T1 - Franz Boas, Linguaggio e pensiero

PAROLA D’AUTORE

|⇒ T1  Franz Boas

Language and Thought

L’Handbook of American Indian Languages del 1911 fu uno dei testi fondativi dell’antropologia linguistica. Qui Boas attinge alla sua ricerca etnografica tra gli Indiani del Nordamerica per contrastare una concezione diffusa, che considerava le popolazioni “primitive” incapaci di pensiero astratto. Egli attribuisce il fatto che alcune lingue siano prive di termini specifici per esprimere concetti astratti a ragioni storiche e culturali, non a differenze cognitive.

First of all, it may be well to discuss the relation between language and thought. It has been claimed that the conciseness and clearness of thought of a people depend to a great extent upon their language. The ease with which in our modern European languages we express wide abstract ideas by a single term, and the facility with which wide generalizations are cast into the frame of a simple sentence, have been claimed to be one of the fundamental conditions of the clearness of our concepts, the logical force of our thought […].

It seems very questionable in how far the restriction of the use of certain grammatical forms can really be conceived as a hindrance in the formulation of generalized ideas. It seems much more likely that the lack of these forms is due to the lack of their need. Primitive man, when conversing with his fellow-man, is not in the habit of discussing abstract ideas. His interests center around the occupations of his daily life […]. Discourses on qualities without connection with the object to which the qualities belong, or of activities or states disconnected from the idea of the actor or the subject being in a certain state, will hardly occur in primitive speech. Thus the Indian will not speak of goodness as such, although he may very well speak of the goodness of a person. […] He will not refer to the power of seeing without designating an individual who has such power. […]

I have made this experiment, for instance, with the Kwakiutl language of Vancouver Island, in which no abstract term ever occurs without its possessive elements. After some discussion, I found it perfectly easy to develop the idea of the abstract term in the mind of the Indian […]. I succeeded, for instance, in this manner, in isolating the terms for love and pity, which ordinarily occur only in the possessive form, like his love for him or my pity for you. […]

There is also evidence that other specializing elements, which are so characteristic of many Indian languages, may be dispensed with when, for one reason or another, it seems desirable to generalize a term […]. The fact that generalized forms of expression are not used does not prove inability to form them, but it merely proves that the mode of life of the people is such that they are not required; that they would, however, develop as soon as needed. […]

If we want to form a correct judgment of the influence that language exerts over thought, we ought to bear in mind that our European languages as found at the present time have been moulded to a great extent by the abstract thought of philosophers. Terms like essence and existence, many of which are now commonly used, are by origin artificial devices for expressing the results of abstract thought. In this way they would resemble the artificial […] abstract terms that may be formed in primitive languages.

Thus it would seem that the obstacles to generalized thought inherent in the form of a language are of minor importance only, and that presumably the language alone would not prevent a people from advancing to more generalized forms of thinking if the general state of their culture should require expressions of such thought: that under these conditions the language would be moulded rather by the cultural state. It does not seem likely, however, that there is any direct relation between the culture of a tribe and the language they speak, except in so far as the form of the language will be moulded by the state of culture, but not insofar as a certain state of culture is conditioned by morphological traits of the language.

Rispondi

1. Qual è la tesi relativa al rapporto tra linguaggio e pensiero che Boas intende confutare? E come si collega alla presunta superiorità della cultura e civiltà europee?

2. Che cosa intende secondo te l’autore con la frase: «The fact that generalized forms of expression are not used does not prove inability […] develop as soon as needed»? Prova a spiegarlo con parole tue.

3. Qual è secondo Boas una delle ragioni storiche per cui molte lingue europee hanno sviluppato termini specifici per indicare concetti astratti, come per esempio “essenza”?

4. Che cosa afferma Boas relativamente al rapporto tra lingua e cultura? È la cultura a influenzare lo sviluppo del linguaggio o, al contrario, il linguaggio a restringere e riflettere le possibilità di sviluppo del pensiero cosiddetto “primitivo”?

