

Lo Stato italiano, per esempio, nell’articolo 3 della Costituzione, afferma:


Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.


Questo articolo è molto importante perché, enunciando il principio di uguaglianza di fronte alla legge a dispetto di qualsiasi differenza, tutela i cittadini da possibili atti direttamente o indirettamente discriminatori da parte dello Stato stesso o di sue espressioni, come nei casi di prassi amministrative illegittime (si pensi, per esempio, ai tristemente noti abusi della polizia statunitense nei confronti di cittadini afroamericani durante le procedure di controllo).

A partire dal secondo dopoguerra, l’esigenza di tutelare l’uguaglianza e proteggere le persone dalle discriminazioni è entrata a far parte del diritto internazionale in varie forme, a cominciare da una clausola della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu) del 1950, che assicura il godimento di tali diritti senza distinzione alcuna per ragioni di sesso, razza, lingua, opinioni politiche, origine nazionale o sociale e così via.

In Italia nel 1993 è stata varata la Legge Mancino (n. 205) al fine di punire i singoli atti discriminatori; tuttavia mancava ancora una definizione precisa di che cosa costituisse discriminazione. L’articolo 43 del Testo Unico sull’immigrazione (d.lgs. 286/1998) ce ne offre una definizione molto ampia, che estende la tutela antidiscriminatoria a tutti gli ambiti della vita sociale e a tutti gli esseri umani (non solo i “cittadini” italiani, ai quali si rivolge invece l’articolo 3 Cost.); esso sancisce che:


Costituisce discriminazione ogni comportamento che direttamente o indirettamente comporti una discriminazione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica.
  Lavoriamo INSIEME

Cosa significa per te la parola “discriminazione”? Riesci a individuare delle situazioni in cui tu o qualcuno che conosci siete stati vittime di discriminazione? Come vi siete sentiti? Sapevi che attuare o incoraggiare la discriminazione fosse un reato? Racconta nello spazio di qualche riga due o tre esempi di discriminazione a cui ti è capitato di assistere direttamente o indirettamente (inclusi episodi di film o di un libro/articolo); può trattarsi anche di piccoli gesti, che possono avvenire persino tra i banchi di scuola. Poi condividili con i tuoi compagni e discutetene in classe.

 >> pagina 130 
per lo studio

1. Qual è la contraddizione implicita nel pensiero razzista universalista?

2. Perché si può affermare scientificamente che le razze umane non esistono?

3. Che cos’è il razzismo differenzialista?


  Per discutere INSIEME 

Scrivi su un quaderno un elenco di parole, proverbi, barzellette che conosci, senti o leggi tutti i giorni, che corrispondono al razzismo differenzialista. Ora confrontalo con l’elenco dei tuoi compagni. Quali sono le parole più ricorrenti? Qual è il contesto e verso quali gruppi o persone sono indirizzate? Perché secondo te sono diventate parte della realtà quotidiana? Discutetene in classe.

Dialoghi nelle Scienze umane - volume 2
Dialoghi nelle Scienze umane - volume 2
Antropologia, Sociologia, Psicologia – Secondo biennio del liceo delle Scienze umane