Per approfondire - Il teatro europeo del Seicento

Il Seicento – L'autore: William Shakespeare

PER APPROFONDIRE

Il teatro europeo del Seicento 

Tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, sulla spinta delle suggestioni provenienti dai modelli classici riscoperti dal Rinascimento (ma anche nell’intento di superarli), in Inghilterra, Francia e Spagna nasce e si sviluppa il teatro moderno, opera di autori professionisti e basato su un’arte della recitazione competente e raffinata.

Nell’Inghilterra elisabettiana 
Nella seconda metà del Cinquecento, sotto il governo della regina Elisabetta I, la scena teatrale londinese è assai vivace, al punto che nella capitale esistono ben quattro teatri stabili. Oltre a Shakespeare, vanno ricordati almeno i nomi di altri due autori: Ben Jonson (1572-1637) e Christopher Marlowe (1564-1593). In opere come Volpone o la Volpe (1605) e L’alchimista (1612), Ben Jonson, membro di una compagnia di attori girovaghi, crea un nuovo tipo di commedia, la "commedia di umori", alla base della quale vi è la rappresentazione degli esseri umani svolta attraverso la teoria fisiologica degli "umori", cioè i tratti distintivi che segnano l’essenza di ogni individuo. In questo modo, Jonson riproduce nelle sue opere una galleria di caratteri tipici della società elisabettiana. 
Christopher Marlowe è invece autore, tra le altre, di tre opere da molti ritenute non inferiori a quelle di Shakespeare: Tamerlano il Grande (1587), La tragica storia del dottor Faust (1588 ca) e L’ebreo di Malta (1589). L’esaltazione dell’intelletto umano, tipica dell’Umanesimo rinascimentale e alimentata dalle nuove dottrine scientifiche e cosmologiche che si vanno affermando, acuisce in Marlowe l’insofferenza per i limiti umani, indirizzandolo verso quel titanismo (appunto l’aspirazione a superare tali limiti) che caratterizza tutta la sua opera. Il Dottor Faust, forse l’ultima delle tragedie di Marlowe, esprime invece le aspirazioni umane non più come brama di dominio, come avveniva con Tamerlano, ma come sete di conoscenza e di bellezza (personificata in Elena).

Sulle scene francesi: la tragedia... 
Il Seicento è per la Francia il grand siècle ("grande secolo"), un’epoca d’oro sia sul piano letterario sia su quello politico (è in questo periodo che essa diventa una grande potenza egemone in Europa). Tra gli intellettuali di spicco che operano in Francia vanno ricordati, nell’ambito della tragedia, Pierre Corneille (1606-1684) e Jean Racine (1639-1699) e, per quanto riguarda la commedia, Molière (1622-1673). Nate nel contesto della corte reale e caratterizzate da una veste formale classicheggiante, le tragedie di Pierre Corneille – Medea (1635), Orazio (1639), La morte di Pompeo (1644), Edipo (1659) – portano in scena i personaggi del mito greco, presentandoli come simboli di vizi e virtù. Anche Jean Racine privilegia i soggetti classici, adatti al raffinato pubblico di corte, riuscendo però a mettere a nudo i più intimi sentimenti umani, dall’amore dolce e incondizionato alle pulsioni morbose e rovinose. Le sue tragedie sono profondamente diverse da quelle allora in voga: prive di trame avventurose o eroiche, il loro pregio risiede nella complessa psicologia dei personaggi e nella resa di ampi e variegati ventagli di passioni ambigue e violente. Tra i suoi capolavori, spesso incentrati su potenti figure femminili, si ricordano Andromaca (1667), Berenice (1670), Ifigenia in Aulide (1674) e soprattutto Fedra (1677). In quest’ultima si racconta un episodio del mito classico: l’innamoramento di Fedra, moglie di Teseo, per il figliastro Ippolito. La donna cerca di resistere al sentimento, dichiarandolo solo alla falsa notizia della morte del marito. Ferita dall’orrore di Ippolito di fronte alla sua dichiarazione, lascia che il giovane sia ingiustamente accusato di averla sedotta, causandone l’esilio. Così Fedra diventa indirettamente responsabile della morte di Ippolito, provocata dal dio Nettuno, la cui furia era stata invocata contro di lui da Teseo, che aveva creduto alle calunnie di Fedra. Quest’ultima, alla notizia della morte di Ippolito, si uccide, dopo aver confessato la propria colpa. In questa tragedia cupa e gonfia di passione, Racine riesce a suscitare nello spettatore e nel lettore un moto di simpatia per l’incestuosa Fedra, vittima di Venere.