 >> pagina 250 

|⇒ T2  Ana L. Valdés

Il nuovo mondo

Il brano è tratto da un racconto autobiografico di Ana L. Valdés (n. 1953), scrittrice e antropologa uruguayana esiliata in Svezia all’età di ventiquattro anni. Dopo aver descritto, con grande forza espressiva, il senso di perdita e di spaesamento che accompagnano l’esperienza dell’esilio, l’autrice narra di come l’incontro con una lingua e una cultura nuove le abbia consentito anche di costruirsi una nuova visione del mondo.

Improvvisamente scoprì il linguaggio. Prima non ne era consapevole, come un pesce che nuota ma non sa nulla dell’acqua, tanto era stata sorda al linguaggio. Ma ora il linguaggio era sia fuori che dentro di lei, come un insieme variegato di forme rituali e di formule ereditarie, una liturgia di cerimonie ed azioni, formatesi e delineatesi quando il mondo era giovane, quando l’oscurità imperava.

“In principio era il verbo. E il verbo creò il mondo.” Fu la luce, e l’universo affogò in un’esplosione di bianco e giallo, rosso e verde. Fu la terra, e il terriccio odorò di sterco di vacca e di semi decomposti. Furono il mare e i fiumi, e tutti i ruscelli e i laghi più insignificanti si misero a scorrere come argento fluido. Fu la vita, e tutto si riempì di corteggiamenti, gemiti e muggiti. Animali unicellulari, giganti a quattro zampe, pesci e piante, uccelli e cespugli di ginepro, scoiattoli e citronella.

Nella nuova lingua modellò il nuovo mondo, e non una delle parole che aveva conosciuto nella vecchia terra vi trovò impiego. Era come se le vecchie formule dei folletti avessero perso la loro magia, non significavano più niente. Diceva “caballo” e nessun cavallo si materializzava davanti a lei. Diceva “te quiero” e il suo amato non si voltava nell’ampio letto che aveva comprato usato. Solo le cicatrici del carattere spigoloso della nonna continuavano a vivere in lei, indipendenti dal nuovo ordine, solide come i portali di Troia prima che vi fosse introdotto il funesto cavallo.

Il suo linguaggio era diventato un busto di Giano, di cui una faccia guardava al passato mentre l’altra si rivolgeva al futuro, a ciò che ancora non era.

Ma questa nuova lingua non divenne il linguaggio del suo cuore finché non incontrò il prescelto. L’aveva contagiata con una bramosia per il linguaggio che non aveva mai provato prima. […] Voleva affogare nella sua nuova lingua con la stessa ebbrezza gioiosa con cui si lasciava affogare nella pelle dell’amato, nel suo odore. […]

Il linguaggio accese in lei una fiamma che sprizzava scintille di luce e calore dovunque si trovasse. Era diventata come un fuoco nella notte di Valpurga, un omaggio alla vita e ai segreti, alle formule magiche che la nuova lingua le aveva regalato, al nuovo mondo che si lasciava battezzare dalla sua parola incerta.

Il nuovo mondo non teneva in alcuna considerazione le norme grammaticali o l’ortografia. La ragazza era un’apprendista stregone, un giorno sarebbe stata iniziata a tutti i segreti della lingua, alle sue sfumature più nascoste […].

Uno dei posti che preferiva nella nuova città era la biblioteca. Lì poteva leggere libri e giornali scritti in tutte le lingue del mondo. Portava a casa libri, molti li aveva già letti, ma voleva vedere com’erano nella nuova lingua. Suonava diverso Camus in svedese, era meno toccante Virginia Woolf nella nuova lingua? […]

Era in esilio da un tempo e non da un luogo. Nomade contro la sua volontà, cercava come Swann1 un tempo perduto […]. Ma doveva accettare le conseguenze. Sebbene il nuovo tempo non offrisse alcuna verità, sebbene il nuovo tempo fosse un posto solitario in cui trovarsi, sebbene la melodia del nuovo tempo suonasse estranea alle sue orecchie, non sarebbe fuggita.

