2 - Le opere

Il primo Novecento – L'autore: Luigi Pirandello

2 Le opere

L’inesauribile creatività pirandelliana attraversa tutti i generi letterari, ma appare forte un’ispirazione diretta verso la rappresentazione teatrale. Anche quando la sua destinazione è un’altra, la pagina scritta si anima, il personaggio sembra farsi persona, uscendo dalla carta in cui si sente imprigionato per cercare una vita vera. E così i personaggi e le loro vicende circolano liberamente tra le novelle, i romanzi, le commedie e persino i saggi critici, tornando insistenti come variazioni di uno stesso tema. L’arte, come la vita, non sopporta limiti di genere né forme precostituite.

Le poesie

La passione giovanile per la poesia è l’unica a non aver sèguito nella piena maturità dello scrittore. Pirandello, in ogni caso, compone versi per circa trent’anni, tenendosi sempre lontano dalle correnti poetiche del tempo. Nel rispetto della tradizione, decide infatti di conservare moduli espressivi e forme metriche regolari, in cui si sente, in particolare all’inizio, la presenza di Carducci e della Scapigliatura, e poi anche quella di Dante e Leopardi, Goethe e Heine.
Le principali raccolte poetiche sono: Mal giocondo (1889), Elegie renane (1895), Zampogna (1901), Fuori di chiave (1912).

Le novelle

Ben altro peso ha l’enorme produzione novellistica, la più costante nell’attività letteraria di Pirandello. Meglio del romanzo, la condensazione narrativa della novella permette di sperimentare la caratterizzazione dei personaggi, la tenuta delle situazioni tragicomiche, il manifestarsi di casi della vita ai limiti dell’assurdo.

Novelle per un anno

Scritte a partire dalla metà degli anni Ottanta dell’Ottocento, le novelle vengono poi raccolte da Pirandello in volumi autonomi: il primo, Amori senza amore, è del 1894; seguono Beffe della morte e della vita (1902), Quand’ero matto... (1902), Berecche e la guerra (1919). La sistemazione di un materiale così abbondante subisce continui rimaneggiamenti fino al progetto di Novelle per un anno, pubblicate in 15 volumi fra il 1922 e il 1937.
In questo lavoro lo scrittore assembla un corpo volutamente frammentario e disorganico, privo di una cornice che, come accadeva nella novellistica classica, doni coerenza alla varietà del contenuto. Nemmeno l’idea iniziale di proporre una novella per ogni giorno dell’anno si realizza (anche considerando quelle postume, si arriva solo a 241 racconti). La mancanza di struttura della raccolta non è del resto casuale, ma riflette una visione pirandelliana del mondo come insieme caotico e disgregato.
In molte novelle appare chiara l’influenza del Verismo, reinterpretato però in forma del tutto personale. Descrivendo la società contadina siciliana o l’ambiente della borghesia impiegatizia romana, infatti, Pirandello non si ferma al dato documentario. Il suo è un naturalismo soltanto apparente: in realtà l’obiettivo non è denunciare una determinata realtà sociale, ma osservare la “propria” Sicilia attraverso una lente personale e caricaturale che ne svela però la natura più autentica e profonda.

Nelle novelle, inoltre, la caratterizzazione dei personaggi prevale sulla descrizione del contesto. Da una società spesso appena tratteggiata emergono personaggi eccessivi, volutamente stravolti nelle fattezze del volto e contraddistinti da una gestualità caricaturale. Si delinea così una galleria di maschere, una sfilata di tipi umani varia quanto le infinite forme in cui si presenta la vita.

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I romanzi

Pirandello scrive complessivamente 7 romanzi, che presentiamo seguendo l’ordine cronologico della loro stesura.

