T9 - Il ritratto della monaca di Monza (cap. 9)

Il primo Ottocento – L'opera: I promessi sposi

 T9 

Il ritratto della monaca di Monza

Cap. 9


Abbandonato il paese natale, salutato Renzo, Lucia è indirizzata a Monza in compagnia della madre Agnese, nella speranza che la «signora» del convento, una monaca di famiglia potentissima, accetti di dare loro protezione. La comparsa in scena di Gertrude, la monaca di Monza, è abilmente preparata da Manzoni, che crea tutte le premesse per suscitare la curiosità del lettore. Il primo a nominarla, con rispetto e cautela, è il padre guardiano dei cappuccini, una volta appreso dalla lettera di fra Cristoforo della persecuzione subita da Lucia: «non c’è che la signora: se la signora vuole prendersi quest’impegno...».
La domanda sull’identità della «signora», che è anche del lettore, viene posta da Agnese e Lucia al carrettiere che le porta in convento. La risposta aumenta la suspense: «La chiamano la signora, per dire ch’è una gran signora; e tutto il paese la chiama con quel nome, perché dicono che in quel monastero non hanno mai avuto una persona simile; e i suoi d’adesso, laggiù a Milano, contan molto, e son di quelli che hanno sempre ragione». In attesa del colloquio, Lucia si aggira spaesata nel parlatorio del convento. Dietro una finestra «con due grosse e fitte grate di ferro», vede una monaca che la fissa intensamente. Esitante, si avvicina.

Il suo aspetto, che poteva dimostrar venticinque anni, faceva a prima vista un'impressione
di bellezza, ma d'una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta.
Un velo nero, sospeso e stirato orizzontalmente sulla testa, cadeva dalle due parti,
discosto alquanto dal viso; sotto il velo, una bianchissima benda di lino cingeva,
5 fino al mezzo, una fronte di diversa, ma non d'inferiore bianchezza; un'altra benda
a pieghe circondava il viso, e terminava sotto il mento in un soggolo,1 che si
stendeva alquanto sul petto, a coprire lo scollo d'un nero saio. Ma quella fronte si
raggrinzava spesso, come per una contrazione dolorosa;2 e allora due sopraccigli
neri si ravvicinavano, con un rapido movimento. Due occhi, neri neri anch'essi, si
10 fissavano talora in viso alle persone, con un'investigazione superba; talora si chinavano
in fretta, come per cercare un nascondiglio; in certi momenti, un attento
osservatore avrebbe argomentato che chiedessero affetto, corrispondenza,3 pietà;
altre volte avrebbe creduto coglierci la rivelazione istantanea d'un odio inveterato4
e compresso, un non so che di minaccioso e di feroce: quando restavano immobili
15 e fissi senza attenzione, chi ci avrebbe immaginata una svogliatezza orgogliosa, chi
avrebbe potuto sospettarci il travaglio d'un pensiero nascosto, d'una preoccupazione
familiare all'animo,5 e più forte su quello che gli oggetti circostanti. Le gote
pallidissime scendevano con un contorno delicato e grazioso, ma alterato e reso
mancante da una lenta estenuazione.6 Le labbra, quantunque appena tinte d'un roseo
20 sbiadito, pure, spiccavano in quel pallore: i loro moti7 erano, come quelli degli
occhi, subitanei, vivi, pieni d'espressione e di mistero. La grandezza ben formata
della persona scompariva in un certo abbandono del portamento, o compariva sfigurata
in certe mosse repentine, irregolari e troppo risolute per una donna, non che
per una monaca. Nel vestire stesso c'era qua e là qualcosa di studiato o di negletto,8
25 che annunziava una monaca singolare: la vita era attillata con una certa cura secolaresca,9
e dalla benda usciva sur una tempia una ciocchettina di neri capelli; cosa che
dimostrava o dimenticanza o disprezzo della regola che prescriveva di tenerli sempre
corti, da quando erano stati tagliati, nella cerimonia solenne del vestimento.10

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I contenuti tematici

L'apparizione della «signora» è il capolavoro della ritrattistica manzoniana: non a caso, la splendida resa di una bellezza tormentata, inquieta, profondamente romantica, nell'Ottocento ha ispirato numerosi artisti, che hanno tentato di darne un'interpretazione pittorica.
Il narratore inizia con un'impressione d'insieme, per poi concentrarsi sui singoli particolari del volto, insistendo sugli occhi, in cui balenano ora la superbia, ora l'odio, ora la disperazione, ora la solitudine e perfino una richiesta di affetto. Non scioglie dunque il mistero sull'animo della donna, accentuato anzi da ambigui dettagli, dal singolare abbandono del portamento (r. 22) e da quella maliziosa ciocchettina di neri capelli (r. 26), in contrasto con la regola monacale. Tutti gli indizi esterni concorrono a suggerire una pericolosa ambiguità, destinata a trovare conferme nel percorso della storia. Sarà proprio la «signora», infatti, a favorire il rapimento di Lucia, per mano del suo amante Egidio.

