T5 - La morte di Gesualdo (Mastro-don Gesualdo)

Il secondo Ottocento – L'autore: Giovanni Verga

 T5 

La morte di Gesualdo

Mastro-don Gesualdo, IV, cap. 5


Riportiamo le pagine finali del romanzo. Gesualdo, nel palazzo ducale del genero, assiste impotente e rassegnato al disfacimento di tutto ciò che ha costruito. Abbandonato dai familiari, rifiutato dalla nobiltà, egli vorrebbe almeno stabilire un dialogo sincero con la figlia Isabella. Ma ciò non è possibile e la fine è straziante e spietata.

[...] Talché don Gesualdo scendeva raramente dalla figliuola. Ci si sentiva a disagio
col signor genero; temeva sempre che ripigliasse l’antifona1 dell’alter ego. Gli mancava
l’aria, lì fra tutti quei ninnoli. Gli toccava chiedere quasi licenza al servitore
che faceva la guardia in anticamera per poter vedere la sua figliuola, e scapparsene
5 appena giungeva qualche visita. L’avevano collocato in un quartierino al pian di
sopra, poche stanze che chiamavano la foresteria, dove Isabella andava a vederlo
ogni mattina, in veste da camera, spesso senza neppure mettersi a sedere, amorevole
e premurosa, è vero, ma in certo modo che al pover’uomo sembrava d’essere
davvero un forestiero. Essa alcune volte era pallida così che pareva non avesse chiuso
10 occhio neppur lei. Aveva una certa ruga fra le ciglia, qualcosa negli occhi, che
a lui, vecchio e pratico del mondo, non andavan punto a genio. Avrebbe voluto
pigliarsi anche lei fra le braccia, stretta stretta, e chiederle piano in un orecchio:
«Cos’hai?… dimmelo!… Confidati a me che dei guai ne ho passati tanti, e non
posso tradirti!».
15 Ma anch’essa ritirava le corna come fa la lumaca. Stava chiusa, parlava di rado
anche della mamma, quasi il chiodo le fosse rimasto lì, fisso… accusando lo stomaco
peloso dei Trao,2 che vi chiudevano il rancore e la diffidenza, implacabili!

Perciò lui doveva ricacciare indietro le parole buone e anche le lagrime, che
gli si gonfiavano grosse grosse dentro, e tenersi per sé i propri guai. Passava i
20 giorni malinconici dietro l’invetriata,3 a veder strigliare i cavalli e lavare le carrozze,
nella corte vasta quanto una piazza. Degli stallieri, in manica di camicia e
coi piedi nudi negli zoccoli, cantavano, vociavano, barattavano delle chiacchiere
e degli strambotti4 coi domestici, i quali perdevano il tempo alle finestre, col
grembialone sino al collo, o in panciotto rosso, strascicando svogliatamente uno
25 strofinaccio fra le mani ruvide, con le barzellette sguaiate, dei musi beffardi di
mascalzoni ben rasi e ben pettinati che sembravano togliersi allora una maschera.
I cocchieri poi, degli altri pezzi grossi, stavano a guardare, col sigaro in bocca
e le mani nelle tasche delle giacchette attillate, discorrendo di tanto in tanto
col guardaportone che veniva dal suo casotto a fare una fumatina, accennando
30 con dei segni e dei versacci alle cameriere che si vedevano passare dietro le invetriate
dei balconi, oppure facevano capolino provocanti, sfacciate, a buttar giù
delle parolacce e delle risate di male femmine con certi visi da Madonna. Don
Gesualdo pensava intanto quanti bei denari dovevano scorrere per quelle mani;