... e la commedia 
Oltre che autore, Molière (pseudonimo di Jean-Baptiste Poquelin) è stato attore e capo di una compagnia teatrale. Figlio di un ricco commerciante, dal 1660 – dopo gli anni dell’apprendistato e i primi successi – lavora al Palais Royal. Gode, in questo momento, del massimo favore del re, Luigi XIV, che, giovane e impegnato a stabilire la propria supremazia sulla nobiltà e sul clero, difende l’umorismo e la pungente satira di Molière dagli attacchi dei tradizionalisti e dei moralisti. 
In questo periodo Molière scrive alcune tra le sue commedie più famose – Le preziose ridicole (1659), La scuola delle mogli (1662), Tartufo (1664), Don Giovanni (1665), Il misantropo (1666), L’avaro (1668), Il malato immaginario (1673) –, nelle quali crea intrecci perfetti e caratteri straordinari, inventando battute diventate proverbiali e mettendo in scena trovate ampiamente saccheggiate da molti imitatori. Tartufo, per esempio, racconta la vicenda di una famiglia in cui penetra un giovane religiosissimo di umili origini, Tartufo. Tra lo sdegno dei parenti, questi conquista la fiducia del capofamiglia Orgon e di sua madre. Orgon si fida ciecamente di lui, gli affida documenti segreti e compromettenti, vuole dargli in moglie la figlia, intesta a suo nome tutti i propri beni. Ma Tartufo è in realtà un impostore, e per dimostrarlo la seconda moglie di Orgon, giovane e bella, persuade il marito a nascondersi sotto il tavolo mentre lei incontra l’uomo, che tenta di sedurla. Orgon scopre così l’ipocrisia del falso devoto, ma non può cacciarlo, avendogli donato i suoi beni. Il lieto fine è assicurato solo da un intervento dall’alto: il re, che tutto sa, teneva Tartufo sotto controllo, e ora lo rinchiude in prigione. 
L’intelligenza della sua satira fa di Molière il più grande interprete europeo della commedia. Pur cariche di una vitalità irrefrenabile e di una comicità tanto intensa da essere stata a volte accusata di grossolanità, le sue opere, anche le più buffe e spassose, sono però quasi sempre tinte di un umore nero, che permette all’autore di mettere a fuoco gli aspetti più nascosti dell’essere umano.
 
Nella Spagna in crisi: Lope de Vega, Tirso de Molina... 
Nella Spagna del Seicento, pesantemente segnata dalla cultura controriformistica e dalla consapevolezza storica di una crisi politica irreversibile, all’idealismo rinascimentale subentra un realismo venato di un desiderio di evasione nel sogno. I maggiori interpreti di questo clima culturale sono Félix Lope de Vega Carpio (1562-1635), Tirso de Molina (pseudonimo di Gabriel Téllez, ca 1584-1648) e Pedro Calderón de la Barca (1600-1681). 
Lope de Vega interpreta i gusti del suo pubblico e al tempo stesso le esigenze di riforma degli autori di teatro, che cercano in quel periodo nuove strade, prendendo le distanze dai precetti aristotelici rivitalizzati dai letterati del Cinquecento. Nel 1609 pubblica un trattatello intitolato Nuova arte di far commedie in questi tempi, in cui detta la sua formula per la commedia moderna: abbandono delle regole antiche e fusione di comico e tragico, a imitazione di quanto avviene nella vita reale; più che i precetti ricavati dalle opere degli autori antichi, il modello degli scrittori moderni deve essere la natura. La sua produzione per le scene ha del prodigioso: di lui ci sono giunte oltre quattrocento commedie, ma i suoi contemporanei gliene attribuivano più di mille. Una produzione così vasta è difficilmente classificabile e presenta una grande varietà di temi – storici, mitologici, religiosi, amorosi – e di forme. Lope de Vega è maestro nel costruire intrecci amorosi, intrighi e giochi d’apparenze ingannevoli, dove il sentimento trionfa a seguito di mille astuzie, raggiri e persino miracoli, come accade nella Dama sciocca (1613), in cui la forza della passione riesce a rendere intelligente persino la più stolta delle fanciulle. Giocando sul conflitto tra onore e amore, egli sa toccare anche le corde del tragico, come in Non è vendetta il castigo (1631) o nel Cavaliere di Olmedo (1620-1625). 
Di grande novità sono i cosiddetti "drammi dell’onore contadino" (come per esempio Fuenteovejuna, 1612-1614), nei quali l’autore mette in scena la rivolta di umili lavoratori delle campagne che, di fronte ai soprusi di un tirannico signore, si ribellano difendendo il proprio senso dell’onore. Lo spessore del conflitto, la forza delle passioni e l’animo nobile dei personaggi hanno assicurato a queste opere un successo duraturo, e in tempi moderni – in situazioni sociali di oppressione e di dittatura politica – non sono mancate letture in chiave democratica, che le hanno interpretate come una denuncia dell’arroganza del potere e una difesa della dignità umana. 
Seguace di Lope de Vega è Tirso de Molina, autore di oltre quattrocento opere nelle quali, rispetto al maestro, mostra una più raffinata capacità di approfondire la psicologia dei personaggi. Il suo talento di drammaturgo si esprime – oltre che in opere destinate a un duraturo successo come Don Gil dalle calze verdi (1615), Gli amanti di Teruel (1615) e La prudenza nella donna (1622) – in quello che è forse il suo testo più celebre, Il beffatore di Siviglia (1612-1620), che, riprendendo l’argomento dalle narrazioni popolari, inaugura la tradizione europea del personaggio letterario di Don Giovanni. 
Nell’altro suo dramma più famoso, Il condannato per mancanza di fede (1615), la meditazione dell’autore si spoglia di ogni gusto dell’intreccio e di ogni lusinga spettacolare per concentrarsi tutta sui problemi teologici del peccato e della dannazione, del libero arbitrio e della Grazia. L’opera segna un superamento del teatro di Lope de Vega anche dal punto di vista della religiosità. Infatti, mentre nei lavori precedenti il tema del peccato era solo uno degli aspetti della situazione drammatica, nel Condannato questo tema si fa vero nucleo del dramma, divenendo il tramite più suggestivo fra lo "spettacolo sacro" barocco dei primi anni del Seicento e il teatro teologico di Calderón de la Barca.

