Il simbolismo

Il secondo Ottocento – L'autore: Giovanni Pascoli

Il simbolismo

Le rapide notazioni e i quadri di vita campestre che Pascoli rappresenta sono il frutto dell’osservazione di una realtà filtrata sempre attraverso le suggestioni del suo universo interiore. In questo modo i suoni, i paesaggi, le cose si caricano nella sua poesia di un sovrasenso simbolico, che può essere colto solo abbandonando la logica ordinata e razionale con cui ci si relaziona alla realtà. I particolari e gli oggetti, anche materiali, rimandano sempre a qualcos’altro di più profondo e ignoto: il poeta può penetrare nell’anima del mondo tramite la propria soggettività e le proprie sensazioni.

Per Pascoli si tratta di ricercare il senso perduto della realtà e del mondo e cogliere, grazie all’intuizione folgorante e non a un’analisi meditata, il frammento che riveli la totalità, l’immagine che riassuma una verità universale. Il simbolo naturalmente non è esplicitato in termini razionali: il significato della poesia si afferra mediante le associazioni suggerite dai suoni, la rispondenza evocativa delle immagini, l’esistenza di una dimensione nascosta.

Del resto il poeta non è tenuto a illustrare o commentare il contenuto dei suoi testi, per quanto arcano esso sia: egli – annota Pascoli in uno scritto del 1895 – «non s’impanca a dir tutto, a dichiarar tutto, a spiegar tutto, come un cicerone che parlasse in versi; ma lascia che il lettore pensi e trovi da sé». Sta al lettore afferrare i sensi riposti, comprendere le allusioni cifrate e cogliere l’impalpabile verità del mondo, che non proviene dalla concretezza degli elementi descritti, ma dalle possibilità dell’animo di riconoscere aspetti che «sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione».
Per questo nella poesia di Pascoli troviamo un affollato repertorio di ombre e di morti, di misteriosi e arcaici strumenti musicali (basti pensare ai «sistri», che compaiono nell’Assiuolo, in Myricae, ► T9, p. 336), di sottintesi analogici («La Chioccetta per l’aia azzurra / va col suo pigolìo di stelle» che leggiamo nel Gelsomino notturno, ► T3, p. 307), fino alle prolungate sequenze di ardite sinestesie («Venivano soffi di lampi», per esempio, nell’Assiuolo).

A prima vista, le cose sulle quali si posa lo sguardo del poeta sono minute, quotidiane, semplici, come gli elementi naturali nei quadri degli impressionisti; ma questa attenzione per il dettaglio, ereditata da una formazione positivista, non ha lo scopo di illustrare oggettivamente la realtà, per quanto essa sia nominata con estrema precisione. Per fare degli esempi, tra gli uccelli che incontriamo nei suoi versi ci sono rondini, pettirossi, capinere, cuculi, fringuelli, assiuoli, puffini, cinciallegre..., e tra i fiori e le piante troviamo mandorli, biancospini, viburni, meli, pioppi, gelsomini, digitali, acanti, tamerici...
Pascoli tende però a riferirsi alle cose non per come sono, ma per come le sente e le vede mediante un’«ottica rovesciata» (Bàrberi Squarotti) e visionaria che scruta al di là del fenomeno, alterando prospettive, rapporti e proporzioni. Dunque, se a prima vista può sembrare che gli elementi della natura siano rappresentati con realismo, essi tuttavia non vanno considerati in sé, bensì all’interno dei nessi emozionali che li legano alla dimensione interiore dell’io poetico. Dunque il poeta non ha interesse a perlustrare e registrare la varietà superficiale della natura: suo compito è invece quello di percepire «non so quali raggi X che illuminano a lui solo le parvenze velate e le essenze celate», leggendo il mondo come la foresta di simboli già immaginata da Baudelaire.

I colori della letteratura ed. NUOVO ESAME DI STATO - volume 3
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Dal secondo Ottocento a oggi