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tutta quella gente che mangiava e beveva alle spalle di sua figlia, sulla dote che
35 egli le aveva dato, su l’Alìa e su Donninga,5 le belle terre che aveva covato cogli
occhi tanto tempo, sera e mattina, e misurato col desiderio, e sognato la notte,
e acquistato palmo a palmo, giorno per giorno, togliendosi il pane di bocca: le
povere terre nude che bisognava arare e seminare; i mulini, le case, i magazzini
che aveva fabbricato con tanti stenti, con tanti sacrifici, un sasso dopo l’altro. La
40 Canziria, Mangalavite, la casa, tutto, tutto sarebbe passato per quelle mani. Chi
avrebbe potuto difendere la sua roba dopo la sua morte, ahimé, povera roba! Chi
sapeva quel che era costata? Il signor duca, lui, quando usciva di casa, a testa alta,
col sigaro in bocca e il pomo del bastoncino nella tasca del pastrano, fermavasi
appena a dare un’occhiata ai suoi cavalli, ossequiato come il Santissimo Sagramento,
45 le finestre si chiudevano in fretta, ciascuno correva al suo posto, tutti a
capo scoperto, il guardaportone col berretto gallonato6 in mano, ritto dinanzi
alla sua vetrina, gli stallieri immobili accanto alla groppa delle loro bestie, colla
striglia appoggiata all’anca, il cocchiere maggiore, un signorone, piegato in due a
passare la rivista e prendere gli ordini: una commedia che durava cinque minuti.
50 Dopo, appena lui voltava le spalle, ricominciava il chiasso e la baraonda, dalle finestre,
dalle arcate del portico che metteva alle scuderie, dalla cucina che fumava
e fiammeggiava sotto il tetto, piena di sguatteri vestiti di bianco, quasi il palazzo
fosse abbandonato in mano a un’orda famelica, pagata apposta per scialarsela7
sino al tocco della campana che annunziava qualche visita – un’altra solennità
55 anche quella. – La duchessa certi giorni si metteva in pompa magna ad aspettare
le visite come un’anima di purgatorio.8 Arrivava di tanto in tanto una carrozza
fiammante; passava come un lampo dinanzi al portinaio, che aveva appena il
tempo di cacciare la pipa nella falda del soprabito e di appendersi alla campana;9
delle dame e degli staffieri in gala sguisciavano frettolosi sotto l’alto vestibolo, e
60 dopo dieci minuti tornavano ad uscire per correre altrove a rompicollo; proprio
della gente che sembrava presa a giornata per questo. Lui invece passava il tempo
a contare le tegole dirimpetto, a calcolare, con l’amore e la sollecitudine del suo
antico mestiere,10 quel che erano costate le finestre scolpite, i pilastri massicci, gli
scalini di marmo, quei mobili sontuosi, quelle stoffe, quella gente, quei cavalli
65 che mangiavano, e inghiottivano il denaro come la terra inghiottiva la semente,
come beveva l’acqua, senza renderlo però, senza dar frutto, sempre più affamati,
sempre più divoranti, simili a quel male che gli consumava le viscere. Quante
cose si sarebbero potute fare con quel denaro! Quanti buoni colpi di zappa,
quanto sudore di villani si sarebbero pagati! Delle fattorie, dei villaggi interi da
70 fabbricare… delle terre da seminare, a perdita di vista…11 E un esercito di mietitori
a giugno, del grano da raccogliere a montagne, del denaro a fiumi da intascare!…
Allora gli si gonfiava il cuore al vedere i passeri che schiamazzavano su
quelle tegole, il sole che moriva sul cornicione senza scendere mai giù sino alle
finestre. Pensava alle strade polverose, ai bei campi dorati e verdi, al cinguettìo
75 lungo le siepi, alle belle mattinate che facevano fumare i solchi!… Oramai!…
oramai!…

