Il primo Ottocento – L'autore: Giacomo Leopardi

LETTURE critiche

Il "Canzoniere" di Leopardi

di Nicola Gardini


Nicola Gardini (n. 1965), uno dei critici più. acuti della sua generazione, muovendo da uno stimolante confronto con il Canzoniere di Petrarca, invita a leggere i Canti di Leopardi come un libro organico, dotato di una sua compattezza data dalla componente autobiografica della vicenda che l’autore vi narra. Tuttavia sarebbe ingenuo leggere l’opera come una vera e propria autobiografia in versi. Il poeta affronta infatti temi molteplici, sui quali conduce una serrata riflessione: la Storia, l’individuo, la società, la tensione all’infinito. Pone molteplici domande, alle quali si rifiuta però di fornire facili risposte consolatorie.

Con il Canzoniere di Petrarca, i Canti di Leopardi sono il libro di poesia più importante della tradizione italiana. I meriti dei due poeti si possono misurare su numerosi piani. Qui consideriamo il loro contributo più grande, e merito comune: l'invenzione di un personaggio lirico. Petrarca ha inventato un io innamorato che ragiona incessantemente sul desiderio e fonda la sua identità sulla mancanza di direzione e sulla frammentarietà. Leopardi ha inventato un io compatto, un io che non ha bisogno dell'altro per esistere ed è in rapporto dialettico con se stesso. Petrarca aspira a raggiungere una felicità che non potrà essere. Leopardi rimpiange una felicità che è stata, in qualche momento iniziale: la grecità o l'infanzia. Il suo sguardo è completamente retrospettivo. Petrarca sogna il compimento del desiderio. Leopardi piange sulla disfatta di illusioni antiche. Potremmo continuare così a lungo e chissà quante altre interessanti opposizioni salterebbero fuori. Ma quel che conta qui sottolineare è che i modelli psicologici dei due poeti non si escludono a vicenda, bensì derivano da una medesima inclinazione a considerare la poesia una forma di critica della soggettività. Leopardi, dopo secoli di petrarchismi e connessi antipetrarchismi, ha ridato alla poesia la dignità della riflessione morale. Di qui la validità intramontabile di Leopardi.
La scuola ci ha abituato a leggere i Canti come un dato di fatto, qualcosa che c'è e non potrebbe essere altrimenti. In realtà, i Canti sono un work in progress, una ricerca in atto, opera profondamente sperimentale, interrotta solo dalla morte del poeta. Il libro crebbe e si trasformò nel tempo, seguendo la vita e gli studi dell'autore e acquistando via via, attraverso varie edizioni, l'aspetto di una sorta di autobiografia in versi. Le poesie vi sono state incluse in un ordine grosso modo cronologico. Vari stili si susseguono, varie forme: la canzone petrarchesca, l'idillio, la satira, la canzone libera (invenzione dello stesso Leopardi), traduzioni. E – si noti – nessun sonetto, archetipo del lirismo italiano fin dal Medioevo. La cosa più vicina al sonetto è una poesia di quindici versi, tra l'altro priva di rime. Anche la voce del poeta non si mantiene uguale per tutta la raccolta, ma è ora esclamativa, ora meditativa, ora piana e distesa, ora convulsa e declamatoria. Sarebbe difficile concepire libro meno monotono. Eppure i Canti sono un'opera unitaria e compiuta, che segue certi principi e, pur rimettendoli continuamente in discussione, si sviluppa a partire da quelli.
Prima di tutto c'è la storia del protagonista. Anche il lettore meno attento noterà che il protagonista dei Canti è dotato di una fisionomia straordinariamente individuale. Tale protagonista è un poeta: o meglio, si sente poeta e vuole fare il poeta. Dunque, sembrerebbe esserci perfetta corrispondenza tra l'autore e il personaggio che parla in prima persona. E così certo è. Basterebbe un componimento come le «Ricordanze» a dimostrarlo [...].
Ma è bene non dare sempre per scontata questa corrispondenza tra autore e personaggio lirico, anche se a noi sembra tanto ovvia. L'autobiografia nei Canti, infatti, non si esprime necessariamente attraverso il racconto della vita dell'autore come nelle «Ricordanze». Il poeta si pronuncia anche indossando maschere: si pensi al Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, dove parla appunto un pastore e il paesaggio non è certo quello di Recanati.
Il poeta dei Canti, oltre a essere caratterizzato dalla volontà di essere poeta, si distingue per essere particolarmente sensibile al dolore. È un individuo molto sofferente, che non si limita a parlare della propria infelicità ma usa questa a dimostrazione dell'infelicità universale. Per Leopardi l'infelicità è una condizione storica, è un prodotto della storia. Non si tratta di pessimismo. Leopardi non ha mai usato questa parola, che tanto piace ai manuali scolastici e ai caricaturisti. Se non si capisce la radice storica della poesia leopardiana si rischia di fraintendere il significato dei Canti. Per Leopardi la ragion d'essere d'ogni uomo è nel passato. Dal passato discendiamo e nel passato è la risposta agli interrogativi del presente. Ci si potrebbe interrogare