La “radice eroica” della poesia leopardiana
di Walter Binni
di Walter Binni
Nel testo che segue, uno dei più importanti studiosi di Leopardi, Walter Binni (1913-1997), applica alla poesia di questo autore il proprio metodo critico, basato sulla nozione di “poetica”, intesa come sintesi tra i fermenti ideologici e culturali da una parte e la tensione artistica dall’altra. Il saggio è del 1970, ma è ancora utile per illuminare il valore “progressivo” (cioè progressista, portatore di progresso morale e civile) dei versi leopardiani. La vicenda biografica di Leopardi è la sostanza e la base del suo pensiero che diventa poesia e la tensione eroica della sua personalità è sempre presente nei suoi versi, anche quando è meno visibile, come negli idilli. Perciò esiste, nei Canti, un sottile senso unitario che ci porta dalle canzoni civili fino alla Ginestra.
Nella svolta critica di questi ultimi decenni si son venute ponendo le basi di una comprensione più storico-critica del Leopardi nella sua possente personalità, nella ricchezza delle sue forze […] e nella loro integrazione e ricambio, nella sua prospettiva di poeta portatore – con la voce autentica e la novità originalissima della poesia – di una persuasione eroica, di una intransigenza morale, di un coraggio della verità, di un pessimismo energico, inseparabili da un’assidua battaglia nella storia del suo tempo e da una esperienza, sofferta fino al «martirio», della condizione umana, avvalorata dalla testimonianza concreta delle sue stesse malattie fisiche, delle sue pratiche sconfitte, mai interamente accettate in forma inerte e passiva, e progressivamente commutate in una sempre più densa protesta storica ed esistenziale di altissimo valore nella storia dell’epoca romantica e della sua crisi. La sua stessa poesia, culmine ed espressione profonda della sua esperienza totale appare così tutt’altro che una consolazione e un idillio «senza passione» e anche quando, nelle fasi meno scopertamente combattive ed eroiche, essa raggiunge i suoi toni più pacati ed equilibrati, mai manca – al fondo – di una tensione profonda, di un raccordo con la sua pressione intellettuale e la sua drammatica esperienza e problematica. Sicché par di dover accettare (anche se estratti da una zona precisa della sua poetica prima delle Operette morali) per la comprensione della sua poesia, gli esiti della sua convinzione estetica secondo cui l’effetto della vera poesia è quello di cagionare «nell’animo de’ lettori una tempesta, un impeto, un quasi gorgogliamento di passione» e la poesia «ci dee sommamente muovere e agitare e non già lasciar l’animo nostro in riposo e in calma».
La «radice» dunque della personalità e della poesia leopardiana non è idillica, ma tensiva, energica ed «eroica» (nel vario senso che tale parola prende negli atteggiamenti intellettuali, morali e poetici del Leopardi: coraggio della verità, opposizione e protesta personale e storica, lotta contro la scomparsa degli ideali e contro la mediocrità e stoltezza, contro gli inganni della ragione sterile o della natura matrigna), anche se, ripeto, questa è la radice degli atteggiamenti leopardiani e non la sua monotona e indiscriminata forma di poetica, così come sarebbe grave prospettare un Leopardi sempre e ugualmente inarcato e apertamente «eroico» decurtando tutta l’immensa ricchezza di componenti del suo pensiero, della sua poesia, della sua esperienza.
[…] La poesia è una tensione che si nutre di altre tensioni e che a queste contribuisce in un circolo denso e inscindibile.
Così, se a misurare la discriminante diversità della interpretazione idillica da quella più recente sopraindicata, basterà riferirsi alla diversissima valutazione della mèta terminale e suprema del lungo itinerario leopardiano, La ginestra, per noi capolavoro sconvolgente e unitario e prima considerato invece per lo più come predicazione oratoria illuminata da rari squarci idillici (o idillico-cosmici), occorrerà ben capire come a quello stesso capolavoro il Leopardi sia giunto non casualmente e miracolosamente, ma attraverso esperienze complesse, attraverso un lungo svolgimento di posizioni e di espressioni portate strenuamente sino in fondo e così dinamicamente collegato entro un’esperienza storico-personale e uno sgorgo di poesia di suprema organicità e ricchezza.