Per quanto crudele, volubile, viziosa, la monaca di Monza è un personaggio che ispira nel lettore pietà, in quanto il male di cui si rende responsabile discende da una gravissima violenza psicologica subita. Come chiarisce in seguito il narratore in una lunga digressione, il convento è stato scelto per lei dal «principe padre», che sin dall'infanzia aveva tentato invano di abituarla all'idea, arrivando a regalarle bambole vestite da suora. Accettato l'abito senza vocazione, la «signora» scivola presto nel peccato, e dal peccato al delitto: si rende complice infatti dell'assassinio della monaca che aveva scoperto la sua tresca con Egidio. Il convento è per lei innanzitutto una prigione, come suggerisce l'insistenza, una volta concluso il ritratto, sulle grate di ferro dietro le quali si staglia la sua figura. Nel crearla l'autore si ispirò alla figura di Marianna de Leyva, nobildonna davvero esistita, condannata dal cardinale Borromeo a espiare i suoi misfatti in una stanzetta murata, dove rimase tredici anni.

Le scelte stilistiche

Per dare immediato rilievo visivo a una personalità contrastata, il narratore valorizza l'antitesi fra bianco e nero, i due colori dell'abito delle benedettine, che connotano anche l'aspetto fisico della monaca. Bianca la fronte, nere le sopracciglia, neri gli occhi e i capelli, il volto tanto pallido che il roseo sbiadito (rr. 19-20) delle labbra vi spicca. Su queste tinte prende forma una bellezza efficacemente sintetizzata dall'allitterazione* che lega i tre participi: sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta (r. 2). Manzoni evita di spingersi oltre: la frequenza dei ma, dei come, delle formule dubitative (un non so che, r. 14), delle indecisioni (qualcosa di studiato o di negletto, r. 24) lascia il lettore esitante, come Lucia al cospetto della monaca.

      Verso le competenze

COMPRENDERE

1 Elenca le parti del viso e i dettagli dell’abbigliamento su cui si sofferma la descrizione, accostando a ciascuno il significato che gli attribuisce il narratore.

ANALIZZARE

2 Rintraccia nel testo i riferimenti alla sfera cromatica.


3 Individua tutti gli elementi che suggeriscono nella monaca un disordine interiore.

INTERPRETARE

4 Considera il lungo passo dedicato alla descrizione degli occhi. Che cosa vuole suggerire a tuo parere Manzoni?


5 Perché a tuo giudizio il narratore in questo passo non propone mai il punto di vista della «signora»?


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PER APPROFONDIRE

Il colore della femminilità: le dark ladies manzoniane 

La cupezza della colpa di Gertrude 
Nei Promessi sposi non ci sono donne bionde. Anche i due archetipi contrapposti di femminilità – la dolce e modesta Lucia e la fatale e infida Gertrude – sono accomunati dai capelli bruni. La nera chioma della monaca può non sorprenderci: nel canone letterario la bellezza di una capigliatura scura è spesso il segno della malvagità. Le ciocche bionde invece sono per convenzione sinonimo di bontà: le esibivano Venere e Diana, poi la Laura di Petrarca, l’Angelica di Ariosto, la Teresa delle Ultime lettere di Jacopo Ortis e via dicendo, quasi senza eccezione. 
Il ritratto di Gertrude è coerente con l’iconografia, tipicamente ottocentesca, della donna fatale: il contrasto tra i capelli e gli occhi scuri da una parte e il viso languido e pallido dall’altra rientra nel topos romantico della «bellezza contaminata» (Praz) da una sofferenza segreta e da una corruzione conturbante. 

