FINESTRE INTERDISCIPLINARI - La percezione visiva nell’arte

FINESTRE INTERDISCIPLINARI – Psicologia & Storia dell’arte

LA PERCEZIONE VISIVA NELL’ARTE

In ambito artistico la percezione visiva riveste da sempre un ruolo cardine sia per coloro che osservano l’opera d’arte sia per gli artisti che la realizzano. Si potrebbe affermare, infatti, che tutta la storia dell’arte, dall’antichità fino a oggi, non è altro che un dialogo continuo istaurato con la nostra percezione del mondo, attraverso tentativi di volta in volta più complessi di riprodurla, assecondarla, illuderla o raggirarla. L’arte, al pari delle scienze fisiche e matematiche e delle dottrine psicologiche, può essere uno strumento utile a comprendere i meccanismi della nostra percezione del reale.

Il David di Donatello

Un esempio significativo che può aiutarci a capire l’importanza dei processi percettivi nelle opere d’arte è la statua bronzea del David di Donatello (1386-1466), uno dei primi artisti ad applicare la prospettiva e a trasferirla in ambito scultoreo.

La grande portata rivoluzionaria della prospettiva è stata quella di includere il punto di vista dello spettatore all’interno dell’opera d’arte.

Il David non fu sempre apprezzato come lo è oggi. Realizzato intorno al 1440 per essere esposto nel palazzo dei Medici a Firenze, rimase nella sua collocazione originaria per pochi decenni, per poi essere trasportato dentro Palazzo Vecchio, la sede del governo fiorentino. Durante lo spostamento, però, si perse la colonna su cui era issato, alta circa tre metri. Nella nuova sede i visitatori si trovavano davanti la statua alla propria altezza, se non a terra, ed erano quasi tutti concordi nel giudicarla mal fatta, di proporzioni sbagliate. In effetti, se guardiamo la scultura ponendola davanti a noi, qualcosa non torna: David, il giovane pastore che secondo le Scritture avrebbe abbattuto il gigante Golia, appare come un ragazzino non molto atletico, con un po’ di pancetta e, per così dire, il «sedere basso».

Guardandolo dal basso verso l’alto, tuttavia, le imperfezioni spariscono: la figura si mostra in tutta l’eleganza longilinea del suo corpo giovanile. Donatello scolpì la statua tenendo a mente un punto di vista preciso e univoco, includendo nella sua opera lo sguardo dello spettatore, che diventa parte di essa, elemento essenziale per completarla e apprezzarne il valore.

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L’Optical Art

Le opere degli artisti che aderirono al movimento dell’Optical Art, nato negli anni Sessanta del secolo scorso, sono concepite con l’intento principale di provocare uno stato di instabilità percettiva, stimolando il coinvolgimento dello spettatore attraverso l’accostamento di forme geometriche, linee e colori posti su griglie che giocano con la nostra percezione della tridimensionalità.

Uno dei maggiori rappresentanti fu il pittore ungherese Victor Vasarely (1906-1997), che realizzò una serie di lavori in cui le linee e i colori che reagiscono per contrasto creano una superficie sulla quale il nostro occhio è costretto a scorrere senza un indirizzo preciso, lasciandosi sorprendere di volta in volta da sensazioni diverse nella percezione della tridimensionalità dei cubi graficamente rilevati.

Le sue opere in sé non comunicano alcun contenuto, nessuna rappresentazione, ma ci trasmettono una sorta di vertigine dovuta al fatto che la nostra mente è cosciente dell’illusione che ha di fronte, ma allo stesso tempo non può fare a meno di percepire elementi più o meno emergenti tridimensionalmente su un piano che sa essere bidimensionale.

I continui sbalzi dimensionali, inoltre, producono all’osservazione prolungata un’idea di movimento virtuale: da qui la definizione della Optical Art anche come arte cinetica.

Se le invenzioni dell’Optical Art anticipano, da una parte, le soluzioni ottenute con i moderni programmi di grafica dell’era digitale, dall’altra poggiano su esperimenti di illusione percettiva vecchi di migliaia di anni. Per rendersene conto basta mettere a confronto il quadro di Vasarely e un mosaico del pavimento di una delle abitazioni di Pompei (I sec. a.C. circa).

