2 - La filosofia come sapienza

2. La filosofia come sapienza

2.1 DA DOVE VIENE IL MONDO?

In questo capitolo ci soffermeremo su tre temi: la sapienza dei pensatori di Mileto, l’orfismo e il pitagorismo. Ciò che accomuna i pensatori che affronteremo è la riflessione sul cosmo, sui principi che lo generano e lo ordinano.

2.2 i sapienti di mileto

Iniziamo soffermandoci su Talete, Anassimandro e Anassimene, i tre sapienti di Mileto. Talete (624/3-548/5 a.C.) non ha lasciato nulla di scritto. Anassimandro (610-547 a.C.) scrisse un’opera in prosa, più tardi intitolata Sulla natura, di cui resta soltanto un frammento ma il cui contenuto ci è noto da numerose fonti antiche. Anche delle opere di Anassimene (585/4-528/4 a.C.) ci è pervenuto un solo frammento, una sola frase, e anche la ricostruzione del suo pensiero si fonda sulle testimonianze di altri autori.

Mossi da grande libertà di pensiero, questi tre pensatori seppero dare vita a una riflessione intenta a cogliere la spiegazione di ogni cosa. Una visione che, se a uno sguardo superficiale può apparire ingenua, racchiude una complessità rivoluzionaria ancora attuale. Le loro intuizioni, infatti, riguardano vari aspetti della realtà e il loro insegnamento ancora non conosce l’insensata contrapposizione tra saperi scientifici e umanistici.

Da dove viene il mondo? È questa la domanda a cui i sapienti della città di Mileto cercano per primi di dare una risposta. Per tradizione, Talete, Anassimandro e Anassimene vengono definiti “filosofi”. Tuttavia, nel tempo in cui vissero, la parola “filosofia” non esisteva ancora. Il primo a utilizzarla nel senso più vicino al suo significato etimologico, ovvero come amore e amicizia (philía) per la sapienza, fu Pitagora (570-490 a.C. ca.). A Talete, Anassimandro e Anassimene meglio si addice la definizione di “sapienti”, in un modo che però non si allontana da quella che è la pratica propria della filosofia: partire da se stessi per ricercare una forma di sapere della realtà, attraverso l’esperienza, l’osservazione, lo studio e la riflessione.

I tre sapienti hanno in comune essenzialmente due cose: la patria, Mileto, colonia greca sulle coste dell’Asia Minore caratterizzata da grande dinamicità intellettuale, politica ed economica; la ricerca dell’origine delle cose.

Nell’opera del filosofo Aristotele ▶ unità 4, p. 461 | intitolata Metafisica, leggiamo, tra l’altro, che essi fuggivano «l’ignoranza», «cercavano il sapere per il conoscere e non per trarne un utile» e nel farlo erano mossi da meraviglia.

Infatti gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli astri, o i problemi riguardanti la generazione dell’intero universo.

Aristotele, Metafisica, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano, 2000, p. 11

Meravigliarsi è già di per sé una forma di conoscenza, perché dalla meraviglia nascono le domande sulle “cause prime”, profonde, essenziali, di tutte le cose: sul loro principio.

Anassimandro è stato il primo a utilizzare la parola greca arché, che significa appunto “principio”, “origine”. Il principio, per i sapienti di Mileto, non è inteso soltanto in senso temporale: costituisce il punto di partenza da cui tutto si origina ma anche l’essenza delle cose che si manifestano, sono e divengono nel tempo. Principio è ciò da cui tutto nasce, ciò che dà essenza alle cose e le mantiene così come sono, e ciò a cui tutto poi fa ritorno. L’arché, in altre parole, è la materia da cui le cose provengono, l’energia, la forza che le anima, la legge che spiega la loro nascita e morte.

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L’ingegnoso Talete: dall’acqua al “conosci te stesso”

Talete era un uomo molto ammirato, un filosofo, un politico, un matematico, un fisico, un astronomo; «sapiente nell’azione, si narrano di lui molte invenzioni ingegnose nelle arti o in certe altre attività», racconta Platone nella Repubblica. Il pensiero di Talete, le sue idee, ce le fa invece conoscere soprattutto Aristotele.