I «neri e giovanili capelli» di Lucia 
Ben diversa è l’immagine di Lucia, che porta i capelli spartiti da una «drizzatura» e disposti in trecce arrotolate sulla nuca. La sua esteriorità ordinata e regolare riflette armonicamente granitiche certezze esistenziali; d’altro canto la sua è una «modesta bellezza», in linea con l’ideale rassicurante dell’angelo del focolare. Eppure non è bionda, ma – contro ogni stereotipo – sfoggia anche lei «neri e giovanili capelli».

 T10 

Renzo nel tumulto di Milano

Cap. 13


Renzo, entrato a Milano, trova la città in rivolta per l’aumento del prezzo del pane. Risucchiato dal «vortice», assiste alla devastazione dei forni e all’assedio alla casa del vicario di provvisione, cioè il funzionario incaricato del vettovagliamento della città, che il popolo ritiene responsabile della situazione. In preda a una rabbia incontrollabile, la folla cerca di scardinare il portone del palazzo mentre il vicario, terrorizzato, si rifugia nel solaio. Per sua fortuna di lì a poco giungerà il gran cancelliere Ferrer in persona a metterlo in salvo nella sua carrozza, promettendo ai rivoltosi un rapido e severo processo.

Renzo, questa volta, si trovava nel forte1 del tumulto, non già portatovi dalla piena,
ma cacciatovisi deliberatamente. A quella prima proposta di sangue,2 aveva sentito
il suo rimescolarsi tutto: in quanto al saccheggio, non avrebbe saputo dire se fosse
bene o male in quel caso; ma l'idea dell'omicidio gli cagionò un orrore pretto3 e
5 immediato. E quantunque, per quella funesta docilità degli animi appassionati
all'affermare appassionato di molti, fosse persuasissimo che il vicario era la cagion
principale della fame, il nemico de' poveri, pure, avendo, al primo moversi della
turba, sentita a caso qualche parola che indicava la volontà di fare ogni sforzo per
salvarlo, s'era subito proposto d'aiutare anche lui un'opera tale; e, con quest'intenzione,
10 s'era cacciato, quasi fino a quella porta, che veniva travagliata4 in cento
modi. Chi con ciottoli picchiava su' chiodi della serratura, per isconficcarla; altri,
con pali e scarpelli e martelli, cercavano di lavorar più in regola: altri poi, con pietre,
con coltelli spuntati, con chiodi, con bastoni, con l'unghie, non avendo altro,
scalcinavano e sgretolavano il muro, e s'ingegnavano di levare i mattoni, e fare una
15 breccia. Quelli che non potevano aiutare, facevan coraggio con gli urli; ma nello
stesso tempo, con lo star lì a pigiare, impicciavan di più il lavoro già impicciato

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dalla gara disordinata de' lavoranti: giacché, per grazia del cielo, accade talvolta
anche nel male quella cosa troppo frequente nel bene, che i fautori più ardenti
divengano un impedimento.
20 I magistrati ch'ebbero i primi l'avviso di quel che accadeva, spediron subito a
chieder soccorso al comandante del castello, che allora si diceva di porta Giovia;5 il
quale mandò alcuni soldati. Ma, tra l'avviso, e l'ordine, e il radunarsi, e il mettersi
in cammino, e il cammino, essi arrivarono che la casa era già cinta di vasto assedio;
e fecero alto6 lontano da quella, all'estremità della folla. L'ufiziale che li comandava,
25 non sapeva che partito prendere. Lì non era altro che una, lasciatemi dire,
accozzaglia di gente varia d'età e di sesso, che stava a vedere. All'intimazioni che
gli venivan fatte, di sbandarsi, e di dar luogo,7 rispondevano con un cupo e lungo
mormorìo; nessuno si moveva. Far fuoco sopra quella ciurma, pareva all'ufiziale
cosa non solo crudele, ma piena di pericolo; cosa che, offendendo i meno terribili,
30 avrebbe irritato i molti violenti: e del resto, non aveva una tale istruzione.8 Aprire
quella prima folla, rovesciarla a destra e a sinistra, e andare avanti a portar la guerra
a chi la faceva,9 sarebbe stata la meglio;10 ma riuscirvi, lì stava il punto. Chi sapeva
se i soldati avrebber potuto avanzarsi uniti e ordinati? Che se, in vece di romper
la folla, si fossero sparpagliati loro tra quella, si sarebber trovati a sua discrezione,
35 dopo averla aizzata. L'irresolutezza11 del comandante e l'immobilità de' soldati
parve, a diritto o a torto, paura. La gente che si trovavan12 vicino a loro, si contentavano
di guardargli in viso, con un'aria, come si dice, di me n'impipo;13 quelli
ch'erano un po' più lontani, non se ne stavano di14 provocarli, con visacci e con
grida di scherno; più in là, pochi sapevano o si curavano che ci fossero; i guastatori
40 seguitavano a smurare,15 senz'altro pensiero che di riuscir presto nell'impresa; gli
spettatori non cessavano d'animarla con gli urli.
Spiccava tra questi, ed era lui stesso spettacolo, un vecchio mal vissuto, che,
spalancando due occhi affossati e infocati, contraendo le grinze a un sogghigno di
compiacenza diabolica, con le mani alzate sopra una canizie vituperosa,16 agitava
45 in aria un martello, una corda, quattro gran chiodi, con che diceva di volere attaccare
 il vicario a un battente della sua porta, ammazzato che fosse.
«Oibò! vergogna!» scappò fuori Renzo, inorridito a quelle parole, alla vista
di tant'altri visi che davan segno d'approvarle, e incoraggito17 dal vederne degli
altri, sui quali, benché muti, traspariva lo stesso orrore del quale era compreso lui.
50 «Vergogna! Vogliam noi rubare il mestiere al boia? assassinare un cristiano? Come
volete che Dio ci dia del pane, se facciamo di queste atrocità? Ci manderà de' fulmini,
e non del pane!».
«Ah cane! ah traditor della patria!» gridò, voltandosi a Renzo, con un viso da
indemoniato, un di coloro che avevan potuto sentire tra il frastono quelle sante
55 parole. «Aspetta, aspetta! È un servitore del vicario, travestito da contadino: è una
spia: dàlli, dàlli!». Cento voci si spargono all'intorno. «Cos'è? dov'è? chi è? Un servitore

