Il «nido»

Il secondo Ottocento – L'autore: Giovanni Pascoli

Il «nido»

Traumatizzato dai lutti familiari, Pascoli tenta di trovare sicurezza, conforto e protezione dalle minacce del mondo esterno negli affetti familiari, negli ambienti e nelle atmosfere più intime e care. Le immagini più ricorrenti della sua poesia evidenziano non a caso una costante opposizione interno-esterno: al primo elemento sono associate le sensazioni di calore, dolcezza, purezza e amore, al secondo quelle di freddo, dolore, paura e morte.
Il desiderio di un mondo semplice e senza violenza, legato ai valori contadini, lo porta a osservare con terrore la civiltà industriale e la società di massa urbanizzata: secondo Pascoli il progresso di stampo positivistico, invece che garantire sicurezza all’uomo, lo ha esposto a nuovi pericoli, rendendolo piccolo e smarrito. Guardando alle tensioni del tempo presente il poeta scrive «Non c’è più la tranquilla immobilità», e definisce la scienza «crudele e inopportuna», perché colpevole di aver attentato alle illusioni dei sogni, al piacevole inganno della fede (Pascoli non crede in Dio, ma non sa rinunciare alla sua immagine) e alla felice ingenuità degli uomini: «Oh! Tu sei fallita, o scienza: ed è bene: ma sii maledetta». L’unica possibilità per conservare la propria integrità e salvare l’innocenza consiste per lui nel regredire all’età dell’oro dell’infanzia, mitico tempo sereno, non ancora toccato dalle inquietudini della modernità e della vita adulta.

La fondamentale custode di questo piccolo “mondo-giardino” degli affetti è la madre: la sua immagine costituisce, nell’universo psichico e poetico di Pascoli, il nume rassicurante dei luoghi più protetti, del «nido» e del camposanto. Il «nido» è il luogo della ricomposizione dell’unità familiare, lo spazio chiuso che permette il riparo dalla società brutale e inospitale; il camposanto («casa unica di mia gente e mia») rappresenta il recinto del culto dei morti, lì dove è possibile ripristinare, su un piano illusorio, l’intimo colloquio con ciò che nella realtà si è perduto per sempre. Di questa perdita Pascoli tenta di trovare disperatamente un risarcimento: se la morte significa distruzione della vita, della casa e degli affetti, il mito del «nido» nasce come un tentativo di opporsi alla loro fragilità e alla loro rovina.

Nessuno deve interferire in questo universo difensivo e primigenio, che il poeta-fanciullo cerca di rivivere e rendere eterno attraverso il canto. La madre stessa è quindi simbolo del «nido»: è il ventre, la culla, il focolare, la casa, la garante, cioè, del rapporto con la terra misteriosa, che governa la vita con i suoi cicli eterni. È la madre che simboleggia la felicità dell’infanzia, non ancora toccata dalla conoscenza del male, e al tempo stesso la sopravvivenza degli unici vincoli possibili per l’uomo: quelli del sangue e della discendenza. Per questo, la madre costituisce una sorta di divinità-guida nella sfera degli affetti: la sua morte coincide con una perdita irreparabile e con un lutto che non può conoscere riparazione. La violazione del «nido» comporta dunque la scoperta di tutto ciò che di spaventoso e letale sta “fuori” di esso.

La rievocazione della condizione protetta dell’infanzia cura il dolore e l’angoscia della vita vissuta tra gli adulti. Perduto il padre e privo della tutela genitoriale, il figlio Giovanni si sente un orfano condannato allo sradicamento: grazie alla poesia può però viaggiare a ritroso e ritrovare nella memoria una luce pallida che lo conforta, che lo assiste e lo culla, rassicurandolo di fronte alle difficoltà dell’esistenza.

La situazione reale del poeta è infatti quella dell’incertezza, dello smarrimento, della paura; non a caso, come ha notato il poeta Vito Bonito, nella poesia pascoliana troviamo tante voci inarticolate e tanti segni di una regressione all’infanzia degli esseri viventi: il vagito del neonato, il belato dell’agnello, il pigolio dell’uccellino.

