T8 - Dialogo della Natura e di un Islandese (dalle Operette morali)

T8

Dialogo della Natura e di un Islandese

Operette morali, 12

Composta nel maggio 1824, l’operetta sviluppa un serrato confronto tra la natura, sotto forma di una statua colossale, e un islandese, che chiede ragione dei mali cui non riesce a sfuggire e che, nel suo viaggiare, ha visto colpire tutte le parti dell’universo. Leopardi sceglie un anonimo personaggio proveniente da una terra inospitale dove la potenza e la crudeltà della natura appaiono più chiaramente attraverso i fenomeni vulcanici che la caratterizzano. È una terra esotica e lontana, poco nota ai suoi tempi, e questo accentua l’atmosfera fantastica dell’incontro.

Un Islandese, che era corso1 per la maggior parte del mondo, e soggiornato in diversissime 

terre; andando una volta per l’interiore dell’Affrica,2 e passando sotto la linea

equinoziale3 in un luogo non mai prima penetrato da uomo alcuno, ebbe un caso

simile a quello che intervenne a Vasco di Gama4 nel passare il Capo di Buona speranza; 

5      quando il medesimo Capo, guardiano dei mari australi, gli si fece incontro,

sotto forma di gigante, per distorlo dal tentare quelle nuove acque.5 Vide da lontano

un busto grandissimo; che da principio immaginò dovere essere di pietra, e a somiglianza 

degli ermi colossali6 veduti da lui, molti anni prima, nell’isola di Pasqua. Ma

fattosi più da vicino, trovò che era una forma smisurata di donna seduta in terra, col

10    busto ritto, appoggiato il dosso7 e il gomito a una montagna; e non finta8 ma viva; di

volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi; la quale guardavalo

fissamente; e stata così un buono spazio9 senza parlare, all’ultimo gli disse.

NATURA Chi sei? che cerchi in questi luoghi dove la tua specie era incognita?10

ISLANDESE Sono un povero Islandese, che vo fuggendo la Natura; e fuggitala quasi 

15    tutto il tempo della mia vita per cento parti della terra, la fuggo adesso per questa.

NATURA Così fugge lo scoiattolo dal serpente a sonaglio, finché gli cade in gola da

se medesimo. Io sono quella che tu fuggi.

ISLANDESE La Natura?

naTura Non altri.11

20    islandese Me ne dispiace fino all’anima; e tengo per fermo che maggior disavventura 

di questa non mi potesse sopraggiungere.

naTura Ben potevi pensare che io frequentassi specialmente queste parti;12 dove

non ignori che si dimostra più che altrove la mia potenza. Ma che era che ti

moveva a fuggirmi?13

25    islandese Tu dei sapere che io fino nella prima gioventù, a poche esperienze,14 fui

persuaso e chiaro15 della vanità della vita, e della stoltezza degli uomini; i quali

combattendo continuamente gli uni cogli altri per l’acquisto di piaceri che non

dilettano, e di beni che non giovano; sopportando e cagionandosi scambievolmente 

infinite sollecitudini,16 e infiniti mali, che affannano e nocciono in effetto,17

30    tanto più si allontanano dalla felicità, quanto più la cercano. Per queste

considerazioni, deposto ogni altro desiderio, deliberai, non dando molestia a

chicchessia, non procurando in modo alcuno di avanzare il mio stato, non contendendo18 

con altri per nessun bene del mondo, vivere una vita oscura e tranquilla; 

e disperato dei piaceri,19 come di cosa negata alla nostra specie, non mi

35    proposi altra cura che di tenermi lontano dai patimenti. Con che non intendo

dire che io pensassi di astenermi dalle occupazioni e dalle fatiche corporali; che

ben sai che differenza è dalla fatica al disagio, e dal viver quieto al vivere ozioso.

E già nel primo mettere in opera questa risoluzione,20 conobbi per prova come

egli è vano a pensare, se tu vivi tra gli uomini, di potere, non offendendo alcuno,

40    fuggire21 che gli altri non ti offendano; e cedendo sempre spontaneamente, e

contentandosi del menomo22 in ogni cosa, ottenere che ti sia lasciato un qualsivoglia 

luogo, e che questo menomo non ti sia contrastato.23 Ma dalla molestia

degli uomini mi liberai facilmente, separandomi dalla loro società, e riducendomi 

in solitudine: cosa che nell’isola mia nativa si può recare ad effetto senza

45    difficoltà. Fatto questo, e vivendo senza quasi verun’immagine24 di piacere, io non

poteva mantenermi però senza patimento: perché la lunghezza del verno,25 l’intensità

del freddo, e l’ardore estremo della state,26 che sono qualità di quel luogo, 

mi travagliavano di continuo; e il fuoco, presso al quale mi conveniva passare 

una gran parte del tempo, m’inaridiva le carni, e straziava gli occhi col fumo; di 

50    modo che, né in casa né a cielo aperto, io mi poteva salvare da un perpetuo disagio. 

