T9 - Dialogo di Plotino e di Porfirio (dalle Operette morali)

T9

Dialogo di Plotino e di Porfirio

Operette morali, 22

Composto nel 1827, il dialogo affronta il tema del suicidio, trattato attraverso il confronto tra Plotino e Porfirio, due filosofi neoplatonici vissuti tra il II e III secolo d.C. Il primo si è reso conto che l’amico, consapevole della vanità della vita, sta meditando di suicidarsi e cerca di fargli cambiare idea. Ciascuno dei due filosofi propone validi argomenti a sostegno di tesi opposte: Porfirio afferma che la morte è l’unica via d’uscita dall’infelicità cui sono destinati gli uomini; Plotino oppone al lucido ragionamento dell’interlocutore una serie di considerazioni sull’istinto di conservazione insito in tutti gli esseri e lo invita a non causare, con la sua morte volontaria, dolore a coloro che lo amano, sostenendo il valore della solidarietà e dell’amore tra gli uomini.

Una volta essendo io Porfirio entrato in pensiero di levarmi la vita, Plotino se ne

avvide: e venutomi innanzi improvvisamente, che io era in casa; e dettomi, non

procedere sì fatto pensiero da discorso di mente sana, ma da qualche indisposizione 

malinconica; mi strinse che io mutassi paese.1

[…]

5      PLOTINO Porfirio, tu sai ch’io ti sono amico; e sai quanto: e non ti dei2 maravigliare

se io vengo osservando i tuoi fatti e i tuoi detti e il tuo stato con una certa 

curiosità; perché nasce da questo, che tu mi stai sul cuore.3 Già sono più giorni 

che io ti veggo tristo e pensieroso molto; hai una certa guardatura,4 e lasci andare

certe parole: in fine, senza altri preamboli e senza aggiramenti, io credo 

10    che tu abbi in capo una mala intenzione.

Porfirio Come, che vuoi tu dire?

PloTino Una mala intenzione contro te stesso. Il fatto è stimato cattivo augurio a

nominarlo.5 Vedi, Porfirio mio, non mi negare il vero;6 non far questa ingiuria

a tanto amore che noi ci portiamo insieme da tanto tempo. So bene che io ti

15    fo dispiacere a muoverti questo discorso; e intendo che ti sarebbe stato caro

di tenerti il tuo proposito celato: ma in cosa di tanto momento io non poteva

tacere; e tu non dovresti avere a male di conferirla7 con persona che ti vuol

tanto bene quanto a se stessa. Discorriamo insieme riposatamente,8 e andiamo

20    pensando le ragioni: tu sfogherai l’animo tuo meco, ti dorrai,9 piangerai; che

io merito da te questo: e in ultimo io non sono già10 per impedirti che tu non

facci quello che noi troveremo che sia ragionevole, e di tuo utile.

Porfirio Io non ti ho mai disdetto11 cosa che tu mi domandassi, Plotino mio. Ed

ora confesso a te quello che avrei voluto tener segreto, e che non confesserei

ad altri per cosa alcuna del mondo; dico che quel che tu immagini della mia

25    intenzione, è la verità. Se ti piace che noi ci ponghiamo a ragionare sopra questa

materia; benché l’animo mio ci ripugna molto, perché queste tali deliberazioni

pare che si compiacciano di un silenzio altissimo, e che la mente in così fatti

pensieri ami di essere solitaria e ristretta12 in se medesima più che mai; pure io

sono disposto di fare anche di ciò a tuo modo. Anzi incomincerò io stesso; e

30    ti dirò che questa mia inclinazione non procede da alcuna sciagura che mi sia

intervenuta, ovvero che io aspetti che mi sopraggiunga: ma da un fastidio della

vita; da un tedio che io provo, così veemente, che si assomiglia a dolore e a spasimo; 

da un certo non solamente conoscere, ma vedere, gustare, toccare la vanità

di ogni cosa13 che mi occorre nella giornata. Di maniera che non solo l’intelletto

35    mio, ma tutti i sentimenti, ancora del corpo, sono (per un modo di dire strano,

ma accomodato al caso) pieni di questa vanità.14 E qui primieramente non mi

potrai dire che questa mia disposizione non sia ragionevole: se bene io consentirò 

facilmente che ella in buona parte provenga da qualche mal essere corporale. 

