Il secondo Ottocento – L'autore: Gabriele d’Annunzio

LETTURE critiche

Il velleitarismo del superuomo dannunziano

di Carlo Salinari

Lungi dall’essere effettivamente un eroe destinato al dominio, il superuomo di d’Annunzio è, secondo la lettura del critico marxista Carlo Salinari (1919-1977), la megalomane espressione di un’irrealizzata aspirazione alla grandezza e il frutto di un disegno astratto e intellettualistico destinato a fallire e a indurre stanchezza perfino nell’autore.

Il Superuomo è il punto di arrivo della personalità dannunziana. La critica che ha voluto sbarazzarsene come di un fenomeno astratto, sovrapposto volontaristicamente1 dal D’Annunzio alla sua vera natura, ha creato una frattura che poi non è riuscita né a colmare né a spiegare, ha diviso in due quella personalità con una operazione arbitraria che non ha alcuna spiegazione scientifica, ha ricostruito in modo parziale e monco la linea dell’opera dannunziana.
Se, invece, ci si impegna in un’analisi scientifica e si pone al centro di quell’opera il superuomo, essa, nel suo complesso, non potrà sottrarsi alla caratteristica fondamentale […]: la sproporzione, nel superuomo, fra gli obiettivi e le forze per raggiungerli, tra il desiderio e la realtà, fra la tensione spasmodica della volontà e la sua capacità di concretarsi ed autolimitarsi. Il tratto distintivo del superuomo (e dell’opera dannunziana) apparirà, così, il velleitarismo. Un velleitarismo alimentato nelle cose dal contrasto fra un’illusione storica propria di vasti gruppi d’intellettuali e la realtà italiana. Un velleitarismo che in D’Annunzio si nutre anche del contrasto tra l’infinito proiettarsi della sensualità ed il suo pratico soddisfacimento, fra la tensione dello stile e il raggiungimento dell’espressione, fra l’aspirazione a una posizione europea e le radici culturali abbastanza modeste e superficiali. Voglio dire che quella sproporzione è, innanzi tutto, un fatto storico, reale, che s’incarna nel nazionalismo passionale e retorico […] di cui la megalomania di Crispi2 fu la prima espressione politica. Ed è, inoltre, una caratteristica della sensualità dannunziana imprigionata in una spirale senza fine in cui il vagheggiamento di sempre nuove sensazioni supera continuamente il desiderio e mai lo appaga; è nella struttura intellettuale di D’Annunzio così povera – anche rispetto a Nietzsche – di ragioni ideali, di pathos morale, di polemica culturale; è infine nel suo stile, almeno nei moduli più diffusi e vulgati, in quel lussureggiare d’immagini e di suoni, in quella sovrabbondanza di parole, che crescono e quasi s’inseguono senza mai raggiungere una vera pacificazione nella pienezza espressiva, un vero ritmo, una vera musica.
[…] In lui si determina quel fenomeno che Lukács3 considera caratteristico della poesia decadente: lo smarrimento della differenziazione – nella categoria della possibilità – fra possibilità astratta e concreta. Così i suoi superuomini sono stranamente divisi fra l’altezza degli scopi che si propongono e l’incertezza di poterli raggiungere, fra la tensione spasmodica della volontà e un desiderio di tregua. […]
Da un simile atteggiamento velleitario che investe tutta la personalità di D’Annunzio deriva, dunque, quanto di troppo, di falso, di letterario noi troviamo quasi sempre nella sua opera. Lo sforzo di superare quella proporzione connatura al suo stesso mondo ideale e alla sua stessa sensibilità non può che condurre a una dilatazione artificiosa degli atteggiamenti, delle situazioni, delle immagini, della parole. Ma da quell’atteggiamento velleitario derivano anche i rari momenti di autenticità nella produzione dannunziana. Perché è proprio dalla tensione superomistica che nasce di tanto in tanto un desiderio di quiete, di pausa, di tregua, che non giunge quasi mai alla coscienza della velleità (se questo fosse avvenuto D’Annunzio ci avrebbe dato uno dei motivi più tragici del nostro tempo), ma si manifesta più semplicemente in una sorta di ripiegamento in se stesso e di rifugio nelle memorie dell’infanzia, in un vagheggiamento non più panico ma nostalgico della natura, in una tristezza più umana nutrita d’insoddisfatta delusione, in uno stile da taccuino, modesto e quasi nudo, eppure profondamente musicale. L’allentamento della tensione superomistica, un barlume di coscienza della sua inanità, un atteggiamento di frustrazione è all’origine dei vari momenti in cui D’Annunzio si sottrae a quella sproporzione: delusione e aurorale consapevolezza del proprio velleitarismo che sorgono come antitesi dialettica del superuomo e che, quindi, senza la presenza del superuomo non sarebbero concepibili.


Carlo Salinari, Miti e coscienza del decadentismo italiano, Feltrinelli, Milano 1960

I colori della letteratura ed. NUOVO ESAME DI STATO - volume 3
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Dal secondo Ottocento a oggi