Nel Lampo troviamo ancora gli strumenti tipici dell’impressionismo pascoliano: l’ellissi* dei verbi ai vv. 2-3 e la coordinazione per asindeto* ai vv. 5 (apparì sparì) e 7 (s’aprì
si chiuse), in entrambi i casi senza neanche l’impiego della virgola, scelta che trasmette un ulteriore senso di velocità e immediatezza. La peculiarità della poesia sta però soprattutto nel fatto di essere legata alla vita di Pascoli, per quanto non esplicitato. Le analogie* riferite alla terra (ansante, livida, in sussulto, v. 2) e al cielo (ingombro, tragico,
disfatto, v. 3) e l’ossimoro* tacito tumulto (v. 4) conferiscono un senso di morte e di angoscia. La similitudine* degli ultimi due versi carica ulteriormente il quadro di risvolti inquietanti: la casa che appare grazie al lampo per poi scomparire subito dopo viene paragonata a un occhio che, rapido, si apre e si chiude largo ed esterrefatto, a esprimere il terrore dell’uomo di fronte alle tempeste della vita.
Di chi è quest’occhio? Pascoli non lo rivela nel testo, ma in una prefazione scritta per la terza edizione di Myricae, e poi rimasta inedita, spiega che è quello del padre agonizzante che lancia il suo ultimo sguardo prima di spirare, dopo essere stato colpito dal “lampo” della fucilata: «I pensieri che tu, o padre mio benedetto, facesti in quel momento, in quel batter d’ala […]. Quale intensità di passione! Come un lampo in una notte buia buia: dura un attimo e ti rivela tutto un cielo pezzato, lastricato, squarciato, affannato, tragico; una terra irta piena d’alberi neri che si inchinano e si svincolano, e case e croci».