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Adesso era chiuso fra quattro mura, col brusìo incessante della città negli orecchi,
lo scampanìo di tante chiese che gli martellava sul capo, consumato lentamente
dalla febbre, roso dai dolori che gli facevano mordere il guanciale, a volte, per
80 non seccare il domestico che sbadigliava nella stanza accanto. Nei primi giorni, il
cambiamento, l’aria nuova, forse anche qualche medicina indovinata, per sbaglio,
avevano fatto il miracolo, gli avevano fatto credere di potersi guarire.12 Dopo era
ricaduto peggio di prima. Neppure i migliori medici di Palermo avevano saputo
trovar rimedio a quella malattia scomunicata!13 tal quale come i medici ignoranti
85 del suo paese, e costavano di più, per giunta! Venivano l’uno dopo l’altro, dei dottoroni
che tenevano carrozza, e si facevano pagare anche il servitore che lasciavano
in anticamera. L’osservavano, lo tastavano, lo interrogavano quasi avessero da fare
con un ragazzo o un contadino. Lo mostravano agli apprendisti come il zanni14
fa vedere alla fiera il gallo con le corna, oppure la pecora con due code, facendo
90 la spiegazione con parole misteriose. Rispondevano appena, a fior di labbra, se il
povero diavolo si faceva lecito15 di voler sapere che malattia covava in corpo, quasi
egli non avesse che vederci, colla sua pelle!16 Gli avevano fatto comperare anch’essi
un’intera farmacia: dei rimedi che si contavano a gocce, come l’oro, degli unguenti
che si spalmavano con un pennello e aprivano delle piaghe vive, dei veleni che
95 davano delle coliche più forti e mettevano come del rame nella bocca, dei bagni e
dei sudoriferi che lo lasciavano sfinito, senza forza di muovere il capo, vedendo già
l’ombra della morte da per tutto.
«Signori miei, a che giuoco giuochiamo?», voleva dire. «Allora, se è sempre la
stessa musica, me ne torno al mio paese…».
100 Almeno laggiù lo rispettavano pei suoi denari, e lo lasciavano sfogare, se pretendeva
di sapere come li spendeva per la sua salute. Mentre qui gli pareva d’essere
all’ospedale, curato per carità. Doveva stare in suggezione anche del genero che
veniva ad accompagnare i pezzi grossi chiamati a consulto. Parlavano sottovoce fra
di loro, voltandogli le spalle, senza curarsi di lui che aspettava a bocca aperta una
105 parola di vita o di morte. Oppure gli facevano l’elemosina di una risposta che non
diceva niente, di un sorrisetto che significava addirittura «Arrivederci in Paradiso,
buon uomo!». C’erano persino di quelli che gli voltavano le spalle, come si tenessero
offesi. Egli indovinava che doveva essere qualche cosa di grave, al viso stesso
che facevano i medici, alle alzate di spalle scoraggianti, alle lunghe fermate col
110 genero, e al borbottìo che durava un pezzo fra di loro in anticamera. Infine non si
tenne più. Un giorno che quei signori tornavano a ripetere la stessa pantomima,17
ne afferrò uno per la falda, prima d’andarsene.
«Signor dottore, parlate con me! Sono io il malato, infine! Non sono un ragazzo.
Voglio sapere di che si tratta, giacché si giuoca sulla mia pelle!».
115 Colui invece cominciò a fare una scenata col duca, quasi gli si fosse mancato
di rispetto in casa sua. Ci volle del bello e del buono per calmarlo, e perché non
piantasse lì malato e malattia una volta per sempre. Don Gesualdo udì che gli dicevano
sottovoce:

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«Compatitelo… Non conosce gli usi… È un uomo primitivo… nello stato di
120 natura…». Sicché il poveraccio dovette mandar giù tutto, e rivolgersi alla figliuola,
per sapere qualche cosa.
«Che hanno detto i medici? Dimmi la verità?… È una malattia grave, di’?…».
E come le vide gonfiare negli occhi le lagrime, malgrado che tentasse di cacciarle
indietro, infuriò. Non voleva morire. Si sentiva un’energia disperata d’alzarsi e
125 andarsene via da quella casa maledetta.
«Non dico per te… Hai fatto di tutto… Non mi manca nulla… Ma io non ci
sono avvezzo, vedi… Mi par di soffocare qui dentro…».
Neppur lei non ci stava bene in quella casa. Il cuore glielo diceva, al povero padre.
Sembrava che fossero in perfetto accordo, marito e moglie; discorrevano cortesemente
130 fra di loro, dinanzi ai domestici; il duca passava quasi sempre una mezz’oretta nel salottino
della moglie dopo pranzo; andava a darle il buon giorno ogni mattina, prima
della colazione; per i Morti, a Natale, per la festa di Santa Rosalia,18 e nella ricorrenza
del suo onomastico o dell’anniversario del loro matrimonio, le regalava dei gioielli,
che essa aveva fatto ammirare al babbo, in prova del bene che le voleva il marito.
135 «Ah, ah… capisco… dev’essere costata una bella somma!… Però non sei contenta…
si vede benissimo che non sei contenta…».
Leggeva in fondo agli occhi di lei un altro segreto, un’altra ansietà mortale, che
non la lasciava neppure quand’era vicino a lui, che le dava dei sussulti, allorché udiva
un passo all’improvviso, o suonava ad ora insolita la campana che annunziava il
140 duca; e dei pallori mortali, certi sguardi rapidi in cui gli pareva di scorgere un rimprovero.
Alcune volte l’aveva vista giungere correndo, pallida, tremante come una foglia,
balbettando delle scuse. Una notte, tardi, mentre era in letto coi suoi guai, aveva udito
un’agitazione insolita nel piano di sotto, degli usci che sbattevano, la voce della
cameriera che strillava, quasi chiamasse aiuto, una voce che lo fece rizzare spaventato
145 sul letto. Ma sua figlia il giorno dopo non gli volle dir nulla; sembrava anzi che le
sue domande l’infastidissero. Misuravano fino le parole e i sospiri in quella casa, ciascuno
chiudendosi in corpo i propri guai, il duca col sorriso freddo, Isabella con la
buona grazia che le aveva fatto insegnare in collegio. Le tende e i tappeti soffocavano
ogni cosa. Però, quando se li vedeva dinanzi a lui, marito e moglie, così tranquilli,
150 che nessuno avrebbe sospettato quel che covava sotto, si sentiva freddo nella schiena.
Del resto, che poteva farci? Ne aveva abbastanza dei suoi guai. Il peggio di tutti
stava lui che aveva la morte sul collo. Quand’egli avrebbe chiuso gli occhi tutti gli
altri si sarebbero data pace, come egli stesso s’era data pace dopo la morte di suo
padre e di sua moglie. Ciascuno tira l’acqua al suo mulino. Ne aveva data tanta
155 dell’acqua per far macinare gli altri! Speranza, Diodata,19 tutti gli altri… un vero
fiume. Anche lì, in quel palazzo di cuccagna, era tutto opera sua; e intanto non
trovava riposo fra i lenzuoli di tela fine, sui guanciali di piume; soffocava fra i cortinaggi
e le belle stoffe di seta che gli toglievano il sole. I denari che spendeva per far
andare la baracca, i rumori della corte, il cameriere che gli tenevano dietro l’uscio
160 a contargli i sospiri, insino al cuoco che gli preparava certe brode insipide che non
riusciva a mandar giù, ogni cosa l’attossicava;20 non digeriva più neanche i bocconi
prelibati, erano tanti chiodi nelle sue carni.