L’esclusa

Il primo romanzo, scritto nel 1893 con il titolo Marta Ajala, viene pubblicato a puntate nel 1901 sul quotidiano romano “La Tribuna” e poi rivisto e stampato in volume nel 1927.
L’ influenza di Luigi Capuana (► p. 110) è particolarmente evidente nella denuncia di un ambiente sociale avvelenato da convenzioni arcaiche e provinciali, che fa da sfondo alla figura della giovane protagonista, Marta, una donna intelligente e sensibile accusata ingiustamente di tradimento. Il meccanismo deterministico del racconto naturalista, tuttavia, è qui già messo in dubbio: la causa motrice della narrazione, infatti, è qualcosa di irreale – una colpa inesistente – che ha però conseguenze reali. Al principio di causa-effetto si sostituiscono cioè la fatalità e l’assurdità del caso, l’amara constatazione che le azioni umane hanno esiti imprevedibili e che la menzogna vale più della verità. Fino alla conclusione spiazzante: Marta è perdonata proprio quando diviene davvero un’adultera.

Il turno

Il secondo breve romanzo, scritto nel 1895, viene pubblicato nel 1902. Pirandello abbandona del tutto l’ambientazione naturalista, concentrandosi ancor più sull’idea che sia il caso a dominare le vicende umane. Vi si narra la storia di un giovane pretendente che aspetta il suo “turno” per sposare la donna amata. Smantellando uno dei capisaldi del Naturalismo – l’impersonalità – Pirandello rende visibile la presenza del narratore, come ad avvertire il lettore che qualcuno sta inventando ciò che viene raccontato, e che questa è la “sua” visione delle cose, la “sua” verità. L’oggettività dei fatti è così negata in favore di una visione del reale irriducibilmente soggettiva.

Il fu Mattia Pascal

Il terzo romanzo, il capolavoro di Pirandello, pubblicato nel 1904, verrà analizzato nella seconda parte dell’Unità (► p. 610).

I vecchi e i giovani

Pubblicato in parte nel 1909 e poi in modo completo nel 1913, I vecchi e i giovani rappresenta per certi versi un passo indietro nel percorso pirandelliano di rinnovamento del genere romanzesco. L’autore sceglie infatti la narrazione eterodiegetica, quella cioè in cui il narratore non è un personaggio della storia (usata anche nel romanzo successivo Suo marito), per tracciare un quadro storico delineato entro precise coordinate spazio-temporali. Nella Sicilia post-risorgimentale, sullo sfondo della rivolta popolare dei Fasci siciliani (1891-1894) e dello scandalo politico-finanziario della Banca Romana (uno dei più importanti istituti di credito del tempo, cardine dei fenomeni di corruzione che accompagnano il disordinato sviluppo edilizio della capitale fin dagli anni Ottanta dell’Ottocento), si svolgono le vicende della famiglia Laurentano e di una fitta serie di personaggi secondari.
Il conflitto generazionale, suggerito dal titolo, tra i vecchi protagonisti del Risorgimento e i giovani corrotti della nuova realtà unitaria viene filtrato da ricordi personali, che compongono una sorta di autobiografia pubblica da cui emerge una lucida analisi della crisi di fine secolo. L’impianto narrativo lascia parlare la Storia come se fosse essa stessa un personaggio carico di esperienze variamente distribuite tra la folla delle comparse. Si tratta dell’unico esempio di romanzo storico pirandelliano.

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Suo marito

Pubblicato nel 1911 e poi ripreso per una riedizione rimasta incompiuta, il romanzo è ambientato a Roma e racconta la storia di una scrittrice, Silvia Roncella (dietro la quale molti hanno voluto riconoscere la figura di Grazia Deledda), che ribalta i tradizionali equilibri della famiglia borghese, relegando il devoto e mediocre marito alla gestione materiale dei propri impegni e successi editoriali. Sullo sfondo emerge la vita letteraria romana, delineata con intenzioni caricaturali come regno della maldicenza e della vacuità.

Quaderni di Serafino Gubbio operatore

Edito nel 1915 con il titolo Si gira…, il romanzo verrà poi rivisto e ripubblicato nel 1925 con il titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore. L’operatore cinematografico Serafino Gubbio racconta in prima persona, in un diario costituito da sette quaderni, la straniante esperienza vissuta dietro la macchina da presa. Ne risulta una testimonianza, problematica e disincantata, di un’aperta diffidenza verso i congegni omologanti della modernità, della quale Serafino-Pirandello dà un’interpretazione lucida e inquietante.

