La vita
L’ambiente familiare e la formazione
Casa Leopardi Nel 1798 il borgo di Recanati si trova ai confini di uno degli Stati più arretrati d’Italia, quello pontificio, in una realtà del tutto marginale, lontana dai fermenti politici, sociali e culturali suscitati in Italia e buona parte dell’Europa prima dalla cultura illuminista e poi dagli ideali della Rivoluzione francese. In quell’anno, nel piccolo centro marchigiano, nasce Giacomo Leopardi, primogenito di una nobile casata, figlio del conte Monaldo e di Adelaide Antici. Il padre, eccentrica figura di gentiluomo di provincia, è un bibliofilo erudito, infaticabile intellettuale conservatore, difensore accanito della politica ecclesiastica, tenace oppositore di ogni riforma politica. Genitore affettuoso quanto possessivo, esercita da subito un’influenza fondamentale nel favorire l’inclinazione del figlio alle lettere: possiede infatti una notevole biblioteca ricca di opere classiche, filosofiche e teologiche, per la quale ha dilapidato il pur cospicuo patrimonio. La madre, austera e rigorosamente religiosa, è una donna poco incline alle manifestazioni di affetto: la sua inattaccabile severità è dovuta soprattutto all’educazione bigotta e alla pesante responsabilità di far fronte a un bilancio familiare reso pericolante dalle avventate speculazioni finanziarie del marito.
Giacomo vive la sua fanciullezza in questo ambiente: una fanciullezza, tuttavia, non infelice, vivacizzata dai giochi con i fratelli minori Carlo e Paolina (i fratelli sono complessivamente dieci, ma solo alcuni supereranno l’infanzia), ai quali racconta favole ispirategli dalla sua innata fantasia.
Un genio precoce e autodidatta Il ragazzo ha un’intelligenza prodigiosa; inizialmente è educato da precettori ecclesiastici che però non sono in grado di impartirgli insegnamenti adeguati alle sue possibilità, poi si forma come autodidatta: nelle quattro stanze della biblioteca paterna, tappezzate da quasi 16 000 volumi, apprende il greco e l’ebraico, si cimenta nelle prime prove filologiche, immagina sui libri l’esistenza di una realtà viva e lontana dal suo angusto e gretto mondo paesano. Sono gli anni (1808-1815) che Leopardi stesso immortala come quelli dello «studio matto e disperatissimo», che gli procura una straordinaria erudizione.
A questo periodo risalgono i primi componimenti, già espressione di ampi interessi culturali: si spazia dai versi in latino a quelli in volgare di ispirazione classicistica o arcadica (è il caso di tragedie come La virtù indiana, scritta nel 1811 a soli tredici anni, e Pompeo in Egitto, 1812), dalle traduzioni poetiche (Orazio, Mosco e l’Odissea soprattutto) agli studi filologici, dai trattati di argomento scientifico (Storia dell’astronomia, 1813) alle ricerche di stampo illuministico (Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, 1815).
Le “conversioni” e l’infelicità del giovane poeta
Dall’erudizione alla poesia Giacomo non ha ancora abbandonato le idee paterne, conservatrici in politica, religione e letteratura, quando nel 1817 l’amicizia epistolare con lo scrittore Pietro Giordani (1774-1848), intellettuale laico e democratico, lo stimola a un importante ampliamento di prospettive. È in questa fase che possiamo situare la cosiddetta “conversione letteraria”, ossia il passaggio dalla fase erudita e di studio a quella della composizione creativa. Infatti, dopo aver letto i poeti contemporanei – da Foscolo a Goethe, da Alfieri a Monti – e preso posizione nella polemica tra Classicisti e Romantici con una Lettera ai sigg. compilatori della “Biblioteca italiana” (in risposta al saggio di Madame de Staël), che però non viene pubblicata, dà avvio nel 1819 alla sua vera e propria produzione lirica con la stesura dei primi Idilli.
Malinconia e disperazione A soli vent’anni la sua salute incomincia a essere minata: Leopardi soffre di scoliosi, di febbri continue e soprattutto di disturbi agli occhi. Nel contempo emergono i primi segni di insoddisfazione e di malessere, per cui il giovane accusa soprattutto il paese e l’ambiente retrogrado in cui vive, «tana, caverna», dove «tutto è morte, tutto è insensataggine e stupidità». In particolare l’amicizia con Giordani gli fa prendere coscienza del desiderio di uscire dall’anonimato e confrontarsi con una cultura più ampia e moderna, acuendo in lui la percezione di costrizione e soffocamento che prova a contatto con un mondo opprimente.