Talete riconosce in un elemento materiale, l’acqua, il principio primordiale da cui ogni cosa nasce e deriva. L’acqua, quindi, come fonte di vita, ma anche come sostrato, cioè “ciò che sta sotto” e che sorregge ogni cosa. Anche la terra, che sull’acqua galleggia. Nella Metafisica, Aristotele scrive:

La maggior parte di coloro che per primi filosofarono pensarono che princìpi di tutte le cose fossero solo quelli materiali. Infatti essi affermano che ciò di cui tutti gli esseri sono costituiti e ciò da cui derivano originariamente e in cui si risolvono da ultimo, è elemento ed è principio degli esseri, in quanto è una realtà che permane identica pur nel trasmutarsi delle sue affezioni. […] Tuttavia, questi filosofi non sono tutti d’accordo circa il numero e la specie di un tale principio. Talete, iniziatore di questo tipo di filosofia, dice che quel principio è l’acqua (per questo afferma che anche la terra galleggia sull’acqua), desumendo indubbiamente questa sua convinzione dalla constatazione che il nutrimento di tutte le cose è umido, e che perfino il caldo si genera dall’umido e vive nell’umido. Ora, ciò da cui tutte le cose si generano è, appunto, il principio di tutto. Egli desunse dunque questa convinzione da questo e inoltre dal fatto che i semi di tutte le cose hanno natura umida, e l’acqua è il principio della natura delle cose umide.

Aristotele, Metafisica, a cura di G. Reale, Bompiani, 2000 Milano, pp. 15-16

Sempre Aristotele, in un altro suo scritto, intitolato Sull’anima, ci dice una cosa che sembra contraddire l’affermazione secondo cui il principio di tutte le cose è l’acqua:

Anche Talete, da quanto ricordiamo, sembra congetturare che l’anima sia una forza motrice se afferma che la calamita ha l’anima perché attrae il ferro […] Alcuni poi affermano che l’anima è mischiata nell’universo: di qui, forse, Talete ha opinato che tutto è pieno di dei.

Aristotele, Dell’anima, trad. e note a cura di R. Luarenti, Il Tripode, Napoli-Firenze, 1970, pp. 40, 70

Come afferma il filologo Giorgio Colli (1917-1979): «se tutte le cose sono piene di dei, e se tutte le cose – anche quelle apparentemente inanimate – sono piene di anime, ne segue che per Talete anima e divinità sono la stessa cosa». Risulta allora difficile mettere insieme un principio materiale, come l’acqua, con il fatto che tutte le cose sono piene di dèi e quindi pervase di anima. Non riusciamo a dipanare la questione perché le idee di Talete le attingiamo da fonti esterne, che spesso risultano contraddittorie. Ciò che deve invece essere chiaro è che il percorso aperto da Talete non offre risposte, ma è un continuo invito a interrogare il mondo, a farsi domande per conoscere e conoscersi. E le due cose sono in costante rapporto. A lui, infatti, si deve il famoso motto “conosci te stesso” scolpito sul frontone del tempio di Apollo a Delfi, cui poi si ispirerà Socrate.

Talete non si ferma qui. Dopo un viaggio in Egitto, durante il quale visita la piramide di Cheope, introduce in Grecia anche la geometria, scoprendo, scrive Franco Lorenzoni (maestro elementare e saggista, n. 1953), «che l’immensa piramide è misurabile con un piccolo bastone, un raggio di sole e la sola intelligenza». La geometria, dunque, come arte del “saper guardare”. Suo anche il teorema che un fascio di rette parallele intersecanti due trasversali determina su di esse classi di segmenti direttamente proporzionali.

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Un pianeta in divenire

Veduta aerea di un atollo delle Maldive. Esso fa parte di un arcipelago la cui esistenza è minacciata dall’innalzamento del livello del mare e dal turismo di massa. Da cosa dipendono l’evoluzione del pianeta e il suo divenire? La filosofia di Talete e dei filosofi presocratici invita a riflettere sull’origine del cosmo e sulle sue trasformazioni, partendo dalla ricerca degli elementi naturali che costituiscono il principio del mondo.

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Ripensare l’immagine del mondo: Anassimandro

Come scrive il fisico Carlo Rovelli (n. 1956), Anassimandro è «colui che apre il processo di ripensamento dell’immagine del mondo». Come in Talete, anche nel suo discepolo Anassimandro assistiamo alla nascita di un pensiero mosso dalla meraviglia, dal desiderio di cambiamento.

Anassimandro […] apre un immenso conflitto: il conflitto fra due forme di sapere profondamente diverse. Da un lato, un nuovo sapere sul mondo, fondato sulla curiosità, sulla ribellione alle certezze, e quindi sul cambiamento. Dall’altro, il pensiero allora dominante, che è principalmente religioso-mitico, ed è fondato, in larga misura, sull’esistenza di certezze che per loro stessa natura non possono essere messe in discussione».