sul perché di questa radicale convinzione e si dovrebbe cercare negli studi umanistici e filologici di Leopardi. Qui, per ridurre a poche frasi un discorso potenzialmente lunghissimo, ricordiamo che la cultura classica di Leopardi è tutta impregnata di nostalgia e rimpianto: gli storici antichi, i filosofi antichi, i poeti antichi di cui Leopardi nutrì i suoi pensieri fin da bambino hanno tutti un'idea degenerativa di storia umana. Lo stesso studio di cose vecchie di secoli è nostalgico di per sé. Dunque, il tempo è solo declino e rovina. Ciò, ovviamente, non esclude che la felicità sia esistita ma implica per forza che la felicità sia esistita solo in un'origine irrintracciabile. L'abbiamo detto: la felicità è qualcosa non che verrà – come per Petrarca – ma qualcosa che si è perduto. In questo sta uno dei principali elementi di novità della poesia leopardiana.
Prendiamo in esame la prima poesia dei Canti, «All'Italia». Il titolo è fuorviante. Sembra una poesia politica. Invece, è una poesia storica (una bella poesia, che la scuola tende a mortificare, se non a ridicolizzare). Parla soprattutto dell'antica Grecia, delle guerre persiane e del poeta Simonide che, dall'alto di un colle, ebbe la ventura di assistere a quei grandi fatti militari e di cantarli. «All'Italia» si conclude proprio con un discorso del poeta greco, che celebra i gloriosi caduti. La voce del poeta moderno, del Leopardi autore, e la voce di quell'antico personaggio si sovrappongono e sono indistinguibili. In questo modo il poeta moderno si fa erede di quello antico. E proprio nell'acquisizione di antichità sta il suo valore. Leopardi vuole essere un poeta della tradizione, come Simonide, come Saffo, e questo obiettivo è chiaramente pronunciato e realizzato già in quella poesia che fa da apertura alla raccolta.
Abbiamo così messo in evidenza già uno dei temi portanti dei Canti: la storia, o meglio la storicità del soggetto poetante. Il poeta è, secondo Leopardi, un uomo del passato. Ma è tipico della mente leopardiana costruire antitesi e contraddizioni. Al tema della storia si appaia il suo esatto contrario: la non-storia, la sospensione della temporalità, la cessazione del declino. Intendo, l'infinito. Al tema dell'infinito Leopardi ha dedicato una poesia particolare, e un genere specifico, il cosiddetto idillio. «L'infinito» si intitola la più celebre poesia dell'intera raccolta, quel componimento in quindici versi (del 1819) [...] che forse va considerato una deformazione del sonetto tradizionale. Ma l'infinito affiora un po' dovunque nei Canti. Che cos'è l'infinito per Leopardi? Ripetiamolo: l'opposto della storia. Non c'è concetto che nella mente di Leopardi non vada considerato in una prospettiva dialettica. Come c'è il sì, c'è il no. Gli opposti, nel suo pensiero, non si escludono né si conciliano, ma coesistono in uno stato permanente di tensione. Se c'è la consapevolezza del finito, del divenire, del cessare, del cadere, ci deve essere il sogno dell'evasione, della dolcezza, della pace. [...]
Come finiscono i Canti? Abbiamo detto che i dissidi in Leopardi non si risolvono. Leopardi è poeta di problemi, non di soluzioni. L'ultima poesia della raccolta, dunque, non è una risposta, ma la rinuncia a rispondere. È uno scherzo, come dice il titolo. Ma uno scherzo abbastanza serio: perché parla del mestiere del poeta, che è il grande programma di tutta la vita di Leopardi. Segue poi un'appendice di traduzioni dal greco. Da quale poeta? Da quello stesso Simonide cui Leopardi aveva ceduto il palcoscenico nella poesia incipitaria. Il giro è completo. I Canti sono una raccolta circolare. Nel cerchio, appunto, che non ha né inizio né fine riconoscibili, è la metafora geometrica che meglio rappresenti la mente di questo poeta ossessivo, inquieto, infaticabile, che torna di continuo a mettere in discussione i traguardi raggiunti.
Per questo, i Canti, se sono un ragionare sulla fatica della condizione umana, sono anche un inno alla bellezza del vivere, e attribuiscono principalmente alla poesia il compito di cogliere tale contraddizione. Non si dica mai che Leopardi fu poeta religioso. Perché non lo fu. In lui mai la disperazione fece spazio alla speranza di una risposta ultraterrena. E proprio il rifiuto della metafisica rende questa poesia così contraddittoria, così bloccata e viva, anzi vivissima nelle sue incoerenze e nella celebrazione di un sogno tramontato. Avesse invocato Dio, Leopardi sarebbe stato un poeta completamente diverso. Leggeremmo altre poesie. Non avremmo imparato quello che i Canti insegnano: a porre domande pur anche nel dubbio di arrivare mai alle risposte. Non capiremmo tanto il significato della nostra giovinezza e il valore del passato dei popoli.

Nicola Gardini, Per una biblioteca indispensabile. Cinquantadue classici della letteratura italiana, Einaudi, Torino 2011

I colori della letteratura ed. NUOVO ESAME DI STATO - volume 2
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Dal Seicento al primo Ottocento