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«Mi lasciano morir di fame, capisci!», lagnavasi colla figliuola, alle volte, cogli
occhi accesi dalla disperazione. – Non è per risparmiare… Sarà della roba buona…
165 Ma il mio stomaco non c’è avvezzo… Rimandatemi a casa mia. Voglio chiuder gli
occhi dove son nato!».
[…]

[Gesualdo, sentendo la fine vicina, vuole stilare il testamento. Poi ha un ultimo dialogo
con la figlia.]

Ansimava perché aveva il fiato corto, ed anche per l’emozione. Guardava intorno,
sospettoso, e seguitava ad accennare del capo, in silenzio, col respiro affannato.
Ella pure volse verso l’uscio gli occhi pieni di lagrime. Don Gesualdo alzò la mano
170 scarna, e trinciò una croce in aria,21 per significare ch’era finita, e perdonava a tutti,22
prima d’andarsene.
«Senti… Ho da parlarti… intanto che siamo soli…».
Ella gli si buttò addosso, disperata, piangendo, singhiozzando di no, di no, colle
mani erranti23 che l’accarezzavano. L’accarezzò anche lui sui capelli, lentamente,
175 senza dire una parola. Di lì a un po’ riprese:
«Ti dico di sì. Non sono un ragazzo… Non perdiamo tempo inutilmente». Poi
gli venne una tenerezza. «Ti dispiace, eh?… ti dispiace a te pure?…».24
La voce gli si era intenerita anch’essa, gli occhi, tristi, s’erano fatti più dolci, e
qualcosa gli tremava sulle labbra. «Ti ho voluto bene… anch’io… quanto ho potuto…
180 come ho potuto… Quando uno fa quello che può…».25
Allora l’attirò a sé lentamente, quasi esitando, guardandola fisso per vedere se
voleva lei pure, e l’abbracciò stretta stretta, posando la guancia ispida su quei bei
capelli fini.
«Non ti fo male, di’?… come quand’eri bambina?…».26
185 Gli vennero insieme delle altre cose sulle labbra, delle ondate di amarezza
e di passione, quei sospetti odiosi27 che dei bricconi, nelle questioni d’interessi,
avevano cercato di mettergli in capo. Si passò la mano sulla fronte, per ricacciarli
indietro, e cambiò discorso.
«Parliamo dei nostri affari.28 Non ci perdiamo in chiacchiere, adesso…».
190 Essa non voleva, smaniava per la stanza, si cacciava le mani nei capelli, diceva
che gli lacerava il cuore, che gli pareva un malaugurio, quasi suo padre stesse per
chiudere gli occhi.
«Ma no, parliamone!», insisteva lui. «Sono discorsi serii. Non ho tempo da
perdere adesso». Il viso gli si andava oscurando,29 il rancore antico gli corruscava30
195 negli occhi. «Allora vuol dire che non te ne importa nulla… come a tuo
marito…».

