L’opera

Canti

Canti rappresentano l’esperienza fondamentale dell’intera attività letteraria di Giacomo Leopardi. Essi riflettono il suo doloroso percorso personale e, insieme, offrono idee e prospettive di riflessione valide universalmente ancora oggi. Non si tratta infatti di un intimistico sfogo romantico, bensì di una poesia che fa convergere bellezza delle immagini e tensione conoscitiva. I Canti ci parlano di illusioni giovanili, ricordi d’infanzia, angosce esistenziali, e del divario incolmabile tra le aspirazioni dell’individuo e i limiti della realtà; il poeta ha la straordinaria capacità di renderci partecipi della sua vita interiore, facendocela sentire, almeno in parte, anche nostra e suggerendo alle generazioni successive un messaggio di speranza non in un astratto futuro, ma in un presente da vivere con consapevolezza e solidarietà. Certo, nei Canti c’è il pessimismo, ma c’è soprattutto la scommessa sull’uomo e sulla sua dignità, che la natura e il destino, più ostili che amici, non sono in grado di piegare.

Nascita e sviluppo dell’opera

Prima dei Canti Sotto il titolo di Canti, nell’ordine che oggi conosciamo, Leopardi riunisce la gran parte delle sue composizioni poetiche, scritte in un ampio arco di tempo (dal 1817 al 1836) e apparse precedentemente, nel corso degli anni, in raccolte parziali: nel 1818 erano state pubblicate a Roma le canzoni All’Italia e Sopra il monumento di Dante; a Bologna nel 1820 era stata edita la canzone Ad Angelo Mai e nel 1824 le Canzoni (cioè le 9 canzoni giovanili); nel 1825-1826 il poeta aveva presentato a Milano, sulla rivista “Nuovo Ricoglitore”, gli Idilli (quelli che chiameremo “piccoli idilli”); infine nel 1826 era stata stampata, ancora a Bologna, una raccolta dal titolo Versi, che conteneva le canzoni e i “piccoli idilli”.

Un titolo che nasce tardi La scelta del titolo richiama i diversi momenti lirici che segnano la parabola poetica dell’autore, non racchiusa in un impianto unitario (come accadeva al Canzoniere petrarchesco), ma frammentata in una struttura aperta, che comprende temi diversi e forme assai varie (dalla canzone tradizionale a quella libera, senza schema metrico fisso, dall’epistola in versi all’idillio), suggerendo allo stesso tempo la presenza del carattere musicale dei testi, congeniale alla loro natura soggettiva e sentimentale.

Leopardi intitola Canti le sue poesie raccolte per la prima volta in un’edizione del 1831, uscita a Firenze presso l’editore Piatti, che conta 23 testi. Il titolo viene conservato anche in una successiva edizione del 1835, stampata questa volta a Napoli, che giunge a 39 testi (si aggiungono infatti altri 16 componimenti, tra i quali quelli del cosiddetto “ciclo di Aspasia”). Dopo la morte dell’autore, nel 1845 esce a Firenze, presso Le Monnier, un’edizione, curata da Antonio Ranieri nel primo volume delle Opere complessive, che annovera per la prima volta Il tramonto della luna e La ginestra: il libro si attesta così definitivamente su 41 componimenti.

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Non una raccolta, ma un libro Nonostante l’ispirazione dei diversi testi sia talvolta discontinua, perfino contraddittoria, e non permetta di designare un coerente sviluppo narrativo, tuttavia il volume risponde a un preciso progetto dell’autore e a un ben meditato itinerario sentimentale, esistenziale e filosofico. Dobbiamo infatti considerare i Canti non una semplice raccolta, bensì un libro costruito secondo un ordine significativo e tutt’altro che casuale; un libro, cioè, nel quale i diversi componimenti, pur essendo poeticamente autosufficienti, stanno in una relazione reciproca, essendo ordinati sulla base di partizioni interne cronologiche, tematiche e di genere.

Senza trascurare il piano diacronico, cercheremo però di evidenziare lo svolgimento del percorso leopardiano riunendo le diverse poesie in gruppi omogenei e seguendo l’ordinamento in cui ciascuna di esse appare nel volume, prescindendo dalla data di stesura.

Angelo Mai, un geniale filologo

Pelagio Pelagi, poliedrico artista bolognese, ma anche collezionista e bibliofilo, ritrae Angelo Mai cogliendone, con enfatica espressività, lo stato d’animo e il temperamento. Il giovane filologo gesuita aveva appreso che con l’uso di una spugna imbevuta di un acido vegetale era possibile rendere visibile l’inchiostro sbiadito dei codici antichi e riportare così alla luce preziose testimonianze. Dal 1810 fu ammesso come dottore alla Biblioteca Ambrosiana i Milano e vi rimase fino all’inizio dell’autunno del 1819, prima di trasferirsi alla Biblioteca Vaticana. Grazie a fortunate intuizioni e soprattutto a una sistematica e accurata ricerca nei fondi antichi, ritrovò nelle collezioni ambrosiane frammenti inediti di opere classiche di capitale importanza: sei orazioni di Cicerone, passi di Plauto e Terenzio, le Antichità romane di Dionigi di Alicarnasso. Il ritratto lo celebra proprio nello studio ambrosiano, mentre tra scaffali di libri indica fiero uno dei suoi ritrovamenti.

Volti e luoghi della letteratura - Giacomo Leopardi
Volti e luoghi della letteratura - Giacomo Leopardi