Né anche potea conservare quella tranquillità della vita, alla quale principalmente 

erano rivolti i miei pensieri: perché le tempeste spaventevoli di mare e di 

terra, i ruggiti e le minacce del monte Ecla,27 il sospetto degl’incendi, frequentissimi 

negli alberghi,28 come sono i nostri, fatti di legno, non intermettevano29 mai

55    di turbarmi. Tutte le quali incomodità in una vita sempre conforme a se medesima, 

e spogliata di qualunque altro desiderio e speranza, e quasi di ogni altra cura, 

che d’esser quieta; riescono di non poco momento,30 e molto più gravi che elle 

non sogliono apparire quando la maggior parte dell’animo nostro è occupata dai 

pensieri della vita civile, e dalle avversità che provengono dagli uomini. Per tanto 

60    veduto che più che io mi ristringeva e quasi mi contraeva in me stesso,31 a fine 

d’impedire che l’esser mio non desse noia né danno a cosa alcuna del mondo; 

meno mi veniva fatto che le altre cose non m’inquietassero e tribolassero; mi posi 

a cangiar luoghi e climi, per vedere se in alcuna parte della terra potessi non offendendo 

non essere offeso, e non godendo non patire. E a questa deliberazione 

65    fui mosso anche da un pensiero che mi nacque,32 che forse tu non avessi destinato 

al genere umano se non solo un clima della terra (come tu hai fatto a ciascuno 

degli altri generi degli animali, e di quei delle piante), e certi tali luoghi; fuori dei 

quali gli uomini non potessero prosperare né vivere senza difficoltà e miseria; da 

dover essere imputate, non a te, ma solo a essi medesimi, quando eglino avessero 

70    disprezzati e trapassati i termini33 che fossero prescritti per le tue leggi alle abitazioni 

umane. Quasi tutto il mondo ho cercato, e fatta esperienza di quasi tutti i 

paesi; sempre osservando il mio proposito, di non dar molestia alle altre creature, 

se non il meno che io potessi, e di procurare la sola tranquillità della vita. Ma io 

sono stato arso dal caldo fra i tropici, rappreso34 dal freddo verso i poli, afflitto

75    nei climi temperati dall’incostanza dell’aria, infestato dalle commozioni degli 

elementi35 in ogni dove. Più luoghi ho veduto, nei quali non passa un dì senza 

temporale: che è quanto dire che tu dai ciascun giorno un assalto e una battaglia 

formata36 a quegli abitanti, non rei37 verso te di nessun’ingiuria. In altri luoghi la 

serenità ordinaria del cielo è compensata dalla frequenza dei terremoti, dalla 

80    moltitudine e dalla furia dei vulcani, dal ribollimento sotterraneo di tutto il paese. 

Venti e turbini smoderati regnano nelle parti e nelle stagioni tranquille dagli 

altri furori dell’aria. Tal volta io mi ho sentito crollare il tetto in sul capo pel gran 

carico della neve, tal altra, per l’abbondanza delle piogge la stessa terra, fendendosi, 

mi si è dileguata di sotto ai piedi; alcune volte mi è bisognato fuggire a 

85    tutta lena38 dai fiumi, che m’inseguivano, come fossi colpevole verso loro di 

qualche ingiuria. Molte bestie salvatiche, non provocate da me con una menoma 

offesa, mi hanno voluto divorare; molti serpenti avvelenarmi; in diversi luoghi è 

mancato poco che gl’insetti volanti non mi abbiano consumato infino alle ossa. 

Lascio i pericoli giornalieri, sempre imminenti all’uomo, e infiniti di numero; 