C. Rovelli, Che cos’è la scienza. La rivoluzione di Anassimandro, Mondadori, Milano, 2014, pp. 15-16

Del suo testo Sulla natura, andato perduto, ci rimane questo oscuro frammento: «Tutte le cose hanno origine l’una dall’altra e periscono l’una nell’altra, secondo la necessità. Esse si rendono l’un l’altra giustizia, e si ricompensano per l’ingiustizia, in conformità con l’ordine del tempo».

Anche per Anassimandro è necessario risalire al principio del tutto, e per trovarlo egli si spinge oltre l’evidenza empirica, cioè oltre l’immediata osservazione basata sull’esperienza. L’arché per Anassimandro è l’ápeiron, “l’infinito”, che è eterno, indeterminato, illimitato. Eterno perché è al di là del tempo, dimensione che caratterizza le cose finite del mondo. Esso è indeterminato per qualità: il principio, per originare il tutto, non può avere caratteristiche particolari e limitate. Come nota il filosofo Nicola Abbagnano (1901-1990), forse Anassimandro, ricercando un principio indeterminato, aveva colto un problema nell’idea di Talete: «in che modo un elemento specifico come l’acqua era in grado di farsi terra o fuoco?». Poi, il principio è illimitato per quantità: al di fuori di esso non esiste nulla, benché, come scrive Abbagnano, «tutto si definisca in relazione di opposizione a esso». Il cosmo infatti, con le sue unità differenziate e particolari, nasce dal distacco dall’infinito, che però rimane la fonte da cui le cose nascono e verso la quale ritornano. In particolare, tutti gli elementi della realtà sono il risultato di un processo di separazione e differenziazione degli opposti. Nonostante l’infinito, quindi, c’è in Anassimandro una visione dualistica del cosmo.

Nel frammento Anassimandro parla di giustizia e ingiustizia. Perché? Il mondo non è fondato solo sull’unità del principio (l’infinito), ma anche sull’unità della legge che lo regge. Questa legge che governa il cosmo è necessaria ed è una forma di giustizia. Le cose si rendono reciprocamente giustizia e ingiustizia non per volere, ma per la necessità di obbedire alla legge dell’infinito. Le cose per Anassimandro sono finite, differenti tra loro, e vivono e si alimentano di questa diversità. Stando in relazione, nello spazio e nel tempo che trascorre, non possono diventare assolute, cioè slegate dal rapporto con le altre.

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Dentro di noi, nel mondo: Anassimene

Sappiamo pochissimo della vita di Anassimene, solo che era di Mileto e discepolo di Anassimandro. Di lui ci rimane questa frase: «Come la nostra anima – che è aria – ci stringe assieme, così pure il soffio e l’aria abbracciano il mondo intero». In queste poche parole, come nota Giorgio Colli, vengono enucleati due significativi pensieri. La frase sembra innanzitutto richiamare un enunciato della ▶ dottrina mistica vedica del XX secolo a.C.: l’identificazione tra atman (la nostra intimità, noi stessi) e brahman (l’unità cosmica da cui tutto procede) APPROFONDIAMO, p. 404 |. In questo modo, scrive Colli: «l’essenza interiore dell’individuo è una sola cosa con l’essenza oggettiva del mondo». L’aria, identificata con l’arché e con l’anima, permette a noi e al mondo intero di respirare. «La sfera dell’individuo e quella del mondo sono perfettamente bilanciate: un dominio unico – aria – pervade le due sfere, che in quanto anima regge l’apparenza del corpo, e in quanto soffio avvolge le apparenze molteplici del mondo».

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approfondiamo  LA CONOSCENZA SUPERIORE

Per approfondire l’identificazione tra atman e brahman, riportiamo un passo dell’articolo Il tema dell’autorealizzazione nelle Upanishad: una lettura in chiave psicoanalitica di Matteo Karawatt.