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Vedendola poi rassegnata ad ascoltare, seduta a capo chino accanto al letto,
cominciò a sfogarsi dei tanti crepacuori31 che gli avevano dati, lei e suo marito,
con tutti quei debiti… Le raccomandava la sua roba, di proteggerla, di difenderla:
200 «Piuttosto farti tagliare la mano, vedi!… quando tuo marito torna a proporti di firmare
delle carte!… Lui non sa cosa vuol dire!». Spiegava quel che gli erano costati,
quei poderi, l’Alìa, la Canziria, li passava tutti in rassegna amorosamente; rammentava
come erano venuti a lui, uno dopo l’altro, a poco a poco, le terre seminative, i
pascoli, le vigne; li descriveva minutamente, zolla per zolla, colle qualità buone o
205 cattive. Gli tremava la voce, gli tremavano le mani, gli si accendeva tuttora il sangue
in viso, gli spuntavano le lagrime agli occhi: «Mangalavite, sai… la conosci anche
tu… ci sei stata con tua madre… Quaranta salme32 di terreni, tutti alberati!… ti
rammenti… i belli aranci?… anche tua madre, poveretta, ci si rinfrescava la bocca,
negli ultimi giorni!… 300 migliaia l’anno, ne davano! Circa 300 onze!33 E la Salonia…
210 dei seminati d’oro… della terra che fa miracoli… benedetto sia tuo nonno
che vi lasciò le ossa!…».
Infine, per la tenerezza, si mise a piangere come un bambino.
«Basta», disse poi. «Ho da dirti un’altra cosa… Senti…».
La guardò fissamente negli occhi pieni di lagrime per vedere l’effetto che avrebbe
215 fatto la sua volontà. Le fece segno di accostarsi ancora, di chinarsi su lui supino
che esitava e cercava le parole.
«Senti!… Ho degli scrupoli di coscienza… Vorrei lasciare qualche legato34 a
delle persone35 verso cui ho degli obblighi… Poca cosa… Non sarà molto per te
che sei ricca… Farai conto di essere36 una regalìa che tuo padre ti domanda… in
220 punto di morte… se ho fatto qualcosa anch’io per te…».
«Ah, babbo, babbo!… che parole!», singhiozzò Isabella.
«Lo farai, eh? lo farai?… anche se tuo marito non volesse…».
Le prese le tempie fra le mani, e le sollevò il viso per leggerle negli occhi se
l’avrebbe ubbidito, per farle intendere che gli premeva proprio, e che ci aveva quel
225 segreto in cuore. E mentre la guardava, a quel modo, gli parve di scorgere anche lui
quell’altro segreto,37 quell’altro cruccio nascosto, in fondo agli occhi della figliuola.
E voleva dirle delle altre cose, voleva farle altre domande, in quel punto, aprirle
il cuore come al confessore, e leggere nel suo. Ma ella chinava il capo, quasi avesse
indovinato, colla ruga ostinata dei Trao fra le ciglia, tirandosi indietro, chiudendosi
230 in sé, superba, coi suoi guai e il suo segreto. E lui allora sentì di tornare Motta,
com’essa era Trao,38 diffidente, ostile, di un’altra pasta. Allentò le braccia,39 e non
aggiunse altro.
«Ora fammi chiamare un prete», terminò con un altro tono di voce.40 «Voglio
fare i miei conti con Domeneddio».
235 Durò ancora qualche altro giorno così, fra alternative di meglio e di peggio.41
Sembrava anzi che cominciasse a riaversi un poco, quando a un tratto, una notte,

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peggiorò rapidamente. Il servitore che gli avevano messo a dormire nella stanza
accanto l’udì agitarsi e smaniare prima dell’alba. Ma siccome era avvezzo a quei
capricci, si voltò dall’altra parte, fingendo di non udire. Infine, seccato da quella
240 canzone42 che non finiva più, andò sonnacchioso a vedere che c’era.
«Mia figlia!», borbottò don Gesualdo con una voce che non sembrava più la
sua. «Chiamatemi mia figlia!».
«Ah, sissignore. Ora vado a chiamarla», rispose il domestico, e tornò a coricarsi.
Ma non lo lasciava dormire quell’accidente! Un po’ erano sibili, e un po’ faceva
245 peggio di un contrabbasso, nel russare. Appena il domestico chiudeva gli occhi
udiva un rumore strano che lo faceva destare di soprassalto, dei guaiti rauchi, come
uno che sbuffasse ed ansimasse, una specie di rantolo che dava noia e vi accapponava
la pelle. Tanto che infine dovette tornare ad alzarsi, furibondo, masticando43
delle bestemmie e delle parolacce.
250 «Cos’è? Gli è venuto l’uzzolo44 adesso? Vuol passar mattana!45 Che cerca?».
Don Gesualdo non rispondeva; continuava a sbuffare supino. Il servitore tolse46
il paralume, per vederlo in faccia. Allora si fregò bene gli occhi, e la voglia di
tornare a dormire gli andò via a un tratto.
«Ohi! ohi! Che facciamo adesso?», balbettò grattandosi il capo.