La vicenda narra dell’arrivo di Serafino a Roma e del suo lavoro all’interno di una troupe cinematografica che sta girando un film, di cui fa parte anche l’attore Aldo Nuti, che ha lasciato la fidanzata per seguire l’attrice russa Varia Nestoroff, “donna fatale” di cui si è innamorato. In quest’opera, che è stata definita dal critico Giacomo Debenedetti un «romanzo da fare» poiché gli eventi non sono ricostruiti, come accade di norma, a posteriori, il meccanismo narrativo pare seguire la fredda concatenazione degli ingranaggi di una macchina, sviluppando una serie di riprese fra loro separate e dunque prive di logica consequenziale. L’ultima di queste sequenze (il settimo dei quaderni di Serafino) contiene il tragico epilogo della vicenda: invece che uccidere la tigre portata sul set per girare la scena, Nuti spara alla Nestoroff, prima di essere a sua volta ucciso dall’animale. Serafino, incaricato delle riprese, non smette di filmare: condannato a girare la manovella della cinepresa come un automa alienato, continua a registrare fedelmente la tragica scena fuori copione ma, per lo shock subito, rimane muto. Contro l’alienazione e la mercificazione della civiltà moderna, simboleggiata appunto dalla condizione esistenziale del protagonista, l’unica risposta possibile proposta dallo scrittore sembra essere il silenzio.

Uno, nessuno e centomila

Dopo una pausa decennale in cui Pirandello si dedica prevalentemente al teatro, nel 1926 esce il suo romanzo “testamentario” («c’è la sintesi completa di tutto ciò che ho fatto e che farò», dice l’autore), che conclude e insieme inaugura una forma narrativa ormai totalmente “frantumata”.

La vicenda prende avvio da un episodio di estrema banalità di cui è protagonista Vitangelo Moscarda: una mattina, mentre si guarda allo specchio, scopre, per un’osservazione della moglie, che il suo naso non è dritto, come egli aveva sempre creduto che fosse, ma pende leggermente a destra. Il fatto, di per sé privo di importanza, dà luogo a una vera e propria crisi d’identità del personaggio, che si rende conto di non essere “uno”, ma “centomila” – e quindi in definitiva “nessuno” – a seconda della prospettiva da cui lo osservano gli altri.

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Da una semplice constatazione, in altre parole, scaturisce una crisi esistenziale che porta Vitangelo a compiere gesti folli, volti a cancellare ricordi, esperienze e persino il nome che lo identifica. Dopo aver liquidato i suoi beni ed essere stato abbandonato dalla moglie, egli finisce con il vivere in un ospizio, senza più un nome e un’identità definita. Considerato pazzo dagli altri, si sente in realtà finalmente felice: abbandonata la civiltà, con le sue forme e le sue convenzioni, si trova per la prima volta immerso nel fluire continuo della vita e nella natura.

Il teatro

Pirandello scrive per il teatro fin dagli anni giovanili, ma le sue prime opere sono rappresentate soltanto nel 1910, anno in cui vanno in scena al Teatro Minimo di Nino Martoglio, a Roma, i due atti unici La morsa e Lumìe di Sicilia. Da questo momento in poi la sua attività drammaturgica diviene intensissima, attraversando diverse fasi stilistiche.

Gli esordi: oltre il dramma borghese

La verosimiglianza naturalistica delle situazioni sentimentali e tragiche rappresentate dal teatro allora in voga è fin dall’inizio messa in discussione da Pirandello. Dopo una prima esperienza regionale in dialetto siciliano, lo scrittore torna alla lingua italiana e mostra di voler spingere fino al paradosso e all’assurdo i temi consolidati del teatro borghese dell’epoca, portandoli allo scoperto e, così facendo, denunciandone la vacuità. Oltre ai due atti unici già citati, appartengono a questo periodo lavori come Pensaci, Giacomino! e Liolà (1916), Così è (se vi pare) (1917), ma anche La giara (1916) e La patente (1918), trasposizioni di sue celebri novelle.