... e Calderón de la Barca 
Proprio Calderón de la Barca è stato, dalla morte di Lope de Vega, l’esponente principale della scena teatrale spagnola. Nel 1635, già famoso per le commedie, subentra a Lope de Vega in qualità di drammaturgo di corte. Riceve poi l’ordinazione sacerdotale (1651) e in seguito diventa cappellano d’onore del re (1663), esprimendo attraverso l’attività teatrale la propria fede nel cattolicesimo e nella monarchia. 
L’evoluzione della tecnica e dell’arte della scenografia consente a Calderón di usare macchinari complessi per creare – in omaggio a un gusto tipicamente barocco – "effetti speciali" sorprendenti, intensificati da canto, danza e musica, che stupiscono e affascinano il pubblico. Anche il suo stile suscita meraviglia per l’eleganza, la fantasia, la ricchezza di simboli e immagini insolite, i giochi di parole. 
Tale capacità inventiva diventa un poderoso strumento di persuasione nei testi in cui egli mette la sua arte al servizio del re e della Chiesa: consapevole della crisi politica e religiosa che attraversa un impero spagnolo in piena decadenza, l’autore tenta di rafforzare la monarchia e di reagire alla perdita di unità del mondo cattolico minacciato dalla Riforma protestante. A sostegno della religione scrive anche sacre rappresentazioni allegoriche composte per la festa del Corpus Domini, in cui si spiegano complesse questioni teologiche (come il mistero dell’eucaristia) e si esalta la fede cattolica: ricordiamo, tra questi, Il grande teatro del mondo (1655), dove la vita umana è vista come una rappresentazione teatrale in cui gli individui ricoprono i ruoli assegnati loro da Dio. 
L’opera più celebre di Calderón è il dramma fantastico La vita è sogno (1636). A causa di una tragica profezia annunciata dalle stelle (secondo la quale egli diventerà un tiranno crudele e violento), il protagonista, il principe Sigismondo, è stato privato della libertà da suo padre, il re Basilio, e vive prigioniero in una torre. Per essere messo alla prova, viene portato a palazzo sotto l’effetto di un sonnifero. Qui si comporta ferocemente, guidato dall’istinto e dal desiderio: oltraggia coloro che non assecondano il suo piacere, insidia la bella Rosaura, uccide un uomo di corte. 
A causa di tale condotta, che sembra dar ragione alle stelle e dimostrare la sua natura violenta, viene rinchiuso nuovamente nella torre: qui dubiterà di ciò che gli è accaduto e crederà di aver sognato. Liberato da una rivolta popolare e messo sul trono che gli spetta di diritto, farà tesoro della precedente esperienza: avendo appreso che persino quando si sogna è bene agire in modo retto, si comporterà saggiamente, senza cercare vendetta, ma perdonando il re e riportando pace e giustizia nel regno. In nome della ragion di Stato, infine, sposerà la cugina Estrella, rinunciando all’amata Rosaura. Grazie al dubbio che lo ha tenuto in bilico tra vita e sogno, Sigismondo matura interiormente, apprende l’arte della prudenza, impara a dominare istinti e passioni sottomettendoli al governo della ragione; egli può così recuperare identità e ruolo, ripristinare l’ordine sul caos, dimostrare che il libero arbitrio, vale a dire la capacità di scegliere tra il bene e il male, è più forte di ogni predestinazione.

I colori della letteratura ed. NUOVO ESAME DI STATO - volume 2
I colori della letteratura ed. NUOVO ESAME DI STATO - volume 2
Dal Seicento al primo Ottocento