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Se in molte culture antiche, in quella greca ma anche in quelle persiana e islamica, l’upupa viene ritenuta una messaggera della divinità, e la sua corona di piume un segno regale, la Bibbia la considera un uccello «immondo», del quale è proibito consumare le carni. Il nome onomatopeico con cui è conosciuta, derivato probabilmente dal suo richiamo, non le ha giovato in campo letterario.
Sfruttando il vocalismo cupo del suo nome i poeti hanno infatti trasformato l’upupa, uccello per lo più diurno, in una funesta abitatrice delle tenebre. Giuseppe Parini, nel Giorno, le fa sbattere le ali nottetempo in compagnia di «gufi e mostri avversi al sole», gettando strida di malaugurio. Del brano sembra ricordarsi Ugo Foscolo nei Sepolcri, quando – nel lamentare la sorte delle spoglie di Parini – immagina un’upupa uscire al chiaro di luna da un teschio, «e svolazzar su per le croci / sparse per la funerea campagna», dove risuona il suo «luttuoso / singulto». A questa tradizione si rifarà più tardi Giosuè Carducci, che in Giambi ed epodi definisce «funebre» l’upupa.