Rispondi

1. «Nella nuova lingua modellò il nuovo mondo», scrive Valdés. Cosa si intende secondo te con questa frase? Rispondi aiutandoti con esempi tratti dal testo o dal resto dell’unità.

2. Come viene descritto il rapporto tra lingua e mondo, lingua e cultura?

3. Hai mai provato (o visto da vicino) sensazioni simili a quelle descritte nel testo, per esempio durante viaggi, soggiorni all’estero, o esperienze di migrazione? Rifletti su che cosa ha significato per te dover comunicare in una nuova lingua.

4. Come viene descritta nel testo la relazione tra il linguaggio e altre esperienze non verbali legate ai sensi (odori, colori ecc.) e alle emozioni? C’è qualcosa che ti colpisce?

 >> pagina 252 

|⇒ T3  Geneviève Calame-Griaule

La teoria della parola dogon

Geneviève Calame-Griaule, figlia del celebre antropologo francese Marcel Griaule, è considerata una delle fondatrici dell’etnolinguistica francese. Nel suo libro del 1965, intitolato Ethnologie et Language, mostra come, tra i Dogon del Mali (Africa occidentale), lingua e cosmologia siano profondamente interconnesse. Il brano che segue è soltanto un assaggio dell’articolata “teoria della parola” dogon.

L’uomo manifesta la sua umanità attraverso la parola; è questo che lo distingue dall’animale e dall’oggetto inanimato. Ma se la parola è inerente all’uomo (non si può infatti concepirla senza un supporto umano che la produca) essa ha però una vita propria, una personalità che è una specie di doppio di quella dell’essere. La parola, così come la concepiscono i Dogon, si scompone in elementi multipli, paralleli a quelli della persona; non è possibile quindi analizzarne la natura senza avere previamente descritto le componenti della personalità entro la quale essa si colloca.

[…] I princìpi spirituali o essenze spirituali che, in mancanza di un termine migliore, abbiamo sinora chiamato “anime” sono otto. Il termine dogon kikínu viene messo in rapporto con kínu ‘naso,’ ‘soffio,’ ‘vita,’ perché i princìpi spirituali si spostano sotto forma di vento e penetrano nell’individuo attraverso la respirazione. Divisi in due gruppi di quattro, destinati rispettivamente al corpo e al sesso, sono maschi o femmine, “intelligenti” o “bestiali” […].

[…] La parola è la proiezione sonora nello spazio della personalità dell’uomo, originata dalla sua essenza perché è per mezzo della parola che si rivelano il carattere, l’intelligenza, e la passionalità. Espressione della vita psichica individuale, la parola genera anche la vita sociale, il canale attraverso cui due Io diversi entrano in comunicazione. Per questo i Dogon considerano la parola un’emanazione dell’essere a lui somigliante in tutte le sue parti.

Il corpo della parola è il suono, la materia sonora, formata, come il corpo umano, dai quattro elementi.

L’acqua è necessaria alla vita della parola quanto a quella del corpo umano animale o vegetale. Se manca la saliva, per il calore o per la sete, si parla con difficoltà. La parola è allora “secca” e solo bevendo le si restituisce la fluidità. Di una parola che scorre facilmente, che si esprime con chiarezza si dice “parola umida”. Inoltre, l’acqua è il supporto della vibrazione sonora […].

[…] Per poter produrre la parola l’acqua deve combinarsi con gli altri elementi.

L’aria che l’uomo respira è altrettanto necessaria: essa origina la vibrazione sonora che conduce il vapore acquo carico di suono […].

La terra è l’elemento che dà alla parola il suo peso, il suo significato: è cioè il senso delle parole, l’intelaiatura del discorso che corrisponde allo scheletro del corpo umano. La terra differenzia la parola dal rumore, sarebbe infatti incomprensibile una parola senza un minimo di significato. […]

Il fuoco è il calore della parola che dipende dalle condizioni psicologiche del parlante: quando egli è in collera o agitato la sua parola è bruciante mentre alla calma corrisponde una parola fredda.