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del vicario. Una spia. Il vicario travestito da contadino, che scappa. Dov'è?
dov'è? dàlli, dàlli!».
Renzo ammutolisce, diventa piccino piccino, vorrebbe sparire; alcuni suoi vicini
60 lo prendono in mezzo; e con alte e diverse grida cercano di confondere quelle
voci nemiche e omicide. Ma ciò che più di tutto lo servì fu un «largo, largo», che si
sentì gridar lì vicino: «largo! è qui l'aiuto: largo, ohe!».
Cos'era? Era una lunga scala a mano,18 che alcuni portavano, per appoggiarla alla
casa, e entrarci da una finestra. Ma per buona sorte, quel mezzo, che avrebbe resa la
65 cosa facile, non era facile esso a mettere in opera. I portatori, all'una e all'altra cima,
e di qua e di là della macchina,19 urtati, scompigliati, divisi dalla calca, andavano a
onde: uno, con la testa tra due scalini, e gli staggi20 sulle spalle, oppresso come sotto
un giogo scosso, mugghiava;21 un altro veniva staccato dal carico con una spinta; la
scala abbandonata picchiava spalle, braccia, costole: pensate cosa dovevan dire coloro
70 de' quali erano.22 Altri sollevano con le mani il peso morto, vi si caccian sotto,
se lo mettono addosso, gridando: «animo! andiamo!». La macchina fatale s'avanza
balzelloni, e serpeggiando. Arrivò a tempo a distrarre e a disordinare i nemici di
Renzo, il quale profittò della confusione nata nella confusione; e, quatto quatto sul
principio, poi giocando di gomita a più non posso, s'allontanò da quel luogo, dove
75 non c'era buon'aria per lui, con l'intenzione anche d'uscire, più presto che potesse,
dal tumulto, e d'andar davvero a trovare o a aspettare il padre Bonaventura.23

      Dentro il testo

I contenuti tematici

In precedenza (cap. 12) Renzo ha assistito al saccheggio dei forni milanesi, dinanzi al quale il buon senso contadino gli ha dettato una semplice riflessione: «Se concian così tutti i forni, dove voglion fare il pane? Ne' pozzi?». Ora l'atmosfera si fa più cupa, e la perplessità si tramuta in repulsione: l'idea dell'omicidio gli cagionò un orrore pretto e immediato (rr. 4-5). Pur essendo convinto anch'egli che la colpa della carestia vada attribuita al vicario, ritiene intollerabile ogni spargimento di sangue. Quando dunque si prospetta l'ipotesi del linciaggio, il giovane interviene a fin di bene, per impedire che quella idea sciagurata venga messa in atto. La sintonia con le idee dell'autore è in questo caso perfetta. Per l'episodio probabilmente Manzoni attinse a un traumatico ricordo personale, ovvero al brutale assassinio del ministro napoleonico Giuseppe Prina, linciato dalla folla durante il tumulto del 1814 a pochi passi dalla sua abitazione di via Morone.

