T1 - Ulric Neisser, Le origini del cognitivismo

PAROLA D’AUTORE

|⇒ T1  Ulric Neisser

Le origini del cognitivismo

In questo brano l’autore, riprendendo le principali teorie psicologiche, fa il punto sulle origini del cognitivismo e sui suoi scopi. Si tratta di spiegare quali siano gli ambiti della psicologia cognitivista rispetto ad altri modelli teorici come il comportamentismo e la psicoanalisi.

L’attività cognitiva è l’attività del conoscere: l’acquisizione, l’organizzazione e l’uso della conoscenza.
È una cosa che viene compiuta dagli organismi viventi, e in particolare è una cosa che viene compiuta dagli esseri umani. Per questa ragione lo studio dei processi cognitivi fa parte della psicologia, e le teorie cognitive sono teorie psicologiche. Un tempo questa relazione appariva così ovvia che non richiedeva commenti. Allorché, un centinaio di anni fa, la psicologia emerse come disciplina indipendente. Lo scopo principale della scienza psicologica era l’analisi dei “processi mentali”, che normalmente significano processi cognitivi. Purtroppo, il metodo principale impiegato per siffatta analisi consisteva di una forma speciale di introspezione, in cui osservatori altamente addestrati riferivano circa l’attività della propria mente cosciente. A lungo andare, questo metodo si è rivelato insoddisfacente. A partire dagli anni ’30, esso ha perso definitivamente credito, l’introspezione è stata abbandonata (per lo meno in America) e il lavoro psicologico ha cominciato a concentrarsi sulla motivazione, l’emozione e l’azione. Siccome la psicologia riguarda gli esseri umani, essa non può evitare la responsabilità di trattare delle questioni fondamentali circa la natura umana. […]
Una teoria psicologica che vada al fondo dei problemi può modificare le convinzioni di un’intera società, come ha indubbiamente fatto, ad esempio, la psicoanalisi. Questo può avvenire, però, solo se la teoria ha qualcosa da dire su ciò che la gente fa in situazioni reali e culturalmente significative. Ciò che dice non dev’essere banale, e deve fornire spiegazioni ragionevoli a coloro che partecipano a queste stesse situazioni. Se una teoria manca di tali qualità – se non possiede ciò che oggi come oggi viene definito “validità ecologica” – prima o poi verrà abbandonata.
È proprio in questo senso che appare inadeguata la concezione di natura umana espressa dagli psicologi introspezionisti classici. Restrittiva, eccessivamente razionale, applicabile solo a situazioni di laboratorio, mancava quasi completamente di chiarezza esplicativa circa il modo in cui gli esseri umani interagiscono col mondo circostante: gli uomini diventano ciò che sono crescendo in una particolare cultura e in un particolare ambiente, ma gli introspezionisti non svilupparono alcuna teoria dello sviluppo cognitivo; gli uomini sono mossi da motivazioni che non conoscono e sono formati da esperienze che non sanno ricordare, ma non v’era alcuna teoria dei processi inconsci; gli uomini agiscono in base a ciò che sanno e vengono modificati dalle conseguenze delle loro azioni, ma non v’era alcuna seria teoria del comportamento. Perfino la percezione e la memoria erano interpretate secondo criteri che avevano ben pochi contatti con l’esperienza quotidiana. […]
Degli approcci emersi dopo, due sono ancora particolarmente attuali: la psicanalisi e il comportamentismo. Essi si sono applicati con successo proprio là dove la psicologia introspezionista aveva fallito. […] I fondatori delle due scuole, Freud e Watson, erano profondamente coscienti che il loro lavoro aveva implicazioni che si protendevano ben oltre lo studio medico e il laboratorio sperimentale. Entrambi si accinsero deliberatamente a cambiare la concezione della natura umana prevalente ai loro tempi. Freud si sforzò di convincere il mondo che le pressioni esercitate dalla libido costituivano la fonte suprema delle motivazioni umane e che l’attività cosciente occupava solo la parte più piccola e debole della mente. Il suo successo fu decisamente notevole […].
Watson e il suo successore Skinner ritenevano che gli uomini fossero pressoché infinitamente malleabili, e che le conseguenze del comportamento umano fossero d’importanza cruciale, importanza non attribuita invece all’attività mentale che accompagna il comportamento stesso. Tali ipotesi appaiono oggi ampiamente accettate, come si può giudicare dal crescente impiego, in numerosi contesti, della modificazione del comportamento e della terapia comportamentale, nonché dal crescente timore che la scienza comportamentale possa quanto prima essere usata per manipolare la gente su vasta scala.
A partire dalla prima guerra mondiale fino ai primi anni ’60, il comportamentismo e la psicoanalisi (o le discipline che ne sono derivate) hanno a tal punto dominato la psicologia in America che i processi cognitivi sono stati quasi completamente ignorati. Non erano molti gli psicologi interessati al problema di come venga acquisita la conoscenza. La percezione, che è l’atto cognitivo più importante, venne studiata principalmente da un ristretto gruppo di scienziati seguaci della tradizione della Gestalt e da pochi altri psicologi che lavoravano sulla misurazione e la fisiologia dei processi sensoriali. […]
In questi ultimi anni tale situazione ha subito cambiamenti radicali. I processi mentali sono tornati ad essere un vivace centro d’interesse. Ha cominciato a svilupparsi un nuovo campo di studi definito psicologia cognitivista, che tratta temi quali percezione, memoria, attenzione, riconoscimento di pattern, soluzione di problemi, psicologia del linguaggio, sviluppo cognitivo, e una miriade di altri argomenti lasciati a sonnecchiare per mezzo secolo.
Numerose sono state le ragioni di questa evoluzione ma la più importante era probabilmente connessa con l’avvento del calcolatore e questo non tanto perché i calcolatori consentissero più agevoli sperimentazioni o analisi dei dati, cosa che peraltro facevano, quanto perché le attività stesse del calcolatore sembravano in qualche maniera affini ai processi cognitivi. I calcolatori accettano le informazioni, manipolano i simboli, immagazzinano i dati nella “memoria” e li recuperano quando occorre, classificano gli input, riconoscono i pattern, e così via. Non era tanto importante che facessero queste operazioni proprio come fanno gli uomini, ma era importante che le facessero. L’avvento del calcolatore ha fornito la sicurezza, quanto mai necessaria, che i processi cognitivi fossero reali e che questi processi potessero essere studiati e forse compresi. Man mano che andava sviluppandosi il concetto di elaborazione dell’informazione, divenne scopo supremo del nuovo campo di studi il tentativo di seguire il flusso di informazioni nell’ambito del “sistema” (ad esempio, la mente).
Rispondi

1. Perché la concezione della natura umana espressa dagli introspezionisti appare inadeguata?
2. Quali sono i due approcci ancora attuali?
3. Perché l’avvento del calcolatore si è rivelato di importanza fondamentale?

Dialoghi nelle Scienze umane - volume 1
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