Commedia in tre atti scritta nel 1916, Così è (se vi pare), tratta dalla novella La signora Frola e il signor Ponza, suo genero, mette in scena la vicenda di una strana famiglia composta da tre persone che si trasferisce in un piccolo paese di provincia, scatenando un coro di chiacchiere e pettegolezzi. Il signor Ponza vive in un appartamento con la seconda moglie, mentre la madre della prima, la signora Frola, è relegata al piano sottostante e costretta a comunicare con la moglie del signor Ponza, che è convinta sia sua figlia, per mezzo di bigliettini calati in un paniere dalla finestra. O meglio, questa è la verità del signor Ponza, il quale, incalzato dalla curiosità dei vicini, afferma che la suocera è diventata pazza dopo la morte della figlia, e che pertanto egli cerca di farle credere che sia ancora viva, assecondandone l’illusione con la complicità della seconda moglie.
Ma ognuno ha la sua verità da raccontare. Molto diversa, infatti, è la versione della signora Frola, che senza dubbi sostiene che la moglie del signor Ponza è sua figlia e accusa il genero di essere un marito a tal punto geloso e possessivo da volere la donna tutta per sé, tenendola isolata dal resto del mondo. L’unica a poter far luce sulla questione è la signora Ponza, che verso la fine della rappresentazione fa la sua apparizione coperta da un velo, simbolo dell’impossibilità di raggiungere la verità: invece di una rivelazione definitiva, infatti, la donna dice semplicemente «Per me, io sono colei che mi si crede», lasciando lo spettatore nella completa incertezza sulla reale identità dei personaggi.

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Il teatro del grottesco (1917-1925)

Gli elementi caricaturali già presenti nei primi drammi diventano a poco a poco un tratto stilistico inconfondibile del teatro pirandelliano: è l’approdo al teatro del grottesco che, con Il piacere dell’onestà (1917) e Il giuoco delle parti (1918), ribalta i principi del teatro borghese in modo drastico e provocatorio, adottando soluzioni formali che infrangono le regole del naturalismo, della verosimiglianza della storia e della finzione teatrale. Sulla scena affiora un mondo stravolto e deformato, in cui i personaggi sono privi di una psicologia coerente: scissi e contraddittori, ingabbiati anch’essi in forme assurde, come le vicende in cui si trovano ad agire. Anche il linguaggio sembra non razionale, diventa frammentato, specchio di una condizione esistenziale come sospesa nel vuoto.
Antonio Gramsci ha definito queste opere «bombe a mano che scoppiano nei cervelli degli spettatori», sconvolgendo pensieri e sentimenti stereotipati. Fanno parte di questa fase anche drammi come Ma non è una cosa seria (1918), L’uomo, la bestia e la virtù (1919), Tutto per bene (1920), Come prima meglio di prima (1920).

Nella commedia Il giuoco delle parti del 1918, tratta dalla novella Quando si è capito il giuoco, troviamo un marito, una moglie e l’amante: il tradizionale motivo del triangolo amoroso e del tradimento è però deformato e contorto, fino a renderne evidente l’assurdità. Leone Gala, dall’alto del suo atteggiamento intellettuale e cinico da filosofo, osserva distaccato il comportamento frivolo della moglie Silia e del suo amante Guido Venanzi, personaggio insignificante che vive all’ombra degli altri due.
Recitando in modo consapevole la parte del marito tradito, Leone concede alla moglie di divertirsi con Guido, senza mostrare alcuna gelosia, e anzi favorendone la relazione. La moglie, stanca della razionalità indifferente del marito, chiede all’amante di ucciderlo, ma questi si rifiuta. Quando si presenta l’occasione di difendere l’onore di Silia in un duello, Leone accetta di farlo, in qualità di marito pro forma, ma tocca all’amante combattere realmente contro il celebre spadaccino Miglioriti, visto che di fatto è lui l’uomo di Silia. Ognuno è costretto a recitare la propria parte fino in fondo. Guido Venanzi rimane ucciso nel duello, Leone, gustato l’amaro sapore di una vendetta cinica, si chiude in un cupo silenzio: la razionalità che svaluta i sentimenti non salva la vita né cancella la sofferenza umana.
Il tema del delitto d’onore viene sfruttato da Pirandello per smontare il meccanismo del teatro borghese e sancire l’impossibilità di arginare l’ondata delle passioni, che prevalgono sulla ragione, costringendo i personaggi ad annientarsi l’un l’altro e ad accettare un comune destino di infelicità.