L’eccitante scoperta che i saggi upanishadici fecero fu che l’Atman non era nient’altro che lo stesso Brahman. Non esisteva alcuna differenza tra il supremo soggetto (Atman) e il supremo oggetto (Brahman). Nella Chandokya Upanishad1, c’è un famoso episodio che presenta questo insegnamento meravigliosamente. Uddhalaka istruisce suo figlio Svetaketu sulla realtà suprema dicendogli che egli stesso è la realtà suprema. Dopo ventiquattro anni di studio il figlio si sente colto, arrogante e presuntuoso. Allora suo padre gli chiede: “Mio caro Svetaketu, dato che tu sei contento di te e orgoglioso delle tue conoscenze, hai mai cercato quell’insegnamento per il quale ciò che non si è ascoltato è come se fosse stato ascoltato, ciò che non si è pensato è come se fosse stato pensato, ciò che non si è conosciuto è come se fosse stato conosciuto?”. Il figlio chiese come potesse esistere un simile insegnamento e suo padre rispose: “Mio caro, è come se da un pezzo di argilla si conoscesse tutto ciò che è fatto di argilla, restando tutte le diverse modificazioni null’altro che distinzioni di nome e di linguaggio riguardanti una sola realtà: l’argilla. Ciò significa che la varietà e la pluralità degli oggetti dell’esperienza è soltanto un travestimento della realtà unitaria che è alla loro base”. L’insegnamento del padre arriva poi al suo culmine quando dice: “Questa sottile essenza anima tutte le cose; essa è l’unica realtà, essa è l’Atman; quello sei tu” (in sanscrito Tatvam Asi). Comprendendo solo intellettualmente l’insegnamento del Tatvam Asi, non si raggiunge la conoscenza del “Sé Supremo”. La conoscenza intellettuale presuppone una dualità di soggetto e oggetto, di conoscente e conosciuto. La conoscenza superiore è quella per mezzo della quale ciò che non è mai stato sentito viene sentito.

2.3 LA CONOSCENZA COME ESSENZA E FINE DELLA VITA: IL PERCORSO DI ORFEO

Orfeo è un poeta mitico, suona la lira e canta. Nasce a Lebetra, una città della Tracia, terra di sciamani. È figlio della musa Calliope e secondo alcune fonti suo padre è Apollo, da cui riceve in regalo la lira, strumento musicale a corde dal suono dolce.

La musica e il canto di Orfeo affascinavano gli esseri umani, gli animali e la natura tutta. Il filosofo latino Seneca racconta gli effetti dei suoi versi musicali sull’impeto dell’acqua dei torrenti che piano piano si placava, sugli uccelli che, nell’ascoltare le sue dolci melodie, si commuovevano, perdendo la forza del loro volo, sulle ninfe dei boschi (le Driadi) che dalle querce gli andavano incontro, insieme alle belve.

La vita di Orfeo è il racconto di un mito. Nel mito, che significa “parola, narrazione, tramandata per lo più oralmente”, c’è un sapere che si rivela nel ricordo e nella memoria, e c’è pensiero: ogni narrazione mitica orienta e indirizza alla conoscenza. Il mito allora è anche metodo, che etimologicamente significa “percorso”, “strada da intraprendere”. Il mito di Orfeo è la metafora di un viaggio. Un percorso rivelatore, perché ogni cammino porta con sé l’idea di scoprire qualcosa, di ricercare una verità. Che viaggio compie Orfeo? Una katábasis, cioè una discesa agli inferi, nel mondo dei morti, il regno di Ade, il dio dell’oscurità, dell’oltretomba. Perché intraprende questa discesa? Per amore della sua sposa, la ninfa Euridice.

Orfeo non era il solo ad amare Euridice; anche Aristeo, un coltivatore di api, violento, era innamorato di lei. Un giorno Euridice, per scappare da Aristeo, viene morsa da un serpente e muore. Orfeo allora decide di scendere nel regno dei morti per andare a riprenderla, per strapparla alla morte. Anche nell’oltretomba la musica di Orfeo incanta: Caronte, il traghettatore infernale, lo aiuta ad attraversare lo Stige, il fiume degli inferi; Cerbero, il cane con tre teste, non gli abbaia; le Erinni, dee abitatrici degli inferi, si commuovono. Così Ade concede a Orfeo di riportare Euridice nel regno dei vivi, ma a un patto: per tutto il percorso oscuro non dovrà mai voltarsi indietro a guardarla. «Io te la rendo, ma con queste leggi: / che lei ti segua per la ceca via / ma che tu mai la sua faccia non veggi / finché tra i vivi pervenuta sia!», scrive Angelo Poliziano, poeta italiano del XV secolo, nella Fabula di Orfeo.

La risalita di Orfeo ed Euridice viene raccontata da diversi autori, tra cui anche il poeta latino Ovidio (Le metamorfosi). Durante l’ascesa verso il mondo dei vivi, Orfeo, per paura di perdere per sempre Euridice, si volta verso di lei, ma la donna viene risucchiata negli abissi e scompare, nonostante l’ultimo tentativo dell’amato di afferrarla.

