FINESTRE INTERDISCIPLINARI - Il deserto in chiave psicologica

FINESTRE INTERDISCIPLINARI – Scienze umane: Pedagogia & Psicologia

IL DESERTO IN CHIAVE PSICOLOGICA

Scete è stato il più importante centro del monachesimo egiziano, il luogo in cui affonda le radici il nucleo originario dei detti dei padri del deserto. Corrisponde alla regione attualmente conosciuta con il nome di Wadi El-Natrun. È una zona remota, tant’è che nelle fonti monastiche viene spesso definito panéremos, ovvero “deserto assoluto”. Altri centri vicini e a esso collegati erano Nitria e Celle.
Il deserto è sicuramente un luogo complesso da abitare, in esso tutto «è acutizzato: le temperature, con le loro escursioni termiche; i suoni e persino le impronte che persone, animali o oggetti lasciano e che, per capriccio del vento, appaiono e scompaiono» scrive Antonietta Potente (teologa, n. 1958). Il deserto richiede di essere sensibili e vigili; per sapere come muoversi e dove fermarsi è necessario conoscere gli astri. Nel cristianesimo ha da sempre avuto una forte valenza simbolica: i Vangeli dicono che lo stesso Gesù vi trascorse quaranta giorni, in compagnia delle belve feroci e degli angeli. Con il tempo è stato associato alla rinuncia, all’isolamento, alla fatica.
Ma i significati psicologici del deserto sono molto più ampi. Esso è innanzitutto un luogo di essenzialità, in cui i monaci e le monache dell’antichità giungevano a riscoprire ciò che è fondamentale per la vita: cibo e acqua quanto basta, un indumento, l’ospitalità reciproca, l’attenzione all’ambiente e ai suoi abitanti. Il deserto è anche una periferia, è distante da ciò che viene considerato “il centro” e implica l’allontanamento dai privilegi che, per definizione, appartengono a pochi e perciò sono associati a luoghi angusti ed escludenti. È un luogo trasformativo che, come il digiuno, serve a fare spazio perché possano emergere nuove possibilità.

Dialoghi nelle Scienze umane - volume 1
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Psicologia e pedagogia - Primo biennio del liceo delle Scienze umane