90    tanto che un filosofo antico39 non trova contro al timore, altro rimedio più valevole 

della considerazione che ogni cosa è da temere. Né le infermità mi hanno 

perdonato; con tutto che io fossi, come sono ancora, non dico temperante, ma 

continente40 dei piaceri del corpo. Io soglio prendere non piccola ammirazione41 

considerando come tu ci abbi infuso tanta e sì ferma e insaziabile avidità del 

95    piacere; disgiunta dal quale la nostra vita, come priva di ciò che ella desidera 

naturalmente, è cosa imperfetta: e da altra parte abbi ordinato che l’uso di esso 

piacere sia quasi di tutte le cose umane la più nociva alle forze e alla sanità del 

corpo, la più calamitosa negli effetti in quanto a ciascheduna persona, e la più 

contraria alla durabilità della stessa vita. Ma in qualunque modo, astenendomi 

100 quasi sempre e totalmente da ogni diletto, io non ho potuto fare di non incorrere 

in molte e diverse malattie: delle quali alcune mi hanno posto in pericolo 

della morte; altre di perdere l’uso di qualche membro, o di condurre perpetuamente 

una vita più misera che la passata; e tutte per più giorni o mesi mi hanno 

oppresso il corpo e l’animo con mille stenti e mille dolori. E certo, benché ciascuno 

105 di noi sperimenti nel tempo delle infermità, mali per lui nuovi o disusati, e 

infelicità maggiore che egli non suole (come se la vita umana non fosse bastevolmente 

misera per l’ordinario);42 tu non hai dato all’uomo, per compensarnelo, 

alcuni tempi di sanità soprabbondante e inusitata, la quale gli sia cagione di 

qualche diletto straordinario per qualità e per grandezza. Ne’ paesi coperti per lo 

110 più di nevi, io sono stato per accecare: come interviene ordinariamente ai Lapponi43 

nella loro patria. Dal sole e dall’aria, cose vitali, anzi necessarie alla nostra 

vita, e però da non potersi fuggire, siamo ingiuriati di continuo: da questa colla 

umidità, colla rigidezza,44 e con altre disposizioni; da quello col calore, e colla 

stessa luce: tanto che l’uomo non può mai senza qualche maggiore o minore 

115 incomodità o danno, starsene esposto all’una o all’altro di loro. In fine, io non 

mi ricordo aver passato un giorno solo della vita senza qualche pena; laddove45 

io non posso numerare quelli che ho consumati senza pure un’ombra di godimento: 

mi avveggo che tanto ci è destinato e necessario il patire, quanto il non 

godere; tanto impossibile il viver quieto in qual si sia modo, quanto il vivere inquieto 

120 senza miseria: e mi risolvo a conchiudere che tu sei nemica scoperta degli 

uomini, e degli altri animali, e di tutte le opere tue; che ora c’insidii ora ci minacci 

ora ci assalti ora ci pungi ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre o ci offendi o ci 

perseguiti; e che, per costume e per instituto,46 sei carnefice della tua propria famiglia, 

de’ tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere. Per 

125 tanto rimango privo di ogni speranza: avendo compreso che gli uomini finiscono47 

di perseguitare chiunque li fugge o si occulta con volontà vera di fuggirli o 

di occultarsi; ma che tu, per niuna cagione, non lasci mai d’incalzarci, finché ci 

opprimi. E già mi veggo vicino il tempo amaro e lugubre della vecchiezza; vero e 

manifesto male, anzi cumulo di mali e di miserie gravissime; e questo tuttavia 

130 non accidentale, ma destinato da te per legge a tutti i generi de’ viventi, preveduto 

da ciascuno di noi fino nella fanciullezza, e preparato in lui di continuo, dal 

quinto suo lustro in là,48 con un tristissimo declinare e perdere senza sua colpa: 

in modo che appena un terzo della vita degli uomini è assegnato al fiorire, pochi 

istanti alla maturità e perfezione, tutto il rimanente allo scadere, e agl’incomodi 

135 che ne seguono.

naTura Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa

vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle

operazioni mie,49 trattone50 pochissime, sempre ebbi ed

ho l’intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini 

140 o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque

modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo,51 se

non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto 

o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete 

voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per

145 dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse

di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.

islandese Ponghiamo caso52 che uno m’invitasse spontaneamente a una sua villa,

con grande instanza,53 e io per compiacerlo vi andassi. Quivi mi fosse dato per 

dimorare una cella tutta lacera e rovinosa, dove io fossi in continuo pericolo 

150 di essere oppresso; umida, fetida, aperta al vento e alla pioggia. Egli, non che si 

prendesse cura d’intrattenermi in alcun passatempo o di darmi alcuna comodità, 

per lo contrario appena mi facesse somministrare il bisognevole a sostentarmi; 

e oltre di ciò mi lasciasse villaneggiare,54 schernire, minacciare e battere 

da’ suoi figliuoli e dall’altra famiglia. Se querelandomi io seco di questi mali 

155 trattamenti, mi rispondesse: forse che ho fatto io questa villa per te? o mantengo 

io questi miei figliuoli, e questa mia gente, per tuo servigio? e, bene ho altro 

a pensare che de’ tuoi sollazzi, e di farti le buone spese;55 a questo replicherei: 

vedi, amico, che siccome tu non hai fatto questa villa per uso mio, così fu in tua 

facoltà di non invitarmici. Ma poiché spontaneamente hai voluto che io ci dimori, 