I quattro elementi sono dunque, in diverso grado, indispensabili alla formazione della parola: ma sono dosati in modo variabile a seconda della sua natura, cioè secondo l’uso adottato dal parlante. […]

Come l’essere umano, anche la parola ha un sesso, che è in rapporto all’altezza del suono […].

A queste distinzioni si collegano alcune nozioni etiche. La parola maschile si identifica con la parola cattiva; l’uomo parla con voce rude e forte, con rapidità e impazienza. La sua parola corrisponde alla stagione secca […]. Al contrario, la parola della donna è dolce e lenta, il suo tono poco elevato perché la donna è paziente. A questa corrisponde la stagione delle piogge […].

Il seme della parola, come quello dell’essere umano, è simbolo della sua fertilità. Si definisce “parola senza seme” una parola vuota, senza interesse, che non desta alcuna eco in chi la ascolta e non avrà alcuna ripercussione fecondante nei rapporti umani.

Dalla forza vitale della parola dipende quella del parlante, essa le conferisce energia e autorità per convincere. […]

Infine la parola, a immagine dell’uomo, possiede otto principi spirituali classificati con lo stesso criterio. Riferito alla parola, il concetto di principio spirituale indica il tono […]; comprende sia i toni linguistici che l’intonazione emotiva, insomma tutte le modalità e le variazioni che possono modificare l’emissione della parola. Questi diversi toni sono compresi nel termine (che abbiamo già visto nel significato di ‘voce’) e che qui si applica al timbro, all’altezza e al tono.

Rispondi

1. Nel primo paragrafo si dice che, secondo i Dogon, la parola «si scompone in elementi multipli, paralleli a quelli della persona». Come emerge questa idea nel corso del brano? Trova degli esempi.

2. Che cos’è una “teoria locale della parola”? E in che senso quella descritta nel brano può essere considerata tale?

3. Quali elementi relativi alla teoria dogon sulla parola e la persona ti colpiscono di più?

4. Osserva quello che viene detto sulla relazione tra i principi spirituali (kikinu) e gli aspetti sonori della parola (mì). Nella tua cultura, esistono associazioni simili tra voce, intonazione, pronuncia ecc. e tipi di persona (genere, carattere ecc.)?

 >> pagina 254 

|⇒ T4  Carlo Severi

Una storia hasidim

Nel libro Il percorso e la voce, l’antropologo Carlo Severi analizza i modi di “fare memoria” tipici delle società non occidentali a tradizione orale. Il libro si apre con l’analisi di una storia tratta dalla tradizione ebraica chassidica che mira a far riflettere su come, anche in una religione fondata sul libro e sulla scrittura, la narrazione orale sia comunque fondamentale per la costruzione della memoria.

Così racconta una storia ebraica, della tradizione hasidim:

Il padre di mio nonno, per onorare Dio, usciva di casa prestissimo, alle prime luci dell’alba. Andava nel bosco, seguendo un sentiero che solo lui conosceva. Arrivato vicino a una sorgente, si metteva di fronte a una grande quercia, e cantava in ebraico una preghiera solenne, antica e segreta.

Suo figlio, il padre di mio padre, usciva anche lui di casa molto presto, e andava nel bosco seguendo il cammino che il padre gli aveva mostrato. Solo che lui, che aveva il respiro pesante e tanti guai nella testa, si fermava prima. Aveva trovato una betulla vicino a un ruscello, davanti alla quale cantava la preghiera ebraica che aveva imparato a memoria da bambino. E così, anche lui onorava Dio1.

Suo figlio maggiore, mio padre, aveva meno memoria, era meno pio, e aveva una salute meno vigorosa. Così, non si alzava più così presto, andava giusto vicino a casa, in un suo giardino dove aveva piantato un alberello, e, in modo molto più impreciso, mormorava qualche parola ebraica, spesso zeppa di errori, per onorare Dio.