La situazione precipita, e la forza pubblica non sa come regolarsi nei confronti della folla inferocita. Dal ringhioso mormorìo che essa emette in risposta all'intimazione di disperdersi (rr. 26-28) emerge l'atroce proposito di un vecchio mal vissuto (r. 42). Manzoni, che ricava questa figura da una fonte storica (il trattato De peste di Giuseppe Ripamonti, 1640), ne fa l'emblema della malvagità assetata di violenza. A questo scopo gli conferisce tratti infernali, degni del Caronte dantesco: gli occhi affossati e infocati (r. 43), le grinze (r. 43), il sogghigno di compiacenza diabolica (rr. 43-44), addirittura la volontà di crocifiggere il cadavere del vicario alla porta della sua abitazione. A lui si oppone Renzo, con uno di quegli slanci ingenui e generosi che lo caratterizzano. Basta però una sua frase mirata a calmare gli animi a farlo diventare un bersaglio della folla esaltata: «Aspetta, aspetta! È un servitore del vicario [...] una spia. [...] Dov'è? dov'è? dàlli, dàlli!» (rr. 55-58). A salvarlo dall'ira dei più esagitati non è tanto l'aiuto dei vicini d'accordo con lui, quanto la confusione scaturita dall'arrivo di una scala per dare l'assalto alla casa.

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Le scelte stilistiche

L'impeto febbrile e disordinato della calca è abilmente mimato dall'accumulo nel medesimo periodo degli strumenti con cui essa cerca di aprire una breccia nella casa del vicario: con ciottoli [...] con pali e scarpelli e martelli [...] con pietre, con coltelli spuntati, con chiodi, con bastoni, con l'unghie (rr. 11-13). All'inverso, la lentezza dei soccorsi è restituita a livello sintattico da una fitta successione di virgole: tra l'avviso, e l'ordine, e il radunarsi, e il mettersi in cammino, e il cammino (rr. 22-23).
Il culmine della tensione è raggiunto tramite una sequenza di frasi spezzate che si sovrappongono una all'altra, trasformando in men che non si dica l'incauto Renzo in servitore del vicario, in una spia, nel vicario stesso travestito da contadino (rr. 56-58). Per adeguare il ritmo narrativo alla scena movimentata, il narratore adotta il presente storico: Renzo ammutolisce, diventa piccino piccino, vorrebbe sparire (r. 59). I termini utilizzati per definire la folla (accozzaglia, turba, calca ecc.) e la similitudine* che la accosta a una bestia (come sotto un giogo scosso, mugghiava, rr. 67-68) lasciano intuire il giudizio negativo di Manzoni.

      Verso le competenze

COMPRENDERE

1 Perché i soldati non intervengono per interrompere l’assalto alla casa del vicario?


2 A che cosa Renzo deve la salvezza?

ANALIZZARE

3 Nell’espressione non c’era buon’aria per lui (r. 75) quale figura retorica riconosci?

  •     Metafora.
  •     Anafora.
  •     Iperbole.
  •     Litote. 

4 Qual è l’opinione di Renzo riguardo al saccheggio dei forni?

INTERPRETARE

5 A quali ragioni personali si deve la diffidenza di Manzoni nei confronti della folla?


6 Individua gli interventi ironici del narratore e spiega la loro funzione espressiva.

PRODURRE

7 Riguardo alla folla lo scrittore inglese Thomas Browne (1605-1682) ha scritto: «Quella mostruosità molteplice che, presa un pezzo alla volta, sembra uomini, ragionevoli creature di Dio; ma, confusa insieme, fa una sola grande belva, un mostro tremendo». Che cosa pensi di questa affermazione? Scrivi un testo argomentativo di circa 30 righe.


La tua esperienza

8 Immagina di vivere una situazione analoga a quella di Renzo, in mezzo a una folla aggressiva o incontrollabile. Quali sono le tue reazioni, i tuoi pensieri? Raccontalo in un testo di circa 20 righe.


I colori della letteratura ed. NUOVO ESAME DI STATO - volume 2
I colori della letteratura ed. NUOVO ESAME DI STATO - volume 2
Dal Seicento al primo Ottocento