160 non ti si appartiene56 egli di fare in modo, che io, quanto è in tuo potere, 

ci viva per lo meno senza travaglio e senza pericolo? Così dico ora. So bene che 

tu non hai fatto il mondo in servigio degli uomini. Piuttosto crederei che l’avessi 

fatto e ordinato espressamente per tormentarli. Ora domando: t’ho io forse 

pregato di pormi in questo universo? o mi vi sono intromesso violentemente, 

165 e contro tua voglia? Ma se di tua volontà, e senza mia saputa, e in maniera che 

io non poteva sconsentirlo né ripugnarlo,57 tu stessa, colle tue mani, mi vi hai 

collocato; non è egli dunque ufficio tuo,58 se non tenermi lieto e contento in 

questo tuo regno, almeno vietare che io non vi sia tribolato e straziato, e che 

l’abitarvi non mi noccia?59 E questo che dico di me, dicolo di tutto il genere 

170 umano, dicolo degli altri animali e di ogni creatura.

naTura Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo è un perpetuo

circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra se di maniera, che ciascheduna 

serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale

sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione.

175 Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento.

islandese Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i filosofi. Ma poiché quel che 

è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto

medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a

chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con

180 morte di tutte le cose che lo compongono?

Mentre stavano in questi e simili ragionamenti è fama che sopraggiungessero due

leoni, così rifiniti e maceri dall’inedia,60 che appena ebbero forza di mangiarsi

quell’Islandese; come fecero; e presone un poco di ristoro, si tennero in vita per

quel giorno. Ma sono alcuni che negano questo caso, e narrano che un fierissimo61

185 vento, levatosi mentre che l’Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un

superbissimo mausoleo62 di sabbia: sotto il quale colui disseccato perfettamente,

e divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel

museo di non so quale città di Europa.

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Dentro il TESTO

I contenuti tematici

Seguendo il principio di varietà che domina in tutta la raccolta, il protagonista di questa operetta non è un personaggio mitico né favoloso né storico né reale, bensì un uomo sconosciuto, identificato solo dal paese di provenienza da cui è scappato per sfuggire all’azione della natura. Lo spunto venne a Leopardi probabilmente da un’opera di Voltaire, la Storia di Jenni, nella quale un ateo, per dimostrare l’inesistenza di Dio, descrive i mali che affliggono l’umanità, portando a esempio il gelo che attanaglia la remota Islanda. L’interlocutore, però, opponeva a questo punto di vista le ragioni del deismo, ovvero di una concezione razionale della divinità come ente ordinatore dell’universo; Leopardi invece propone una concezione della vita radicalmente materialistica, nella quale la natura, indifferente al bene del singolo, appare come la causa prima della sua sventura.

Dopo un lungo vagabondare, l’Islandese incontra infatti proprio la personificazione della natura, sotto la forma statuaria di una donna gigantesca che gli rivolge alcune domande per conoscere le ragioni della sua fuga affannosa. Ne scaturisce un dialogo surreale, in cui l’autore esprime il nucleo fondamentale della propria filosofia, riassumibile nel concetto che l’uomo non è stato creato per essere collocato al centro del mondo. A nulla servono i suoi tentativi non già di cercare un’impossibile felicità, ma almeno di vivere una vita oscura e tranquilla (rr. 33-34) isolandosi e allontanandosi dalla società: lo stato di natura, in cui trascorrere un’esistenza libera e serena, si rivela come un’utopia o una menzogna; il viaggio o la fuga non possono soddisfare il desiderio di conoscere una realtà diversa da quella che si manifesta, puntualmente, a tutti gli uomini in tutte le regioni del mondo. Si può sfuggire forse ai mali causati dagli altri uomini, ma non a quelli provocati dalla natura, che tormenta l’uomo e lo strazia in mille modi, pur non volendolo, ma semplicemente garantendo il ciclo generale della produzione e della distruzione o attraverso le sue normali manifestazioni, connesse con gli eventi meteorologici e l’avvicendarsi delle stagioni.