Il teatro nel teatro

Una vera e propria rivoluzione è segnata dalla prima storica rappresentazione di Sei personaggi in cerca d’autore, nel 1921, opera metateatrale che, insieme a Ciascuno a suo modo (1924) e Questa sera si recita a soggetto (1930), compone la cosiddetta trilogia del «teatro nel teatro». A questa fase può essere accostato anche l’Enrico IV (1922), dramma in cui la confusione tra vita e teatro si allarga fino a divenire caotica sovrapposizione tra normalità e follia.

La celebre commedia del 1921 Sei personaggi in cerca d’autore non è divisa in atti e scene, ma presenta due interruzioni apparentemente casuali (in realtà perfettamente inserite nell’artificio del teatro nel teatro). Mentre una compagnia sta provando una commedia di Pirandello (Il giuoco delle parti) entrano in scena sei personaggi misteriosi: il Padre, la Madre, il Figlio, la Figliastra, un Giovinetto e una Bambina.

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Abbandonati da un autore allo stadio iniziale, essi aspirano alla compiutezza formale dell’arte e a ottenere corpo e voce: sono in cerca di qualcuno che scriva il loro dramma, ancora solo abbozzato, e di attori che li impersonino. La loro è una storia a tinte forti, tipica del teatro ottocentesco: la Madre, dopo aver partorito il Figlio, viene spinta dal Padre a formarsi una nuova famiglia con il suo segretario; nascono altri tre figli, la Figliastra, il Giovinetto e la Bambina. Dopo molti anni il Padre si trova in una casa di appuntamenti; proprio mentre sta per avere, inconsapevolmente, una relazione incestuosa con la Figliastra, viene fermato dalla Madre, sconvolta dal duplice orrore di trovare la figlia in quel luogo e in compagnia dell’ex marito.
A questo punto la rappresentazione si interrompe per poi riprendere in un giardino, in cui la Madre scopre il corpo della Bambina affogata in una vasca e scorge il Giovinetto che, dopo aver assistito alla scena, si spara. Pur riluttante, il Capocomico della compagnia che sta provando lo spettacolo interrotto accetta di trarre una pièce da questa vicenda, ma equivoci e difficoltà d’ogni tipo ne ostacolano la messa in scena: il vero dramma dei personaggi diviene perciò quello di non riuscire a vedersi rappresentati “realisticamente” dagli attori, che provano a recitare la storia ma sono continuamente interrotti dai personaggi “veri”, insoddisfatti della performance. Alla fine, tutto rimane allo stadio potenziale di un dramma irrisolto: calato il sipario, ci si accorge dell’impossibilità di fare teatro.

Dramma in tre atti del 1922, Enrico IV è considerato, insieme ai Sei personaggi, il vertice della drammaturgia di Pirandello. Durante una festa in maschera, un giovane gentiluomo, che indossa i panni di Enrico IV, imperatore del Sacro Romano Impero, viene disarcionato dal suo rivale in amore Tito Belcredi. Cadendo da cavallo batte la testa e sprofonda in una follia che lo terrà imprigionato per dodici anni: egli crede di essere davvero il personaggio storico che stava impersonando, e vive assecondato dai suoi servitori in un mondo irreale, fuori dal tempo. Quando all’improvviso rinsavisce, si rende conto di aver perso per sempre la giovinezza e di essere stato defraudato dell’amore della marchesa Matilde Spina, che ora è compagna di Belcredi. Il protagonista decide allora di continuare a recitare la parte a cui tutti ormai da anni lo credono inchiodato, immedesimandosi in una maschera che sostituisce la sua vera identità.
Passano così altri otto anni, quando un giorno Matilde, Belcredi e la figlia Frida, in compagnia di uno psichiatra, tentano di ricostruire la scena della famosa cavalcata nella speranza di dissipare le nebbie della follia del presunto Enrico IV (il cui vero nome non è mai dichiarato). Egli, però, volendo tornare a riappropriarsi di una vita dalla quale aveva scelto di escludersi, rivela la finzione e, spinto da una passione mai sopita per Matilde, abbraccia con slancio Frida, identica alla madre da giovane. Belcredi si avventa su di lui, disgustato dal gesto del suo vecchio rivale, ma Enrico IV estrae la spada e lo ferisce a morte. A questo punto non gli rimane che continuare la recita, tornando a fingersi pazzo, non fosse altro che per sfuggire a un processo e a una condanna per omicidio. La pazzia, però, non è più un gioco, né un’inconsapevole condizione di alienazione mentale, ma una dolorosa necessità.