Io, che non ho né memoria né tempo, ho dimenticato dove si trovava il bosco, non so più nulla di ruscelli o di fonti, non sono più in grado di recitare nessuna preghiera. Però mi alzo presto e racconto questa storia: e questo è il mio modo di onorare Dio.


Questa storia è meno semplice di quanto sembri. A prima vista, il senso può apparire ovvio: si tratta di un apologo2. Un apologo sulla memoria che gradatamente scompare. Di generazione in generazione, sembra dire il narratore, tutto si perde. Le informazioni che non sono messe per iscritto (il bosco, il sentiero, il prato, la collina, la quercia), come i dettagli del canto in onore di Dio che il capostipite della famiglia del narratore seguiva con tanto scrupolo, inevitabilmente si perdono senza lasciare traccia. Come le preghiere in ebraico che il narratore non sa più recitare.

La memoria degli uomini è fragile. Tutto lotta contro la memoria: le parole, tutte le parole, anche le più solenni, sono puro fiato, si perdono nell’aria, sembra aggiungere il racconto.

Un secondo senso dell’apologo riguarda certamente, di riflesso, la scrittura e l’uso dei libri, o del Libro, come è naturale che sia nella tradizione ebraica, e il suo rapporto con la memoria. Si pensa subito alle tradizioni orali: alla loro fragilità, al modo che hanno di scomparire, perché sono sostenute soltanto dal fiato di coloro che raccontano. […] Chi racconta è mortale – sembra dire l’io narrante – la sua memoria viva si perde nella polvere, o nell’incomprensione. Il narratore stesso è la prova che i dettagli del rito si perdono […].

Però, conclude il narratore, anche lui continua a onorare Dio. […] Lo fa raccontando come è scomparsa la preghiera, che lui non può più recitare. Qui il testo […] traccia invece una prima distinzione nell’ambito delle parole dette: tra ciò che si può raccontare, le storie, e parole di ordine diverso, che vanno rivolte, in modo solenne, direttamente a Dio. Alcune parole sono fatte per raccontare, altre per celebrare, sembra aggiungere l’apologo hasidim, e insieme offre la più bella prova che solo il narrare, non il rito e le sue esotiche funzioni, fanno memoria. […]

Eppure […] sembra che ci sia qualcosa in questa storia che ne contraddice il contenuto manifesto. […] Quella storia non è solo narrazione di qualcosa, da padre a figlio, generazione dopo generazione. È anche qualcosa di molto diverso. In realtà è anche una preghiera, raccontata per onorare Dio. […] Questa che si rivela essere la storia di una preghiera scomparsa dalla memoria conserva, proprio grazie al suo carattere ironico, che ne accresce l’ambiguità, una sua efficacia performativa. Basta raccontarla, e si trasforma in preghiera.

Chi narra celebra Dio: la narrazione e la recitazione rituale – che sono i due grandi rami delle tradizioni orali – si trovano in questa storia in ammirevole equilibro. […] È per questa ragione che, proprio quando il narratore dichiara che tutto si perde, dice invece che qualcosa di essenziale resta. […] È dunque […] l’atto di celebrare, e non il contenuto della storia, a persistere nella tradizione. […]

Questa storia è perfetta anche per un’altra ragione: […] perché è una storia raccontata a voce sulla fragilità della parola detta, e così mette contemporaneamente in luce una relazione stretta tra memoria e oblio. [….] La stessa ambigua relazione che si stabilisce tra parola che narra e parola che celebra, tra storia e preghiera, si riflette nella relazione tra memoria e oblio: una preghiera dimenticata sta in una storia che il narratore non dimentica. […] Solo la storia è rimasta nella sua mente. Eppure, quella stessa storia può essere fluida, instabile, contestata, o piena di lacrime. Quel che resta […] qui e ora, sta solo nella preghiera che, in forma implicita, contiene.