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Hans Holbein e l’anamorfosi

L’anamorfosi è un effetto di distorsione ottica nel quale un’immagine viene disegnata su un piano in maniera distorta, rendendo l’oggetto riconoscibile solo guardandolo da un punto di vista ben preciso.

Uno degli esempi più celebri è quello del dipinto Ambasciatori di Hans Holbein il Giovane (1497/98-1543), un doppio ritratto realizzato dall’artista tedesco intorno al 1533. Nella parte inferiore del quadro, di straordinaria rifinitezza nella resa naturalistica dei particolari, è rappresentato uno strano oggetto. Che cos’è?

Per riuscire a cogliere la figura ai piedi dei due ambasciatori dobbiamo immaginare di inclinare la tela e guardarla ponendoci alla sua destra. Scopriremo così la rappresentazione di un teschio, assolutamente convincente nella resa plastica, e idealmente proiettato con la sua ombra sul piano.

Da questo punto di osservazione il teschio si pone in relazione con il crocifisso nell’angolo opposto della composizione, in alto a sinistra.

Si tratta di un «memento mori», che letteralmente significa “ricordati che devi morire”: un avvertimento che deve mettere in guardia l’uomo dalle vanità, e ricordargli la transitorietà della sua esistenza terrena. Nel Cinquecento, infatti, le distorsioni anamorfiche in quadri o disegni nascondevano spesso messaggi politici o simbolici.

Al giorno d’oggi la tecnica dell’anamorfosi è ampiamente praticata nella Street Art, con risultati eccellenti.

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Donne in giardino di Claude Monet

Tra Settecento e Ottocento le continue scoperte scientifiche sull’ottica, sulle teorie dei colori e della rifrazione della luce, nonché l’evoluzione di strumenti come la camera ottica e l’invenzione della fotografia costringono gli artisti a confrontarsi continuamente con i meccanismi della percezione, e con la possibilità di replicarli o stimolarli attraverso la loro opera. Tra loro Claude Monet (1840-1926), uno dei padri dell’Impressionismo francese.

Cavallo di battaglia degli impressionisti è la pittura en plein air (“all’aria aperta”), per imprimere la natura sulla tela così com’è, o meglio così come appare.

Nel 1866 Monet comincia a dipingere Donne in giardino secondo questi presupposti: lavora nel giardino della sua casa e, per rendere il quadro il più possibile “realistico”, si fa addirittura calare la grande tela dentro una buca, in modo da poter realizzare la parte alta mantenendo lo stesso punto di vista. L’ambizione del pittore, in sostanza, è: come posso rappresentare dei corpi in un paesaggio restituendo anche l’impressione dell’aria e della luce che circolano tra loro?

Monet ci prova dipingendo non solo le luci, ma anche le ombre colorate, così come appaiono in realtà (le ombre infatti non sono grigie o a tinta unita, trattengono sempre una traccia di colore, a partire da quello dell’oggetto riflesso), anzi aumentando di proposito gli effetti di contrasto tra una zona e l’altra e caricando ombre e atmosfera di toni azzurri e violetti difficilmente percepibili con questa intensità. Le chiazze di luce sono infatti ottenute tramite l’applicazione di pennellate colorate ben distinte, che se viste da troppo vicino risultano del tutto innaturali, mentre a una giusta distanza funzionano perfettamente nel trasmettere una determinata «impressione» atmosferica. I contorni non sono chiaramente tracciati e le figure e le cose non sembrano avere una propria sostanza: quasi galleggiano dentro questa sinfonia cromatica che sembra ricevere luce dall’interno.

Siamo di fronte a un’apparente contraddizione: per essere realista il pittore utilizza una tecnica che si potrebbe quasi definire antirealistica, lasciando a vista la pennellata e senza preoccuparsi di ricreare l’illusione di trovarci di fronte a persone e oggetti veri. Egli lavora a questo quadro facendo leva sulla nostra percezione visiva, non per illuderla ma per riorientarla, in modo da farci vedere il mondo, o almeno un suo aspetto, attraverso i suoi occhi.

Dialoghi nelle Scienze umane - volume 1
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Psicologia e pedagogia - Primo biennio del liceo delle Scienze umane