Il bisogno di spezzare l’isolamento si traduce nel progetto di abbandonare il paese: così, nel 1819, egli tenta invano una fuga da Recanati, spinto dal desiderio di sottrarsi alla noia e alla disperazione, ma il passaporto, che segretamente si è fatto fare, finisce nelle mani del padre. Scrive in diverse lettere a Giordani di sentirsi «mangiato dalla malinconia, zeppo di desiderii, attediato, arrabbiato» (agosto 1818), «stordito dal niente che mi circonda», senza «più lena di concepire nessun desiderio, né anche della morte, non perch’io la tema in nessun conto, ma non vedo più divario tra la morte e questa mia vita, dove non viene più a consolarmi neppure il dolore» (novembre 1819), «stecchito e inaridito come una canna secca, e nessuna passione trova più l’entrata di questa povera anima» (marzo 1820).
Un’amicizia intellettuale: Giordani e Canova
Pietro Giordani fu un letterato dai molteplici interessi e dalle variegate amicizie: nel 1810 compose il Panegirico ad Antonio Canova per celebrare la lunga amicizia che lo legava allo scultore veneto, massimo artista del Neoclassicismo italiano. I due si incontrano a Roma nel 1806, quando Canova è già molto affermato: ne nasce un lungo scambio epistolare che prosegue per decenni e che testimonia del reale sentimento di affetto intellettuale che intercorreva tra Giordani e lo scultore, ormai all’apice della fama. Nel 1809 Canova aveva infatti realizzato uno dei suoi capolavori, il Ritratto di Paolina Borghese in veste di Venere vincitrice, che ritrae Paolina Bonaparte, la sposa di Camillo Borghese, allungata su un letto coperto da morbidi cuscini, come una dea antica, mentre regge in mano una mela che allude al giudizio di Paride.
In cerca della libertà
Il soggiorno romano Nel novembre 1822 Leopardi ottiene di poter lasciare Recanati e coronare il sogno di conoscere, dal vivo e non solo dalle pagine dei libri, realtà diverse che, secondo le sue illusioni giovanili, gli permetteranno di sfuggire alla morsa della sofferenza esistenziale.
La meta è Roma, dove lo zio Carlo Antici, persona con buone entrature, spera di fargli ottenere una sistemazione presso la Curia. Il progetto però non va in porto e il soggiorno di Leopardi termina nell’aprile del 1823: cinque mesi segnati dalla profonda amarezza nel constatare la distanza tra la città immaginata e quella reale, che egli trova vuota, corrotta, dissipata, popolata da intellettuali boriosi e provinciali, occupati in sterili diatribe accademiche.
Al ritorno a Recanati, il poeta traccia un primo bilancio della propria esistenza, straziato dalla sensazione di aver scoperto la propria infinita solitudine. Così scrive al padre Monaldo pochi giorni prima di tornare a casa: «Io sono naturalmente inclinato alla vita solitaria. […] nella solitudine io rodo e divoro me stesso. […] qualunque soggiorno m’è indifferentissimo».
Gli ultimi anni
Tra Pisa e Recanati Nella primavera del 1828, Leopardi è intanto tornato alla poesia, come scrive egli stesso nella lettera del 2 maggio 1828, alla sorella Paolina: «E dopo due anni, ho fatto dei versi quest’Aprile, ma versi veramente all’antica, e con quel mio cuore d’una volta». Si tratta dei cosiddetti “grandi idilli”, altrimenti detti “canti pisano-recanatesi”. Vengono infatti composti tra Pisa e Recanati, dove il poeta è costretto a tornare («l’orrenda notte di Recanati mi aspetta», scrive il 19 giugno 1828 all’amica Antonietta Tommasini) a causa dell’aggravarsi delle sue condizioni di salute, e dove vive fino al 1830.
Le delusioni fiorentine Un gruppo di amici toscani lo invita nuovamente a Firenze, promettendogli una rendita mensile per un anno: si tratta degli intellettuali che collaborano al progetto culturale del ginevrino Giovan Pietro Vieusseux, che pubblica la rivista “Antologia”. Il poeta accetta, nonostante il profondo dissenso ideologico che lo separa dall’ottimismo liberal-progressista che si respira nelle riunioni del circolo. Il 30 aprile 1830 Giacomo saluta per l’ultima volta i genitori e lascia la casa paterna: non tornerà più a Recanati.
Il soggiorno fiorentino sembra riaccendere le illusioni sopite: Leopardi è ospite di salotti raffinati, animati dalla presenza di dame intriganti. Tra queste, emerge la «Dama bellissima e gentilissima», Fanny Targioni Tozzetti, una nobildonna un po’ svampita che ostenta cultura letteraria collezionando autografi di letterati famosi. Il sentimento che la donna suscita nel poeta è il più appassionato che egli abbia mai provato, ma la speranza che il suo amore sia ricambiato è di breve durata: dopo la delusione di questa esperienza, Giacomo lascia Firenze.