Ma ella nondimeno è ragionevolissima: anzi tutte le altre disposizioni degli

40    uomini fuori di questa, per le quali, in qualunque maniera, si vive, e stimasi che

la vita e le cose umane abbiano qualche sostanza; sono, qual più qual meno,

rimote dalla ragione, e si fondano in qualche inganno e in qualche immaginazione 

falsa.15 E nessuna cosa è più ragionevole che la noia. I piaceri sono tutti

vani. Il dolore stesso, parlo di quel dell’animo, per lo più è vano: perché se tu

45    guardi alla causa ed alla materia, a considerarla bene, ella è di poca realtà o di

nessuna. Il simile dico del timore; il simile della speranza. Solo la noia, la qual

nasce sempre dalla vanità delle cose, non è mai vanità, non inganno; mai non è

fondata in sul falso. E si può dire che, essendo tutto l’altro vano, alla noia riducasi, 

e in lei consista, quanto la vita degli uomini ha di sostanzievole e di reale.16

50    PLOTINO Sia così. Non voglio ora contraddirti sopra questa parte. Ma noi dobbiamo 

adesso considerare il fatto che tu vai disegnando:17 dico, considerarlo più

strettamente, e in se stesso. Io non ti starò a dire che sia sentenza di Platone,18

come tu sai, che all’uomo non sia lecito, in guisa di servo fuggitivo, sottrarsi di

propria autorità da quella quasi carcere nella quale egli si ritrova per volontà

55    degli Dei; cioè privarsi della vita spontaneamente.

Porfirio Ti prego, Plotino mio; lasciamo da parte adesso Platone, e le sue dottrine, 

e le sue fantasie. Altra cosa è lodare, commentare, difendere certe opinioni

nelle scuole e nei libri; ed altra è seguitarle nell’uso pratico. Alla scuola e nei

libri, siami stato lecito approvare i sentimenti di Platone e seguirli; poiché tale

60    è l’usanza oggi: nella vita, non che gli approvi, io piuttosto gli abbomino.19 So

ch’egli si dice che Platone spargesse negli scritti suoi quelle dottrine della vita

avvenire, acciocché gli uomini, entrati in dubbio e in sospetto circa lo stato loro

dopo la morte; per quella incertezza, e per timore di pene e di calamità future,

si ritenessero nella vita dal fare ingiustizia e dalle altre male opere.20 Che se io

65    stimassi che Platone fosse stato autore di questi dubbi, e di queste credenze; e

che elle fossero sue invenzioni; io direi: tu vedi, Platone, quanto o la natura o il

fato o la necessità, o qual si sia potenza autrice e signora dell’universo, è stata ed

è perpetuamente inimica alla nostra specie. Alla quale molte, anzi innumerabili

ragioni potranno contendere quella maggioranza21 che noi, per altri titoli, ci

70    arroghiamo di avere tra gli animali; ma nessuna ragione si troverà che le tolga

quel principato che l’antichissimo Omero le attribuiva; dico il principato della

infelicità.22 Tuttavia la natura ci destinò per medicina di tutti i mali la morte: la 

quale da coloro che non molto usassero il discorso dell’intelletto, saria poco

temuta; dagli altri desiderata.23 E sarebbe un conforto dolcissimo nella vita nostra, 

75    piena di tanti dolori, l’aspettazione e il pensiero del nostro fine. Tu con questo 

dubbio terribile, suscitato da te nelle menti degli uomini, hai tolta da questo 

pensiero ogni dolcezza, e fattolo il più amaro di tutti gli altri. Tu sei cagione 

che si veggano gl’infelicissimi mortali temere più il porto che la tempesta, e 

rifuggire coll’animo da quel solo rimedio e riposo loro, alle angosce presenti e

80    agli spasimi della vita. Tu sei stato agli uomini più crudele che il fato o la necessità 

o la natura. E non si potendo questo dubbio in alcun modo sciorre,24 né le

menti nostre esserne liberate mai, tu hai recati per sempre i tuoi simili a questa

condizione, che essi avranno la morte piena d’affanno, e più misera che la vita.