255 Stette un momento a guardarlo così, col lume in mano, pensando se era meglio
aspettare un po’, o scendere subito a svegliare la padrona e mettere la casa
sottosopra. Don Gesualdo intanto andavasi calmando, col respiro più corto, preso
da un tremito, facendo solo di tanto in tanto qualche boccaccia, cogli occhi sempre
fissi e spalancati. A un tratto s’irrigidì e si chetò del tutto. La finestra cominciava
260 a imbiancare.47 Suonavano le prime campane. Nella corte udivasi scalpitare dei
cavalli, e picchiare di striglie48 sul selciato. Il domestico andò a vestirsi, e poi tornò
a rassettare la camera. Tirò le cortine del letto,49 spalancò le vetrate, e s’affacciò a
prendere una boccata d’aria, fumando.
Lo stalliere, che faceva passeggiare un cavallo malato, alzò il capo verso la
265 finestra.
«Mattinata, eh, don Leopoldo?».
«E nottata pure!», rispose il cameriere sbadigliando. «M’è toccato a me questo
regalo!».
L’altro scosse il capo, come a chiedere che c’era di nuovo, e don Leopoldo fece
270 segno che il vecchio se n’era andato, grazie a Dio.
«Ah… così… alla chetichella?…», osservò il portinaio che strascicava la scopa
e le ciabatte per l’androne.
Degli altri domestici s’erano affacciati intanto, e vollero andare a vedere. Di lì a
un po’ la camera del morto si riempì di gente in manica di camicia e colla pipa in
275 bocca. La guardarobiera vedendo tutti quegli uomini alla finestra dirimpetto venne
anche lei a far capolino nella stanza accanto.
«Quanto onore, donna Carmelina! Entrate pure; non vi mangiamo mica… E
neanche lui… non vi mette più le mani addosso di sicuro…».
«Zitto, scomunicato!… No, ho paura, poveretto… Ha cessato di penare».

 >> pag. 176 

280 «Ed io pure», soggiunse don Leopoldo.
Così, nel crocchio, narrava le noie che gli aveva date quel cristiano – uno che faceva
della notte giorno, e non si sapeva come pigliarlo, e non era contento mai. «Pazienza
servire quelli che realmente son nati meglio di noi… Basta, dei morti non si parla».
«Si vede com’era nato…»,50 osservò gravemente il cocchiere maggiore. «Guardate
285 che mani!».
«Già, son le mani che hanno fatto la pappa!…51 Vedete cos’è nascer fortunati…
Intanto vi muore nella battista52 come un principe!…».
«Allora», disse il portinaio, «devo andare a chiudere il portone?».53
«Sicuro, eh! È roba di famiglia. Adesso bisogna avvertire la cameriera della
290 signora duchessa».

      Dentro il testo

I contenuti tematici

Il protagonista della Roba, Mazzarò, vive esclusivamente per i beni materiali, considerati alla stregua di amanti fedeli. Privo di altri affetti e sentimenti, egli trova in essi una sorta di religioso risarcimento della propria solitudine. Senza moglie né figli, non conosce la pietà per il prossimo né l’amore filiale; la sua esistenza è simile a quella di un asceta che non si concede nulla.

Consacratosi a un destino irrevocabile (Quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la roba, rr. 89-90), la sua scelta è premiata dal successo (Ed anche la roba era fatta per lui, r. 91), giusto riconoscimento alla sua dedizione, alla sua energia infaticabile. Alla stregua di un eroe epico o di un cavaliere medievale, Mazzarò ignora infatti le tentazioni e non abbandona mai la vita “povera”, logorando i suoi stivali (rr. 86-87), andando in giro, sotto il sole e sotto la pioggia (r. 86), ossessionato da un unico pensiero: accumulare. In questa spasmodica ricerca, egli non si pone limiti, sempre più ambizioso (voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re, ed esser meglio del re, r. 140).
Quando si avvicina la morte, però, il destino di Mazzarò si capovolge: da vincitore egli si trasforma in vinto. Invidioso della gioventù altrui, seduto malinconicamente col mento nelle mani (r. 145) a guardare le sue terre, egli prorompe in un urlo forsennato («Roba mia, vientene con me!», rr. 153-154) e, con un gesto estremo, al tempo stesso tragico e comico, ammazza a colpi di bastone le sue bestie. Il suo atteggiamento quasi di devozione religiosa verso l’accumulazione dei possedimenti terrieri, forse ritenuti un mezzo per tendere all’eternità, si scontra con il “tradimento” della morte, la quale separa la soggettività del suo io, destinato ormai alla fine, e l’oggettività della roba, che gli sopravvive, indifferente a lui e alla sua logica esistenziale.

