L’esperienza dell’esilio

Le origini e il Duecento – L'autore: Dante Alighieri

L’esperienza dell’esilio

La coerenza con cui Dante cerca di mettere in pratica i propri ideali politici, sin dagli anni in cui partecipa attivamente alla vita civile del Comune di Firenze, gli costerà la condanna a un esilio dal quale non tornerà più in patria.
L’esilio è un avvenimento capitale non soltanto per la sua biografia: quest’esperienza, da Dante profondamente sofferta, condizionerà nettamente lo svolgimento del suo pensiero e della sua poesia. Dapprima il poeta lotta insieme ai guelfi bianchi e con loro cerca di rientrare a Firenze, ma già prima del luglio 1304, disgustato dalla «compagnia malvagia e scempia [stolta]» (Paradiso, XVII, 62), se ne allontana e decide di rifiutare ulteriori contatti con quel gruppo.

La «dolorosa povertade» (di cui parla in Convivio, I, 3, 5) lo costringe ad approfittare della generosità dei vari principi. Per alcuni anni spera forse di essere richiamato in patria, e a tale scopo cerca sia di discolparsi con lettere e altri scritti dall’accusa di essere ghibellino (accusa che era nata soprattutto dal fatto che i ghibellini esuli si erano uniti ai bianchi a loro volta banditi), sia di incrementare la propria fama di dotto, producendo opere dottrinali e di più vasto impegno rispetto alle giovanili rime d’amore.

Nella Divina Commedia (Paradiso, XVII) il trisavolo di Dante, Cacciaguida, chiarirà al poeta, in via definitiva, le profezie parziali sull’esilio ricevute da diversi personaggi incontrati nel corso del viaggio oltremondano: «Tu lascerai ogne cosa diletta / più caramente; […] / Tu proverai sì come sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e ’l salir per l’altrui scale» (Dovrai abbandonare tutto ciò che ti è più caro; […] Sperimenterai quanto sia amaro il cibo degli altri e come sia un cammino faticoso [duro calle] scendere e salire le scale delle case altrui, vv. 55-60).

La condizione di Dante, staccatosi dai suoi compagni, è pressappoco quella dell’uomo di corte: accorrere qua e là dove si trovano signori in fama di liberalità verso gli uomini d’ingegno e di dottrina oppure di indole piacevole, ricercati perché possono risultare utili per gli affari più importanti o per offrire divertimento nella vita quotidiana.
Essere uomo di corte significa perciò vivere a contatto con i tipi umani più disparati: gente che va e viene, con gusti e scopi diversissimi, dalle persone di scienza ed esperienza politica ai buffoni e ai giullari. Spesso proprio questi ultimi sono i più graditi e i più remunerati. Possiamo senz’altro escludere che Dante, con la consapevolezza del proprio valore e con la sua indole, possa essersi sentito a suo agio in tali ambienti. Si capisce perciò come una simile vita gli abbia fatto sentire più vivo il desiderio della patria e di ciò che in essa ha lasciato di più caro.
Aggiungiamo infine che la parabola biografica di Dante può essere vista come esemplare del mutamento della condizione degli intellettuali che si svilupperà nel pieno Trecento e poi nei secoli successivi, cioè il passaggio dal servizio di un Comune a quello di una corte e di un signore (come vedremo chiaramente con Francesco Petrarca).

I colori della letteratura ed. NUOVO ESAME DI STATO - volume 1
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Dalle origini al Cinquecento