Perciocché per opera tua, laddove tutti gli altri animali muoiono senza timore

85    alcuno, la quiete e la sicurtà dell’animo sono escluse in perpetuo dall’ultima ora

dell’uomo. Questo mancava, o Platone, a tanta infelicità della specie umana.

[…]

PloTino Porfirio, veramente io amo Platone, come tu sai. Ma non è già per questo,

che io voglia discorrere per autorità; massimamente poi teco e in una questione

90    tale: ma io voglio discorrere per ragione.25 E se ho toccato così alla sfuggita quella 

tal sentenza platonica, io l’ho fatto più per usare come una sorta di proemio,

che per altro. E ripigliando il ragionamento ch’io aveva in animo, dico che non

Platone o qualche altro filosofo solamente, ma la natura stessa par che c’insegni

che il levarci dal mondo di mera volontà nostra, non sia cosa lecita. Non accade

95    che io mi distenda circa questo articolo:26 perché se tu penserai un poco, non

può essere che tu non conosca27 da te medesimo che l’uccidersi di propria mano

senza necessità, è contro natura. Anzi, per dir meglio, è l’atto più contrario a natura, 

che si possa commettere. Perché tutto l’ordine delle cose saria sovvertito, se

quelle si distruggessero da se stesse. E par che abbia repugnanza che uno si vaglia

100 della vita a spegnere essa vita, che l’essere ci serva al non essere.28 Oltre che se pur

cosa alcuna ci è ingiunta e comandata dalla natura, certo ci comanda ella strettissimamente 

e sopra tutto, e non solo agli uomini, ma parimente a qualsivoglia

creatura dell’universo di attendere29 alla conservazione propria, e di procurarla in 

tutti i modi; ch’è il contrario appunto dell’uccidersi. E senza altri argomenti, non 

105 sentiamo noi che la inclinazione nostra da per se stessa ci tira,30 e ci fa odiare la 

morte, e temerla, ed averne orrore, anche a dispetto nostro?31 Or dunque, poiché 

questo atto dell’uccidersi, è contrario a natura; e tanto contrario quanto noi veggiamo; 

io non mi saprei risolvere che fosse lecito.

Porfirio Io ho considerata già tutta questa parte: che, come tu hai detto, è impossibile 

110 che l’animo non la scorga, per ogni poco che uno si fermi a pensare 

sopra questo proposito. Mi pare che alle tue ragioni si possa rispondere con 

molte altre, e in più modi: ma studierò d’esser breve. Tu dubiti se ci sia lecito di 

morire senza necessità: io ti domando se ci è lecito di essere infelici. La natura 

vieta l’uccidersi. Strano mi riuscirebbe che non avendo ella o volontà o potere di 

115 farmi né felice né libero da miseria, avesse facoltà di obbligarmi a vivere. Certo 

se la natura ci ha ingenerato32 amore della conservazione propria, e odio della 

morte; essa non ci ha dato meno odio della infelicità, e amore del nostro meglio;

anzi tanto maggiori e tanto più principali queste ultime inclinazioni che quelle,

quanto che la felicità è il fine di ogni nostro atto, e di ogni nostro amore e odio;

120 e che non si fugge la morte, né la vita si ama, per se medesima, ma per rispetto

e amore del nostro meglio, e odio del male e del danno nostro. Come dunque

può esser contrario alla natura, che io fugga la infelicità in quel solo modo che

hanno gli uomini di fuggirla? che è quello di tormi33 dal mondo: perché mentre

son vivo, io non la posso schifare.34 E come sarà vero che la natura mi vieti di

125 appigliarmi alla morte, che senza alcun dubbio è il mio meglio; e di ripudiar la

vita, che manifestamente mi viene a esser dannosa e mala; poiché non mi può

valere ad altro che a patire, e a questo per necessità mi vale e mi conduce in fatto?