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Si tratta di suoni più che di parole, quasi di voci pre-verbali: tra una ninna nanna e una cantilena funebre, tra un canto che si apre alla vita (i «canti di culla» che troviamo nella poesia La mia sera) e uno che prepara la morte, una continua onomatopea (non a caso, la figura retorica più frequente nelle poesie pascoliane) accompagna il viaggio del poeta nei respiri, nei bisbigli, nei lamenti e nelle grida che si percepiscono nel cielo, nelle cose, nella natura prima che svaniscano nel nulla, perduti per sempre.

D’altronde il ricordo della lontana e intima felicità infantile non consola il poeta: l’impossibilità di concretizzarla nel presente, di riproporla cioè nella realtà (come Pascoli ha tentato di fare ricostruendo un “secondo” «nido» con le sorelle), aumenta il rimpianto di non poter più abitare in quel paradiso perduto. «Io voglio che tu mi pettini come una volta», scrive rivolgendosi alla madre; ma il desiderio è destinato a scontrarsi con la vanità di ogni speranza di ricongiungimento. L’incontro con il passato non può avvenire su questa terra, ma solo al di là dello spazio e del tempo, nell’immaginazione e soprattutto nel sogno, l’unica “realtà” dove il colloquio con le anime e con i morti è ancora possibile.

 T2 

La mia sera

Canti di Castelvecchio


Composta nel 1900 e pubblicata lo stesso anno sulla rivista “Il Marzocco”, La mia sera è la descrizione della fine di una giornata di pioggia, quando ogni cosa sembra risvegliarsi a nuova vita. E come la sera è attraversata da dolci suoni e voli di rondini, così anche la vecchiaia del poeta sembra consolata dai voli della fantasia e del ricordo, che acuiscono in lui il desiderio di addormentarsi come quando era bambino, di sentire la presenza della madre chinata a dargli il bacio della buonanotte e poi di immergersi nel sonno.


METRO Cinque strofe composte da 7 novenari e 1 senario, che si chiude sempre con la parola sera. Le rime sono alternate secondo lo schema ABABCDCd.

        Il giorno fu pieno di lampi;
        ma ora verranno le stelle,
        le tacite stelle. Nei campi
        c’è un breve gre gre di ranelle.
5     Le tremule foglie dei pioppi
        trascorre una gioia leggiera.
        Nel giorno, che lampi! che scoppi!
        Che pace, la sera!

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        Si devono aprire le stelle
10   nel cielo sì tenero e vivo.
        Là, presso le allegre ranelle,
        singhiozza monotono un rivo.
        Di tutto quel cupo tumulto,
        di tutta quell’aspra bufera,
15   non resta che un dolce singulto
        nell’umida sera.

        È, quella infinita tempesta,
        finita in un rivo canoro.
        Dei fulmini fragili restano
20   cirri di porpora e d’oro.
        O stanco dolore, riposa!
        La nube nel giorno più nera
        fu quella che vedo più rosa
        nell’ultima sera.

25   Che voli di rondini intorno!
        che gridi nell’aria serena!
        La fame del povero giorno
        prolunga la garrula cena.
        La parte, sì piccola, i nidi
30   nel giorno non l’ebbero intera.
        Né io… e che voli, che gridi,
        mia limpida sera!

        Don… Don… E mi dicono, Dormi!
        mi cantano, Dormi! sussurrano,
35   Dormi! bisbigliano, Dormi!
        là, voci di tenebra azzurra…
        Mi sembrano canti di culla,
        che fanno ch’io torni com’era…
        sentivo mia madre… poi nulla…
40   sul far della sera.

