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Nell’epilogo del Principe Machiavelli esprime chiaramente la vitalità appassionata della sua partecipazione politica e la tensione intellettuale con cui la sua opera si cala nella bruciante attualità del tempo. L’autore fa appello a sentimenti e ideali solitamente assenti dalla sua analisi: l’amore, la fede, la pietà, la speranza, la patria, la giustizia. Cita il nome di Dio (sei volte nelle rr. 14-40), accenna a missioni, redenzioni, predestinazioni. Abbandonato l’andamento argomentativo dei capitoli precedenti, egli non si accontenta più della teoria e ricorre alla fede per acquistare efficacia e forza di convincimento.
L’invito che egli formula – lo chiarisce subito – non nasce da una generica speranza. A renderlo concreto e praticabile, infatti, ci sono le circostanze: c’è l’occasione propizia per un principe saggio (r. 3), di redimere finalmente l’Italia. La convinzione è sostenuta dagli esempi del passato: i grandi fondatori di Stati del tempo antico hanno saputo cogliere l’opportunità di liberare i propri popoli quando erano nella più tragica condizione di oppressione. A maggior ragione, attende il suo liberatore l’Italia, che è più schiava degli Ebrei,
più serva dei Persiani, più dispersa degli Ateniesi (r. 11), ha sopportato ogni genere di calamità (r. 13) ed è pronta a seguire una bandiera, purché ci sia uno che la afferri (r. 22).