PloTino A ogni modo queste cose non mi persuadono che l’uccidersi da se stesso

non sia contro natura: perché il senso nostro porta troppo manifesta contrarietà 

130 e abborrimento alla morte: e noi veggiamo che le bestie; le quali (quando

non sieno forzate dagli uomini o sviate) operano in ogni cosa naturalmente;

non solo non vengono mai a questo atto, ma eziandio per quanto che sieno

tribolate e misere, se ne dimostrano alienissime. E in fine non si trova, se non

fra gli uomini soli qualcuno che lo commette: e non mica fra quelle genti che

135 hanno un modo di vivere naturale;35 che di queste non si troverà niuno che

non lo abbomini,36 se pur ne avrà notizia o immaginazione alcuna; ma solo fra

queste nostre alterate e corrotte,37 che non vivono secondo natura.

Porfirio Orsù, io ti voglio concedere anco, che questa azione sia contraria a natura, 

come tu vuoi. Ma che val questo; se noi non siamo creature naturali, per 

140 dir così? intendo degli uomini inciviliti.38 Paragonaci, non dico ai viventi di 

ogni altra specie che tu vogli, ma a quelle nazioni là delle parti dell’India e della

Etiopia, le quali, come si dice, ancora serbano quei costumi primitivi e silvestri;

e a fatica ti parrà che si possa dire, che questi uomini e quelli sieno creature di

una specie medesima. E questa nostra, come a dire, trasformazione; e questa

145 mutazion di vita, e massimamente d’animo; io quanto a me, ho avuto sempre

per fermo che non sia stata senza infinito accrescimento d’infelicità. Certo che

quelle genti salvatiche non sentono mai desiderio di finir la vita; né anco va loro

per la fantasia che la morte si possa desiderare: dove che gli uomini costumati

a questo modo nostro e, come diciamo, civili, la desiderano spessissime volte,

150  e alcune se la procacciano.39 Ora, se è lecito all’uomo incivilito, e vivere contro

natura, e contro natura essere così misero; perché non gli sarà lecito morire

contro natura? essendo che da questa infelicità nuova, che risulta a noi dall’alterazione 

dello stato, non ci possiamo anco liberare altrimenti, che colla morte.

[…]

PLOTINO  Così è veramente, Porfirio mio. Ma con tutto questo, lascia ch’io ti consigli, 

ed anche sopporta che ti preghi, di porgere orecchie, intorno a questo tuo

155  disegno, piuttosto alla natura che alla ragione. E dico a quella natura primitiva, 

a quella madre nostra e dell’universo; la quale se bene non ha mostrato di

amarci, e se bene ci ha fatti infelici, tuttavia ci è stata assai meno inimica e malefica, 

che non siamo stati noi coll’ingegno proprio, colla curiosità incessabile40

e smisurata, colle speculazioni, coi discorsi, coi sogni, colle opinioni e dottrine

160  misere: e particolarmente, si è sforzata ella di medicare la nostra infelicità con

occultarcene, o con trasfigurarcene, la maggior parte. E quantunque sia grande

l’alterazione nostra, e diminuita in noi la potenza della natura; pur questa non

è ridotta a nulla, né siamo noi mutati e innovati tanto, che non resti in ciascuno

gran parte dell’uomo antico. Il che, mal grado che n’abbia la stoltezza nostra,41

165  mai non potrà essere altrimenti. Ecco, questo che tu nomini error di computo;42

veramente errore, e non meno grande che palpabile; pur si commette di continuo; 

e non dagli stupidi solamente e dagl’idioti, ma dagl’ingegnosi, dai dotti,

dai saggi; e si commetterà in eterno, se la natura, che ha prodotto questo nostro

genere, essa medesima, e non già il raziocinio e la propria mano degli uomini,

170 non lo spegne. E credi a me, che non è fastidio della vita, non disperazione, non

senso della nullità delle cose, della vanità delle cure, della solitudine dell’uomo;

non odio del mondo e di se medesimo; che possa durare assai: benché queste

disposizioni dell’animo sieno ragionevolissime, e le lor contrarie irragionevoli.