Rispondi

1. Quali sono le riflessioni dell’autore circa il tema della memoria nella tradizione orale?

2. Qual è il rapporto tra storia e preghiera così come emerge dall’esempio dell’apologo hasidim?

3. Prova a spiegare, con parole tue, la contraddizione di cui si parla nel testo: come può l’atto di narrare una preghiera scomparsa trasformarsi in preghiera?

4. Che cosa intende secondo te l’autore quando scrive che la storia ha “un’efficacia performativa”? Come si collega questo punto a quello che hai imparato sulle funzioni sociali e rituali del linguaggio?

 >> pagina 256 

|⇒ T5 

Gilgameš piange per la morte dell’amico Enkidu

L’epopea di Gilgameš è la narrazione poetica delle gesta eroiche di Gilgameš, re sumerico di Uruk, scritta in caratteri cuneiformi su tavolette d’argilla, la prima forma di scrittura conosciuta, risalente a circa 4500 anni fa. Lo stile narrativo fa pensare che all’epoca della composizione la tradizione orale si mantenesse ancora parallela a quella scritta.

Uditemi, grandi di Uruk,

Enkidu piango, l’amico mio [...]

tutte le creature dalla lunga coda che ti nutrirono

ti piangono,

tutti gli esseri selvatici della piana e dei pascoli;

i sentieri che amavi nella foresta dei cedri

notte e giorno mormorano. [...]

Piangano tutti i sentieri che insieme abbiamo percorso [...].

Il fiume lungo le cui rive camminavamo

ti piange [...].

I guerrieri di Ururk dalle forti mura,

dove fu ucciso il Toro del Cielo,

ti piangono.

Di Eridu tutto il popolo

piange per te, o Enkidu [...].

Che cos’è questo sonno che ora ti avvince?


[La scena del diluvio]

Conosci la città di Šuruppak, che sorge sulle rive dell’Eufrate? [...] Alla prima luce dell’alba la mia famiglia si riunì attorno a me, i bambini portarono pece, gli uomini tutto il necessario. Il quinto giorno misi in posa la chiglia e le coste, poi fissai il fasciame. [...] Al settimo giorno la nave era pronta. [...] Vi caricai tutto ciò che avevo, oro e creature viventi: la mia famiglia, i parenti, gli animali del campo sia selvatici sia domestici [...]. Il tempo era compiuto, venne la sera, il cavaliere della tempesta mandò la pioggia. Guardai fuori e il tempo era terribile, così anch’io salii a bordo della nave e chiusi i boccaporti. [...] Alle prime luci dell’alba venne dall’orizzonte una nube nera; tuonava da dentro, là dove viaggiava Adad, Signore della tempesta. [...] Per un giorno intero imperversò la bufera, infuriando sempre di più. [...] I venti soffiarono per sei giorni e sei notti; fiumana, bufera e piena sopraffecero il mondo, bufera e piena infuriarono assieme come schiere in battaglia. Quando venne l’alba del settimo giorno, la tempesta dal Sud diminuì, divenne calmo il mare, la piena s’acquietò; guardai la faccia del mondo e c’era silenzio [...]. La superficie del mare si estendeva piatta come un tetto, aprii un boccaporto e la luce cadde sul mio viso. Le lacrime scorrevano sul mio volto, poiché da ogni parte c’era un deserto d’acqua. Invano cercai la terra [...] sul monte Nisir rimase incagliata la nave, rimase incagliata e non si mosse.

Rispondi

1. Che cosa ti colpisce di più delle invocazioni di Gilgameš?

2. Quali sono secondo te gli elementi principali dello stile formulaico di ripetizione utilizzato nella tradizione orale per sostenere la memoria?

3. Quali sono le azioni principali che si svolgono nella vicenda sumerica del diluvio?

I colori dell’Antropologia
I colori dell’Antropologia
Secondo biennio e quinto anno del liceo delle Scienze umane