Anche in Mastro-don Gesualdo la morte rivela il fallimento della vicenda umana del protagonista: accolto malato e stanco nella dimora della figlia Isabella, egli trascorre gli ultimi giorni come un forestiero (r. 9) oggetto delle ipocrite attenzioni del genero e della fredda indifferenza della figlia, che non gli perdona di averla costretta a un matrimonio infelice al solo fine di garantirsi un titolo nobiliare prestigioso. Perfino i servi lo guardano con disprezzo, invidiosi della scalata sociale realizzata da un uomo dalle origini umili come le loro.

 >> pag. 177 

Proprio alla fine dell’esistenza, Gesualdo capisce l’inutilità della ricchezza, unica ragione della sua vita operosa. Ora che la solitudine in cui è immerso non è più riscattata dal lavoro e dalla lotta, che lo avevano tenuto impegnato celandogli l’ostilità del mondo, capisce che la roba sta per sfuggirgli e sarà presto destinata alla rovina. Le terre abbandonate, lo spreco delle risorse, i lussi della casa gli fanno comprendere di essere uno sconfitto sul piano degli affetti e su quello della roba che, per una sorta di spietata legge del contrappasso, sarà dissipata dal genero scialacquatore.

La scalata sociale di Gesualdo si è trasformata in un fallimento umano doloroso e in un isolamento che è la conseguenza della rottura del patto di solidarietà con la classe sociale da cui proviene.
Anch’egli, come Mazzarò, ha costruito, mantenuto e accresciuto il proprio patrimonio grazie alla fatica e al sacrificio. Tuttavia, mentre Mazzarò, chiuso nella propria grettezza, non può concepire altro che un perpetuo bisogno di possesso, Gesualdo si concede un’infrazione che si rivelerà fatale: il matrimonio. Per quanto tale decisione sia sempre dettata da motivi di convenienza, essa è di fatto la causa di tutti i suoi mali, economici e affettivi.

C’è inoltre un’altra differenza tra i due uomini. Mentre in punto di morte Mazzarò vuole portare con sé la roba che ha accumulato, Gesualdo si appiglia disperatamente all’idea che essa possa sopravvivergli: a sancire la sua resa definitiva è la coscienza che questo non potrà accadere. Pur assillato anch’egli dall’attaccamento ai beni materiali, e benché incline come Mazzarò a una vita consacrata alla parsimonia e alla rinuncia, Gesualdo non può definirsi interamente né avaro né egoista, come notiamo dal pensiero rivolto ai figli illegittimi avuti prima del matrimonio, le persone verso cui ha degli obblighi (r. 218). Isabella, a cui chiede di lasciar loro qualcosa del patrimonio che sta per ereditare, non è capace però di entrare davvero in contatto con lui e i suoi occhi, dopo una breve, inespressa commozione, tornano indifferenti e insensibili: la distanza che separa padre e figlia si traduce così nello sdegnoso ritrarsi di Isabella, nella sua indisponibilità alla confidenza e nel riapparire della ruga ostinata dei Trao fra le ciglia (r. 229), di fronte alla quale a Gesualdo non resta che rinunciare a ogni tentativo di comunicazione.
In quegli occhi e nello sconforto senza lacrime di Gesualdo, rassegnato con dignità alla sconfitta (Allentò le braccia, e non aggiunse altro, rr. 231-232), Verga proietta il proprio radicale pessimismo sulle possibilità di salvezza dell’uomo, costretto a vivere in un mondo senza ideali, schiavo della sola morale utilitaristica e privato di vera affettività.