Ma contuttociò, passato un poco di tempo; mutata leggermente la disposizione

175 del corpo; a poco a poco; e spesse volte in un subito, per cagioni menomissime43 

e appena possibili a notare; rifassi44 il gusto alla vita, nasce or questa

or quella speranza nuova, e le cose umane ripigliano quella loro apparenza, e

mostransi non indegne di qualche cura; non veramente all’intelletto; ma sì, per

modo di dire, al senso dell’animo. E ciò basta all’effetto di fare che la persona,

180 quantunque ben conoscente e persuasa della verità, nondimeno a mal grado

della ragione, e perseveri nella vita, e proceda in essa come fanno gli altri: perché

quel tal senso (si può dire), e non l’intelletto, è quello che ci governa.

Sia ragionevole l’uccidersi; sia contro ragione l’accomodar l’animo alla vita:

certamente quello è un atto fiero e inumano. E non dee piacer più, né vuolsi 

185 elegger piuttosto di essere secondo ragione un mostro, che secondo natura 

uomo. E perché anche non vorremo noi avere alcuna considerazione degli

amici; dei congiunti di sangue; dei figliuoli, dei fratelli, dei genitori, della moglie; 

delle persone familiari e domestiche, colle quali siamo usati di vivere da

gran tempo; che, morendo, bisogna lasciare per sempre: e non sentiremo in

190 cuor nostro dolore alcuno di questa separazione; né terremo conto di quello

che sentiranno essi, e per la perdita di persona cara o consueta, e per l’atrocità

del caso? Io so bene che non dee l’animo del sapiente essere troppo molle; né

lasciarsi vincere dalla pietà e dal cordoglio in guisa, che egli ne sia perturbato,45 

che cada a terra, che ceda e che venga meno come vile, che si trascorra46

195 a lagrime smoderate, ad atti non degni della stabilità di colui che ha pieno e

chiaro conoscimento della condizione umana. Ma questa fortezza d’animo si

vuole usare in quegli accidenti tristi che vengono dalla fortuna, e che non si

possono evitare; non abusarla in privarci spontaneamente, per sempre, della

vista, del colloquio, della consuetudine dei nostri cari. Aver per nulla il dolore

200 della disgiunzione e della perdita dei parenti, degl’intrinsechi,47 dei compagni;

o non essere atto a sentire di sì fatta cosa dolore alcuno; non è di sapiente, ma

di barbaro. Non far niuna stima di addolorare colla uccisione propria gli amici

e i domestici; è di non curante d’altrui, e di troppo curante di se medesimo. E

in vero, colui che si uccide da se stesso, non ha cura né pensiero alcuno degli

205 altri; non cerca se non la utilità propria; si gitta, per così dire, dietro alle spalle

i suoi prossimi, e tutto il genere umano: tanto che in questa azione del privarsi

di vita, apparisce il più schietto, il più sordido, o certo il men bello e men liberale 

amore di se medesimo, che si trovi al mondo.

In ultimo, Porfirio mio, le molestie e i mali della vita, benché molti e continui, 

210  pur quando, come in te oggi si verifica, non hanno luogo infortuni e calamità 

straordinarie, o dolori acerbi del corpo; non sono malagevoli da tollerare;

massime48 ad uomo saggio e forte, come tu sei. E la vita è cosa di tanto piccolo

rilievo, che l’uomo, in quanto a se, non dovrebbe esser molto sollecito né di ritenerla 

né di lasciarla. Perciò, senza voler ponderare la cosa troppo curiosamente;49

215 per ogni lieve causa che se gli offerisca di appigliarsi piuttosto a quella prima parte 