L’argomentazione della Natura è spietata e gelida nella sua raziocinante impassibilità: la sua indifferenza rispetto alla sorte dei suoi figli non ammette deroghe (sei carnefice della tua propria famiglia, r. 124, le dice l’Islandese) e il suo unico scopo è quello di osservare l’incessante succedersi di nascita e morte, necessario per la sopravvivenza dell’universo: se anche tutta la specie umana si estinguesse, lei neppure se ne accorgerebbe (se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei, rr. 145-146). Della natura benigna vagheggiata nella prima fase del pensiero leopardiano, insomma, non c’è più traccia.

Possiamo immaginare che con la stessa testardaggine con cui ha percorso terre lontane e diverse, incontrando temporali (r. 77), terremoti (r. 80), Venti e turbini smoderati (r. 81) piogge (r. 84) nell’ingenua speranza di schivare la sofferenza, l’Islandese avrebbe ripreso la sua requisitoria contro l’interlocutrice: la morte improvvisa però glielo impedisce. Sia che sia stato divorato da due leoni, sia che sia stato travolto dal vento e trasformato in una mummia, la sua sorte conferma il ruolo della natura in relazione agli esseri umani: nel primo caso l’Islandese, diventato cibo per altri animali, fa parte del circuito naturale; nel secondo gli è stato concesso di vivere quietamente, ma privato dell’umanità, ridotto a un corpo senza coscienza.

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Le scelte stilistiche

Questa operetta si configura come un dialogo vero e proprio, dove due personaggi si scambiano domande e risposte e confrontano opinioni diverse. L’atteggiamento e il modo di esprimersi dei due interlocutori sono però differenti: l’Islandese pone domande insistenti e incalzanti, ricevendo risposte secche e distaccate da parte della Natura.

Il primo articola estesamente le proprie argomentazioni con un gran numero di esempi e situazioni vissute, richiamando anche l’opinione dei filosofi: in alcuni passi è possibile ritrovare influenze di scritti di Voltaire, come nella domanda finale, che riprende una voce del Dizionario filosofico. La sua è un’eloquenza appassionata, che nell’elencare i patimenti subiti, ricorre ora al tono recriminatorio del lamento, ora a quello aggressivo e indignato dell’invettiva. Così si spiega il suo eloquio fatto di frasi ampie e complesse, con l’uso di un lessico spesso ricercato, lontano dall’uso comune e caratterizzato da parole rare (sconsentirlo, r. 166), arcaicizzanti (Ponghiamo, r. 147), latinismi (vietare che… non, r. 168) e termini utilizzati con significati oggi obsoleti (perdonato, r. 92, per “risparmiato”, alberghi, r. 54, per “abitazioni” ecc.).

Ben diverso lo stile argomentativo della Natura, a cui non servono espressioni ricercate e gli strumenti di una retorica raffinata per affermare con lapidaria freddezza le sue verità. Per fare cadere miseramente le illusioni dell’umanità basta una domanda arida, quasi cinica: Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? (rr. 136-137).

Verso le COMPETENZE

Comprendere

1 Individua i diversi tipi di dolore che, secondo l’Islandese, prova l’essere vivente; ritrova gli esempi distinguendoli secondo:


a dolori veri e propri;

b disagi sopportabili;

c mali dell’età;

d conseguenze di eventi metereologici straordinari;

e conflitti tra uomini;

f conflitti tra esseri viventi.


2 Quali sono le “domande esistenziali” che, al termine dell’operetta, l’Islandese rivolge alla Natura?

ANALIZZARE

3 Dividi il dialogo in macrosequenze, distinguendo quelle narrative, dialogiche e monologiche: quale struttura assume, nel suo complesso, il testo?


4 In quali punti del testo l’autore fa ricorso alla strategia dell’accumulazione? Per sottolineare che cosa?


5 Quali differenze si possono individuare tra le battute dell’Islandese e quelle della Natura dal punto di vista lessicale e retorico?


6 In quali punti dell’operetta individui concetti presenti nei testi leopardiani che hai già affrontato?

INTERPRETARE

7 L’Islandese accenna a una partizione in età della vita umana: quali osservazioni puoi fare?


8 È possibile affermare, che, al momento del loro incontro, la Natura appare come “sublime” all’Islandese? Perché?


9 Perché, a tuo giudizio, il dialogo risulta particolarmente efficace per esprimere il pensiero leopardiano?

Produrre

10 Scrivere per esporre. Spiega e commenta la seguente battuta dell’Islandese: Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono? (rr. 176-180).


11 Scrivere per argomentare. Ti sembra che la concezione della Natura presente nell’operetta sia ancora oggi attuale? Perché? Esponi le tue considerazioni in un testo argomentativo di circa 30 righe.

Volti e luoghi della letteratura - Giacomo Leopardi
Volti e luoghi della letteratura - Giacomo Leopardi