Dalla caduta nel “pirandellismo” al teatro dei «miti»

Sull’onda del successo mondiale che accompagna le rappresentazioni delle sue commedie, Pirandello successivamente si avvia verso una produzione meno originale, che ripete gli schemi drammaturgici del periodo precedente. La vita che ti diedi (1923), L’amica delle mogli (1926), Diana e la Tuda (1927), Quando si è qualcuno (1933) sono drammi in cui l’autore ripete temi, forme e tecniche.

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Un sostanziale cambiamento di direzione è rappresentato, invece, dagli ultimi progetti teatrali, in cui Pirandello abbandona la riflessione metateatrale e prospetta una fuga totale nel mondo della fantasia e della poesia, approdando a grandi tematiche esistenziali e al «mito», termine che egli stesso usa per definire questi lavori. La nuova colonia (1928), Lazzaro (1929), I giganti della montagna (1930, incompiuto, rappresentato postumo nel 1937), insieme alla Favola del figlio cambiato (1930), musicata dal compositore Gian Francesco Malipiero, portano l’arte di Pirandello alle soglie del Surrealismo. Luoghi immaginari, eventi soprannaturali e simboli irrazionali campeggiano in queste opere, in cui viene meno ogni residuo elemento realistico e l’atmosfera si fa onirica e fantastica. Che si tratti della rappresentazione di un’utopia, cioè di un “mito sociale”, come è nella Nuova colonia, di una nuova fede, cioè di un “mito religioso”, come in Lazzaro, o di una riflessione sull’arte nella società moderna, minacciata dai “giganti” del potere nei Giganti della montagna, il suo realismo allucinato si trasforma in allegoria e in suggestioni mistiche e trascendenti, evocate da un linguaggio lirico ed enigmatico.

I saggi

La produzione saggistica di Pirandello, gli articoli e gli interventi teorici sulle riviste specializzate non presentano, nel complesso, le caratteristiche di rigore e di ampiezza documentaria con cui solitamente vengono redatti studi di questo tipo.
Inaugurata da uno scritto apparso nella rivista “Vita nuova” nel 1890, La menzogna del sentimento nell’arte, la riflessione estetica di Pirandello si esprime soprattutto nel fondamentale saggio L’umorismo.

L’umorismo

Pubblicato nel 1908 e, in una seconda edizione rivista e integrata, nel 1920, L’umorismo non solo costituisce la chiave d’accesso all’opera dell’autore, ma può anche essere considerato il manifesto teorico di una nuova poetica, in netta antitesi con quella del Verismo.
L’opera è divisa in due parti; nella prima l’autore analizza il termine “umorismo” e tratteggia una sorta di storia della letteratura umoristica, cercando di dimostrare che questa particolare attitudine del pensiero e della sensibilità estetica è rintracciabile in ogni epoca; la seconda parte, più strettamente teorica, contiene invece una compiuta definizione dell’arte umoristica: qui si trova la formulazione più dettagliata del concetto pirandelliano, corredata di esempi divenuti celebri, passaggi determinanti per la comprensione della poetica dell’autore.

I colori della letteratura ed. NUOVO ESAME DI STATO - volume 3
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Dal secondo Ottocento a oggi