che a questa, non dovria ricusare di farlo.50 E pregatone da un amico, perché

non avrebbe a compiacergliene?51 Ora io ti prego caramente, Porfirio mio, per la

memoria degli anni che fin qui è durata l’amicizia nostra, lascia cotesto pensiero; 

non volere esser cagione di questo gran dolore agli amici tuoi buoni, che ti

220 amano con tutta l’anima; a me, che non ho persona più cara, né compagnia più

dolce. Vogli piuttosto aiutarci a sofferir52 la vita, che così, senza altro pensiero

di noi, metterci in abbandono. Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme:

non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della

nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; andiamoci

225 incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel

miglior modo questa fatica della vita. La quale senza alcun fallo sarà breve. E

quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quest’ultimo tempo

gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che53

saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora.

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Dentro il TESTO

I contenuti tematici

Se il dolore è connaturato alla vita umana e se mistificare o edulcorare la condizione in cui versa l’umanità è un atto di viltà, come si può provare – quasi disperatamente – il gusto alla vita (r. 176)? La risposta data da Leopardi si basa su uno dei cardini della sua filosofia, pessimistica ma non nichilistica: la considerazione dell’uomo come creatura infelice da confortare grazie alla pietà, alla solidarietà e a quell’affettuoso legame che dovrebbe istituirsi tra il singolo individuo e la comunità umana di cui fa parte.

A questo approdo Leopardi giunge dopo aver affrontato lo snodo decisivo del suicidio, tragica ma razionale soluzione per chi ha acquisito una coscienza definitiva della sorte sventurata che la natura ha destinato ai viventi. Nel trattare questo tema, egli sceglie un approccio problematico che si sviluppa in questa operetta attraverso il confronto tra due filosofi che sostengono tesi opposte. Per Porfirio il suicidio è una legittima soluzione all’infelicità, mentre di parere opposto è Plotino, che vuol dissuadere l’amico dal suo proposito.

Non è una particolare situazione di difficoltà che conduce Porfirio a pensare al suicidio, ma la vanità di tutte le cose: sia il piacere sia il dolore sono accidenti passeggeri, ciò che invece permea in modo costante la vita è il tedio, la noia. Egli analizza con lucidità inesorabile lo stato umano e smonta le credenze sulla vita ultraterrena. In particolare prende in considerazione alcuni insegnamenti attribuiti a Platone (attribuzione che poi lui stesso mette in dubbio) che avrebbero lo scopo, utile più alla società che non all’individuo, di scoraggiare dall’agire contro gli altri per timore di pene e di calamità future (r. 63). Porfirio mette in dubbio che questo risultato sia ottenibile, in quanto ritiene che il timore della punizione dopo la morte sia efficace solo per gli spiriti deboli e influenzabili. Ma soprattutto sostiene che la prospettiva di una vita ultraterrena accresca l’infelicità dell’uomo, in quanto gli rende più incerto e difficile affidarsi alla morte, l’unico rimedio che la natura nemica gli ha concesso per porre fine ai suoi mali.

Crudele è dunque trattenere dal suicidio, proponendo un’immagine incerta e dubbiosa della morte che potrebbe portare a una sofferenza eterna. Sotto la critica del platonismo si individua la polemica leopardiana contro il cattolicesimo e il progressismo liberale, che si illudono e illudono gli uomini con le idee della beatitudine eterna e di un progresso indefinito.

Ai ragionamenti di Porfirio, Plotino si oppone suggerendo di osservare la natura e le sue leggi, che rischierebbero il sovvertimento se il principio di distruzione dovesse prevalere su quello di conservazione. Per questo esistono l’amor proprio, che fa tendere tutti i viventi al mantenimento della vita, e l’orrore della morte, che agisce nelle bestie e negli esseri viventi in armonia con la natura, come le popolazioni primitive, non ancora alterate e corrotte (r. 136) dalla civiltà e dalla ragione, mentre gli uomini inciviliti (r. 139), cioè i moderni, desiderano spesso la morte. 