      Dentro il testo

I contenuti tematici

Dopo un giorno di tempesta, con la sera sopraggiunge la quiete e una gioia tranquilla e leggiera (v. 6) pare contagiare la natura. Nella calma ritrovata, il poeta rivive le vicende dolorose del proprio passato, ora decantate in una serenità nuova, finalmente assaporata al tramonto di una vita segnata da tanti dolori.
Tutta la lirica è strutturata su questo confronto – l’infuriare degli elementi durante il giorno e il placarsi della tempesta nella pace della sera – che sottintende a sua volta il confronto riguardante l’esistenza del poeta, tra la giovinezza inquieta e la vecchiaia finalmente serena. Così il componimento sviluppa, al di là dell’apparenza di bozzetto idillico, un’intensa meditazione autobiografica. Non a caso, la sera è per il poeta un possesso esclusivo: quella cantata da Pascoli è la “sua” sera, vale a dire la “sua” vita che, nell’estremo ritorno all’innocenza infantile, gli permette di abbandonarsi al sonno, alla quiete e all’oblio del dolore e del male.

 >> pag. 304 

Al tempo stesso, il costante sottofondo del suono delle campane (Don… Don…, v. 33), quasi assorbito nella dimensione naturale della campagna, e l’anafora* del Dormi (come una nenia, un’eco cullante della voce delle campane) preparano prima il ricongiungimento del poeta con la madre e con l’infanzia, poi lo sprofondamento nel sonno, quasi a dire nel nulla, nell’abisso riservato al destino umano.

Le scelte stilistiche

Nel gioco di rimandi tra immagini concrete e significati simbolici, La mia sera offre un esempio tra i più efficaci dell’espressività poetica pascoliana. Lo stacco tra passato e presente è suggerito subito nel primo verso, dove il verbo al passato remoto (fu) e il punto e virgola segnano una cesura netta con i versi successivi: all’agitazione della tempesta subentra l’inerzia pacata della sera, sulla quale pare coricarsi la luce delle stelle (vocabolo che Pascoli ripete due volte – le stelle, le tacite stelle, vv. 2-3 –, come a indugiare sul loro atteso sopraggiungere).
La gioia, appena accennata, per la pace serale è indotta dal gracidio delle rane (poi chiamate allegre ranelle, v. 11), dal tessuto di suoni reso armonico grazie al ricorrere della e e della r (tremule, trascorre, leggiera, vv. 5-6, fino alla parola chiave sera, v. 8), dalla lieve brezza che fa tremare le foglie, dall’analogia* sottintesa tra le stelle nel cielo, che Si devono aprire (v. 9), e le corolle dei fiori su un prato.

Come l’uomo, abituato al pianto per le sofferenze patite, anche la natura non dimentica il proprio turbamento e, ora che la tempesta è passata, il suo dolce singulto (v. 15) rivela ancora una sottile inquietudine; d’altro canto, la sera (vale a dire, metaforicamente, la vecchiaia) suggerisce al poeta di guardare con maggiore distacco ai dolori vissuti: La nube nel giorno più nera / fu quella che vedo più rosa / nell’ultima sera (vv. 22-24). Ma questo non è l’unico richiamo autobiografico che è possibile cogliere sotto la superficie della descrizione naturalistica di un momento del giorno. Anzi, si può dire che in questa seconda parte del componimento l’esperienza personale si mostra chiaramente.
Alla fine della terza strofa Pascoli esprime la propria stanchezza, cercando nella sera il riposo che le sofferenze della vita gli hanno precluso (O stanco dolore, riposa!, v. 21). Poi, nella penultima strofa, assistiamo a un altro parallelismo: la vita del poeta viene infatti assimilata alla giornata, priva di cibo, vissuta dalle piccole rondini, alle quali si allude per metonimia* (i nidi, v. 29). Anche il poeta, come loro, non ha avuto nel corso degli anni la porzione di felicità che gli spettava: il reticente Né io… (v. 31) sintetizza la sua autoesclusione dalla vita e la solitudine patita dopo la violazione del «nido»-casa dell’infanzia, privato per sempre del cibo dell’amore.