Alla figura di Orfeo è legato l’orfismo, un fenomeno religioso-▶ misterico, caratterizzato dal tema del destino dell’anima dopo la morte. Secondo gli orfici l’anima, essendo divina e immortale, doveva liberarsi dal corpo, nel quale era imprigionata a causa di una colpa originaria. È famosa infatti la massima orfica secondo cui “il corpo è la tomba dell’anima”. Tale precetto è ripreso anche dai pitagorici. L’anima poteva liberarsi dal corpo soltanto dopo la morte e dopo avere posto fine al ciclo delle reincarnazioni. Gli orfici seguivano infatti la dottrina della metempsicosi, secondo la quale l’anima trasmigra da un corpo all’altro fino al raggiungimento della salvezza.

In vita, tale liberazione poteva essere in parte conseguita attraverso l’ascesi, le penitenze e riti di tipo iniziatico e purificatorio, come le abluzioni (lavaggi a scopo di purificazione), i digiuni, l’astensione dalle carni.

per immagini

Orfeo ed Euridice

Il dipinto mostra Orfeo ed Euridice nell’atto di lasciare il mondo degli inferi. Il mitico cantore ha il capo coronato e porta in spalla la lira. Con la sinistra cerca la mano della compagna, guardandola con la coda dell’occhio: potrà riportarla nel regno dei vivi a patto che, durante la risalita, non si volti mai indietro a guardarla. Euridice guarda in direzione di Proserpina, la regina degli inferi, che siede accanto allo sposo Ade. La mostruosa creatura ai piedi di Proserpina è Cerbero, il cane a tre teste che custodiva l’entrata negli inferi.

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  INVITO ALL’ASCOLTO 
Roberto Vecchioni, EURIDICE, 1993 - Carmen Consoli, ORFEO, 2000

Due canzoni: una di Roberto Vecchioni, l’altra di Carmen Consoli. Due interpretazioni diverse del mito di Orfeo. In Euridice, Vecchioni, ispirandosi all’Inconsolabile di Cesare Pavese (Dialoghi con Leucò, 1947), dà autonomia e potere decisionale a Orfeo, che quindi sceglie in modo volontario di voltarsi verso la sua amata. La capacità di prendere decisioni era riservata solo agli dèi, non agli uomini. In Orfeo di Carmen Consoli, è Euridice che chiede a Orfeo di salvarla, ignara del fatto che lui non riuscirà nell’impresa. «Sei venuto a convincermi / o a biasimarmi per ciò che non ho ancora / imparato. / Sei venuto a riprendermi. / Orfeo malato dai forza e coraggio al tuo / canto eccelso. / Portami con te non voltarti / conducimi alla luce del giorno. […] È il momento di svegliarmi / è tempo di rinascere”.

2.4 LA SCUOLA PITAGORICA

Pitagora nasce a Samo, un’isola dell’Egeo orientale, intorno al 571-570 a.C. Da quel che sappiamo, non ha lasciato nulla di scritto. Di lui Cicerone ▶ unità 5, p. 497 | racconta che fu il primo a utilizzare la parola “filosofia”. Chi erano i filosofi per Pitagora? Paragonando la vita alle grandi feste di Olimpia, diceva che alcuni vi andavano per commercio, altri per partecipare alle gare, altri ancora per divertirsi. Coloro che vi andavano solo per vedere ciò che succedeva erano i filosofi.

Pitagora è un uomo influente e le sue verità sono incontestabili, come ribadisce la famosa formula ipse dixit (“l’ha detto lui”), coniata da Cicerone nel I secolo a.C. per indicare il continuo riferimento dei pitagorici all’autorità del loro maestro. Pitagora viaggia molto, soprattutto in Egitto e nei paesi d’Oriente, dicono le fonti. Da questi spostamenti apprende conoscenze filosofiche e scientifiche. Vuole fondare una scuola. Ci riesce, ma lontano dalla città natale, dalla quale è costretto a fuggire a causa dei contrasti politici con il tiranno Policrate. La scuola nasce infatti in Magna Grecia, a Crotone, nell’attuale Calabria. È una comunità di carattere filosofico, scientifico, religioso e politico di stampo aristocratico ma aperta a tutti e tutte, anche agli stranieri.