Mentre Plotino non crede che sia lecito uccidersi, cioè fare qualcosa contro natura (r. 128), Porfirio sostiene che la natura ha sì insegnato all’uomo l’amore per sé stesso, ma anche l’odio per l’infelicità, che la modernità ha accresciuto, allontanando l’umanità da quella benefica vicinanza alla natura che caratterizzava le epoche primitive.

Tuttavia, secondo Plotino, una parte dell’uomo antico (r. 164) sopravvive ancora in quello moderno. Proprio questa superstite natura primitiva (rr. 155-156) è meno nemica dell’uomo di quanto non sia l’intelletto che svela le illusioni e i mascheramenti dell’infelicità. Grazie a essa si può lasciare spazio al senso dell’animo (r. 179), vale a dire a un sentimento interiore che va oltre la ragione, la limita senza tuttavia negarla. Si tratta di una tesi che Leopardi sposa non rinnegando quella di Porfirio; il suo pessimismo cosmico non viene confutato, ma al di là della logica ferrea della ragione affiora una prospettiva etica, grazie alla quale è possibile legittimare un altro argomento, non razionale bensì affettivo: il rapporto dell’individuo con l’altro da sé. A chi si uccide non può essere ovviamente rimproverata inconsapevolezza del proprio stato; può essergli però addebitato quell’eccessivo amore di se medesimo (r. 208), che gli impedisce di considerare quanto dolore infligga ai propri cari con la scelta di una separazione prematura e intenzionale.

Le argomentazioni finali di Plotino possono così fare appello alle qualità che Porfirio ha fin qui dimostrato: se è uomo saggio e forte, può ben sopportare la vita. Conta di più il valore dell’amicizia, mentre sarebbe un abuso barbaro e crudele e un atto di egoismo scegliere una soluzione estrema, causando ulteriore sofferenza che è in potere dell’uomo evitare. Proprio perché la vita è breve e infelice, va coltivato il valore della solidarietà, del conforto e sostegno reciproco. E dopo la morte, quando verrà, ci saranno il ricordo e l’amore degli amici.

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Le scelte stilistiche

Trattandosi di due filosofi, il discorso di entrambi procede sostenuto da ragionamenti rigorosi e ricchi di argomentazioni e richiamando il pensiero di autori come Platone e Omero.

I due contendenti, che non abbandonano mai un tono cordiale (in particolare Plotino, che ricorre spesso all’affettuoso vocativo Porfirio mio, fino all’esortazione finale), usano spesso antitesi e paradossi per mettere in evidenza le contraddizioni delle leggi di natura (se è lecito all’uomo incivilito, e vivere contro natura, e contro natura essere così misero; perché non gli sarà lecito morire contro natura? rr. 149-151) o il contrasto tra natura e ragione (Sia ragionevole l’uccidersi; sia contro ragione l’accomodar l’animo alla vita: certamente quello è un atto fiero e inumano. E non dee piacer più, né vuolsi elegger piuttosto di essere secondo ragione un mostro, che secondo natura uomo rr. 183-186). Entrambi si servono di metafore riferite alla vita come carcere (r. 54) e tempesta (r. 78) ma è soprattutto Plotino a cercare l’effetto emotivo ricorrendo a climax in forte progressione (dagl’idioti, ma dagl’ingegnosi, dai dotti, dai saggi, rr.167-168), polisindeti accorati e congiuntivi esortativi (Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci, r. 222; non ricusiamo, r. 223; attendiamo, r. 224; andiamoci, r. 224) con lo scopo, se non di convincere l’amico sul piano razionale, almeno di coinvolgerlo su quello sentimentale.

Verso le COMPETENZE

COMPRENDERE

1 Riassumi il brano in circa 10 righe.


2 Individua i nuclei fondamentali dei ragionamenti che sviluppano i due personaggi ed esponili schematicamente, distinguendo le argomentazioni a favore del suicidio da quelle contro.