L’ultima strofa è infine caratterizzata, ma sarebbe meglio dire dominata, dall’evocazione fonosimbolica: l’onomatopea* del suono delle campane e l’insistita allitterazione* (con la ricorrenza della d, accentuata dall’invito Dormi!) creano un’atmosfera di sonnolenza che fa scivolare il soggetto verso l’infanzia e, al tempo stesso, verso il nulla (v. 39, il sonno, la morte). Il tono di voce delle campane si fa sempre più basso; l’anticlimax* dei verbi dicono, cantano, sussurrano, bisbigliano sembra suggerire proprio questa lenta, silenziosa e progressiva discesa verso l’incoscienza.

 >> pag. 305 

L’esperienza di questa immersione è complicata dall’uso simultaneo di una sinestesia* (le voci di tenebra azzurra, v. 36) e di un ossimoro* (l’oscurità è paradossalmente azzurra, come accade al buio del cielo notturno quando sfuma in un imprevedibile chiarore): le voci risucchiano indietro verso il nulla, che è insieme la culla della nascita e il vuoto della fine. Il suono delle campane, innocente ricordo dell’infanzia, diventa allo stesso tempo un sinistro suono di morte.

L’aspetto metrico ribadisce la grande originalità della poesia di Pascoli, il quale, pur mantenendosi all’interno di schemi consolidati, scompone e reinterpreta con grande libertà le forme chiuse della tradizione. Qui fa uso di novenari e di senari: si tratta già di una scelta per molti versi innovativa, dal momento che di solito si privilegiano l’endecasillabo e il settenario. Ma l’aspetto più importante è legato alla modalità, assolutamente personale, con cui il poeta utilizza questi metri. Il novenario, per esempio, presenta un’accentazione alquanto variata, che ritmicamente produce scansioni diverse: alcuni versi si aprono con l’accento tonico sulla prima sillaba (, presso le allegre ranelle, v. 11), altri sulla seconda (singhiozza monotono un rivo, v. 12). Inoltre la presenza delle cesure determina la frattura del verso: il v. 3, le tacite stelle. Nei campi, più che un novenario, è la somma di un senario (le tacite stelle) e un trisillabo (Nei campi).
Una disgregazione delle forme canoniche ancora più evidente è operata poi dalle esclamazioni: il v. 7, Nel giorno, che lampi! che scoppi!, per esempio, è interrotto da pause continue, per cui il metro non si concilia più con la sintassi (in questo caso, nominale). La stessa cosa può dirsi per l’ultima strofa, dove l’unità metrica è ostacolata da molteplici fratture, determinate ancora da esclamativi, ma anche da virgole e puntini di sospensione. Infine vanno segnalati i due versi sdruccioli* (vv. 19 e 34): la loro sillaba finale (re-sta-no; sus-sur-ra-no) viene conteggiata come parte del verso seguente, che così da ottonario diventa anch’esso novenario.

      Verso le competenze

COMPRENDERE

1 Dai un titolo a ogni strofa della poesia.


2 Fai la parafrasi del testo.

ANALIZZARE

3 Individua le antitesi presenti nel componimento (per esempio, i lampi e le stelle dei vv. 1-2).


4 Spiega perché voci di tenebra azzurra (v. 36) è una sinestesia.


5 Inserisci nella tabella le parole chiave appartenenti ai campi semantici relativi al giorno e alla sera.


Giorno
Sera










INTERPRETARE

6 La mia sera è uno dei componimenti in cui Pascoli più chiaramente mette in pratica gli enunciati teorici del Fanciullino. Motiva questa affermazione facendo opportuni riferimenti al testo.

PRODURRE

7 Il tema della sera è un motivo su cui si è soffermato Ugo Foscolo nel sonetto Alla sera. In un testo espositivo di circa 30 righe evidenzia analogie e differenze con La mia sera di Pascoli, prendendo in considerazione gli aspetti metrici, contenutistici e stilistici.


I colori della letteratura ed. NUOVO ESAME DI STATO - volume 3
I colori della letteratura ed. NUOVO ESAME DI STATO - volume 3
Dal secondo Ottocento a oggi