Vi partecipano attivamente molte donne. Alcune di loro, come Teano e Temistoclea, rispettivamente moglie (secondo alcune fonti) e sorella di Pitagora, esercitano una grande influenza all’interno della scuola. Secondo la tradizione, ad alcune donne venne affidato il compito di custodire e tramandare “memorie” pitagoriche non destinate alla diffusione ma a un sapere per pochi: la trasmissione avviene da Pitagora alla figlia, Damo, e alla morte di Damo alla figlia Bitale.

Gli aspiranti adepti della scuola dovevano superare un duro periodo di prova. In proposito, il filosofo Giamblico (250 ca.-325 ca. d.C.) racconta che gli aspiranti allievi venivano sottoposti da Pitagora a una scrupolosa selezione, basata sull’osservazione della loro indole. Coloro che superavano l’esame trascorrevano presso la scuola tre anni preparatori, volti ad accertare la fermezza del loro temperamento, l’autenticità del loro desiderio di apprendere e il loro disprezzo per la gloria e gli onori. Dopodiché, per cinque anni, venivano ammessi a ricevere gli insegnamenti del maestro in qualità di acusmatici (dal greco ákusma, “ciò che si ascolta”): essi si limitavano ad ascoltare da dietro una tenda e in silenzio le parole di Pitagora, senza neppure vederlo. In questo periodo, inoltre, tutti i loro beni personali venivano messi in comune. Trascorsi i cinque anni, coloro che venivano giudicati idonei diventavano matematici (dal greco máthema, “apprendimento”, “materia di studio”): essi partecipavano alle lezioni di Pitagora dentro la tenda, con la possibilità quindi di vederlo e parlare con lui. Il loro apprendimento, a differenza di quello degli acusmatici, era quindi partecipato e in presenza.

Gli insegnamenti erano segreti e venivano tramandati oralmente. I riti e le regole da osservare erano rigorosi. Agli allievi era imposto l’obbligo di rispettare gli dèi e di essere fedeli agli amici. Dovevano stilare tutte le mattine un programma per la giornata e fare tutte le sere un esame di coscienza sulla giornata trascorsa. Era loro vietato discutere l’autorità del maestro, mangiare carne e fave, spezzare il pane o attizzare il fuoco con il metallo, indossare indumenti di lana o anelli, scavalcare travi e perfino raccogliere ciò che era caduto. Pare praticassero il celibato e la comunione dei beni.

L’essenza di tutte le cose per i pitagorici è il numero: i numeri sono il principio primo di tutte le cose (arché): attraverso i numeri è possibile misurare e capire la realtà e cogliere l’ordine e l’unità del cosmo. Un ordine al contempo matematico e geometrico. Pitagora è infatti anche colui che inventa il teorema che porta il suo nome (“in ogni triangolo rettangolo il quadrato costruito sull’ipotenusa è equivalente alla somma dei quadrati costruiti sui cateti”).

La figura sacra in cui si esprime il vero significato del numero è la tetraktýs (letteralmente “numero quaternario”), sulla quale i pitagorici giuravano. La tetraktýs rappresenta geometricamente il numero 10: numero perfetto, composto dalla somma dei primi quattro numeri (1 + 2 + 3 + 4), simboleggia l’universo intero. Essendo il numero il principio materiale e intellegibile di tutte le cose, le opposizioni che si manifestano tra le cose sono opposizioni di numeri. I numeri si dividono infatti in pari e dispari. Secondo i pitagorici, i pari, divisibili per due, sono illimitati e quindi imperfetti, in quanto non permettono di creare una forma. I dispari invece, non essendo divisibili per due, sono limitati e quindi perfetti. Il numero 1 viene chiamato parimpari: se lo si somma a un numero pari, diventa dispari; se lo si somma a un numero dispari, diventa pari. Il numero è anche alla base della musica, disciplina fondamentale nell’educazione pitagorica.

per lo studio

1. Quali sono le caratteristiche del principio primo (arché) individuato da Anassimandro?

2. Quale visione dell’essere umano si ritrova nell’orfismo?

3. Quali sono i principali insegnamenti della scuola pitagorica?


  Per discutere INSIEME 

Nella visione religiosa orfica l’anima si libera solo dopo avere abbandonato il corpo. Confrontati con i tuoi compagni sul tema delle diverse concezioni del corpo e dell’anima nelle vostre culture di appartenenza.

Dialoghi nelle Scienze umane - volume 1
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Psicologia e pedagogia - Primo biennio del liceo delle Scienze umane