Le scelte stilistiche

A differenza dell’“oppresso” Rosso Malpelo, che la società condanna alla marginalità, Mazzarò è un “oppressore”, ma eroe di un mondo che ne riconosce i valori e per questo lo rispetta e lo ammira. Ciò spiega perché Verga scelga, per raccontarne le imprese, la voce di un narratore complice, che aderisce alla sua mentalità e alla sua visione della vita. A eccezione dell’incipit (in cui il punto di vista è quello di un viandante che si presuppone colto) e del breve intermezzo dell’umile lettighiere (r. 6), che non comprende le scelte di Mazzarò, il racconto sembra ispirato direttamente dalle convinzioni del protagonista. Così assistiamo, in un certo qual modo, alla sua celebrazione: dall’anonimo narratore popolare che con stupita ammirazione descrive come normali, anzi come lodevoli, i metodi del protagonista, non giungerà mai una parola di censura della sua ingordigia economica, mai un dubbio sul suo comportamento, mai il sospetto che la folle rincorsa del denaro lo abbia portato a recidere ogni legame con gli uomini e anche con sé stesso. Perfino la considerazione della morte della madre come fardello economico (Di donne non aveva mai avuto sulle spalle che sua madre, la quale gli era costata anche 12 tarì, quando aveva dovuto farla portare al camposanto, rr. 53-55) viene ritenuta del tutto normale: ma in realtà è evidente che spingendo alle estreme conseguenze la legittimazione delle azioni e della mentalità del protagonista, l’autore induce in chi legge una presa di distanza o anche un moto di nauseata indignazione.
Il modo in cui il narratore descrive le vicende del protagonista contiene perfino un che di leggendario o di fiabesco, a cui collaborano in modo decisivo accumulazioni* e iterazioni* (E cammina e cammina, r. 11) nonché l’uso delle iperboli*, spia evidente della trasfigurazione mitica di Mazzarò operata dall’immaginario popolare (Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che tramontava, rr. 24-25). È il lettore a dover cogliere, dietro alla straniante impersonalità di Verga, il dramma di un uomo che, per dedicare alla roba la propria vita, finisce per essere travolto dall’inutilità dei suoi sforzi, nel delirante, finale abbraccio con tutto ciò che ha conquistato.

 >> pag. 178 

La stessa ottica straniante si può rilevare nella variabilità dei punti di vista delle ultime pagine di Mastro-don Gesualdo. È lo stesso protagonista che osserva la realtà del palazzo in cui è ospitato: la condizione di escluso in cui si trova gli permette di valutare la vacuità e l’insensatezza che vi regna. Anche durante il colloquio con Isabella, dietro l’apparenza di un’osservazione neutrale compiuta da un narratore esterno, a essere registrati sono soprattutto gli stati d’animo di Gesualdo: guardandola fisso per vedere se voleva lei pure (rr. 181-182); La guardò fissamente (r. 214); E mentre la guardava (r. 225).
Le fasi finali dell’agonia del protagonista vengono descritte attraverso il punto di vista del domestico con una serie di espressioni che sottintendono il suo cinismo e il disprezzo per il moribondo (capricci, r. 239; canzone, r. 240; contrabbasso, r. 245; uzzolo e mattana, r. 250: gli ultimi due termini sono toscanismi propri del linguaggio di scuderia e riferiti ai cavalli imbizzarriti). Al lettore non resta che avvertire lo sconsolato pessimismo di Verga, il quale non evita di concedersi però una deroga all’impersonalità: l’epiteto poveraccio che riserva al morente alla r. 120 tradisce un sentimento di pietà per il tragico fallimento di un uomo ingannato dal miraggio della ricchezza e della potenza e dalla tragica illusione di governare il destino.

      Verso le competenze

La roba

COMPRENDERE

1 La novella può essere divisa in tre sequenze fondamentali: la descrizione della roba di Mazzarò; la sua storia; la conclusione della vicenda. Individua nel testo queste parti e riassumine il contenuto.

ANALIZZARE

2 Individua le espressioni popolari presenti nella novella.


3 La presentazione iniziale di Mazzarò è affidata al punto di vista di un viandante sconosciuto, che osserva la proprietà del protagonista. Da quali elementi possiamo supporre il suo alto livello culturale?

INTERPRETARE

4 Il testo è ricco di similitudini che si riferiscono al mondo naturale (folto come un bosco, r. 16; come un fiume, r. 137) e animale (ricco come un maiale, r. 31; numerosi come le lunghe file dei corvi, rr. 61-62). Perché, secondo te?

PRODURRE

5 Mazzarò può essere considerato un perfetto esemplare di avaro. In che cosa consiste per te l’avarizia, anche in riferimento alla società di oggi? Esponi le tue idee in un testo espositivo e argomentativo di circa 30 righe.


La morte di Gesualdo

COMPRENDERE

6 Dove e in che modo muore Gesualdo?

ANALIZZARE

7 Trova le espressioni che denunciano il fastidio o l’invidia dei servitori nei confronti del protagonista.

INTERPRETARE

8 Il colloquio tra il protagonista e la figlia è costellato di punti di sospensione. Perché?


I colori della letteratura ed. NUOVO ESAME DI STATO - volume 3
I colori della letteratura ed. NUOVO ESAME DI STATO - volume 3
Dal secondo Ottocento a oggi