Analizzare

3 A che cosa si riferiscono le due espressioni seguenti e che cosa esprime il loro forte contrasto?

  • conforto dolcissimo (r. 74)
  • dubbio terribile (r. 76)

4 Spiega l’effetto che producono i seguenti climax:

  • a medicare… occultarcene… trasfigurarcene, la maggior parte (rr. 160-161).
  • b non è fastidio della vita, non disperazione, non senso della nullità delle cose, della vanità delle cure, della solitudine dell’uomo; non odio del mondo e di se medesimo (rr. 170-172).
  • c speranza… illusioni… inganni… errore… error di computo… (rr. 43-170).


5 Individua le parole e le espressioni più significative che riguardano l’area semantica del ragionare e dell’argomentare.

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INTERPRETARE

6 Quali sono, per Plotino, le due situazioni che renderebbero la vita intollerabile?


7 Perché la morte è definita medicina di tutti i mali (r. 72)?

COMPETENZE LINGUISTICHE

8 Il termine suicidio (uccisione di sé) deriva dal verbo latino caedo, is, cĕcīdi, caesum, caedĕre (tagliare; uccidere; battere): in quali altre parole della lingua italiana puoi individuare la stessa radice? E qual è il loro significato?

Produrre

9 Scrivere per confrontare. Il discorso sulla vanità del dolore, che, in tutte le sue forme più dure, tuttavia passa, svanisce, per cui rifassi il gusto alla vita, nasce or questa or quella speranza nuova (rr. 176-177), si può collegare al tema della ciclicità del giorno, che con il sonno permette di rinnovare le speranze destinate a risorgere al mattino. Richiamando anche episodi della biografia leopardiana, spiega in un testo espositivo-argomentativo di circa 30 righe come nella sua filosofia prevalga un atteggiamento agonistico e combattivo verso la vita e come la spinta vitale sia più forte della rinuncia pessimistica. 

6 La noia

La tragedia di sentirsi disadattati «La noia è manifestamente un male, e l’annoiarsi una infelicità. Or che cosa è la noia? Niun male né dolore particolare ma la semplice vita sentita, provata, conosciuta, pienamente presente all’individuo»: con queste parole Leopardi definisce nello Zibaldone una delle principali peculiarità della condizione umana. Questo sentimento occupa infatti secondo l’autore gran parte della vita, in una sorta di posizione di confine tra gli interminabili intervalli che si frappongono tra il desiderio del piacere e la scoperta della sua irrealizzabilità.

Il motivo ricorre in tutta la produzione leopardiana, sia in versi sia in prosa (ne abbiamo già trovato traccia nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare ▶ T7, p. 42). Si tratta di quel senso di vuoto che l’uomo percepisce quando cadono le sue aspirazioni e si sente incapace di vivere e partecipare al flusso della vita.

La noia come condizione degli animi inappagati Tuttavia, la noia non colpisce tutti gli uomini in modo indiscriminato. Se da un lato infatti essa nasce da quell’inappagato desiderio di felicità infinita che appartiene a tutti gli uomini, dall’altro coglie esclusivamente chi ha coscienza della vanità delle cose: chi, in altri termini, vive la dimensione emotiva della fragilità e della transitorietà dell’esistenza e perciò vede frustrato il proprio bisogno di assoluto. Da qui il carattere “sublime” della noia, chiaramente delineato da Leopardi in uno dei Pensieri (68): «Il non potere essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per così dire, dalla terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire chel’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana».

Sempre le stesse cose La responsabilità di questo stato d’animo ricade sulla natura che alimenta il desiderio di piaceri irrealizzabili. L’«apparir del vero», come Leopardi scrive nel canto A Silvia ( T16, p. 105), fa infatti svanire la speranza che il domani sia diverso dal presente: i giorni, i mesi e gli anni sono invece destinati a trascorrere sempre uguali. Per poter sperare nella felicità, all’uomo non rimane che – illusoriamente – rinviarla sempre a un domani migliore.

Volti e luoghi della letteratura - Giacomo Leopardi
Volti e luoghi della letteratura - Giacomo Leopardi