Ciò che caratterizza la personalità leopardiana è un impegno appassionato, «eroico» per il suo strenuo bisogno e coraggio di intransigenza intellettuale e morale che la porterà ad impostare ed esaurire fino in fondo – con l’ausilio di una mente vigorosa e implacabile – successive posizioni ed esperienze che riprendono la grande eredità del pensiero settecentesco rinnovandola energicamente alla luce della problematica primo-ottocentesca sia che il Leopardi ne attacchi lo «snaturamento», l’alienazione dell’uomo dalla natura, sia che poi viceversa ne aggredisca, con più matura persuasione, gli inganni ed i miti ottimistici e provvidenzialistici che mistificano la reale condizione dell’uomo e il vero volto della natura e dell’ipotetico suo creatore. Al centro vi è una inesausta passione per l’uomo, [...] per la sua integralità, sia che essa venga ritrovata nella sua adesione alla natura e alle illusioni generose da quella generate, sia che essa venga poi confermata nella sua virile capacità di riconoscere la sua sorte misera e tragica, senza accettarla in maniera passiva e rassegnata. Al centro vi è una protesta e una contestazione attiva contro tutto ciò che depaupera e avvilisce le forze dell’uomo, [...] l’uomo, spietatamente analizzato e magari assalito nelle sue stolte ideologie e nelle sue tentazioni di cedimenti e di rinuncia come di boria e di orgoglio prometeico o platonico, ma sostanzialmente e disperatamente amato nella sua schiettezza e nella sua virile energia, nella sua desolazione consapevole e nel suo stesso destino di caducità che tanto più fa risaltare il fascino, nel suo effimero passare, delle sue qualità autentiche di nobiltà e di gentilezza, della sua capacità di essere uomo fra gli altri uomini.
Sicché la stessa vicenda concreta del Leopardi, fra vita e poesia, si prospetta non come la semplice «storia di un’anima», ma come una esperienza drammatica dentro la storia e dentro la problematica dell’uomo di cui lo scrittore sonda ed esplicita le diverse possibilità fino a toccare i margini del nichilismo e dell’individualismo più disperato, ma sempre riprendendo una linea attiva che culminerà nella prospettiva di solidarietà combattiva della Ginestra mai pacificata con i vari «oppressori» dell’uomo, siano essi la ragione sterile e mortificante, egoistica e calcolatrice, siano essi la natura malvagia e una divinità neroniana, combattuta sino all’estremo della bestemmia più ardita e ribelle.
Walter Binni, introduzione a Giacomo Leopardi, Tutte le opere, Sansoni, Firenze 1969
1 Perché, secondo il critico, la natura intrinseca di Leopardi non è idilliaca?
2 Qual è la molla che guida Leopardi nella sua incessante ricerca poetica?
3 Per quale motivo La ginestra può essere considerata la summa della tensione eroica leopardiana?
di Gino Tellini
Rottura dei canoni tradizionali e rifiuto del progresso; culto dei classici e sensibilità anticonformistica; memoria storica e presenza polemica nel presente: intorno a questo cumulo di feconde contraddizioni è nata e si è sviluppata, con Leopardi, una voce affrancata dai condizionamenti, lontana da ogni illusione consolatoria ma non per questo compiaciuta della sofferenza umana. Secondo Gino Tellini (n. 1946), la modernità di Leopardi sta proprio nel coraggio con cui egli sfida e supera ogni convenzione consolidata, anche e soprattutto quelle reputate più attuali e al passo con i tempi: la sua poesia può essere considerata, in tal modo, il trionfo della libertà dell’io.
La rivoluzionaria modernità di Leopardi consiste nel primato assoluto riconosciuto alla voce dell’io. Con due corollari, complementari e decisivi, che riguardano la libertà espressiva conquistata dal soggetto protagonista (quindi l’intonazione della sua parola) e la duplice, ambivalente energia che egli vuol comunicare (quindi la funzione conoscitiva della sua parola). Nella struttura della “canzone libera”, come nella prosa umoristica delle Operette, l’io spezza i lacci dei canoni retorici tradizionali; l’intensità delle illusioni, scaturita dalla martellante disperazione del pessimismo materialistico, assegna all’io un ruolo che è insieme sistematicamente distruttivo (come pensiero negativo e annientamento della speranza) e inventivamente vitalissimo (come instancabile, sempre nuovo suscitatore di emozioni e di sogni). In nessun altro nostro autore ottocentesco è dato trovare uniti gli ingredienti di questa miscela che produce – all’insegna della contraddizione – un effetto sbalorditivo di fissità e di movimento incessante.
La complessa apertura verso la modernità trova per paradosso la propria genesi del radicale rifiuto («disprezzo»: La ginestra, v. 65) del “modernismo”, nell’appassionata nostalgia del passato e dell’antico. Il che significa tutt’altro che spirito reazionario: significa culto non pedantesco dei classici, risoluta attualizzazione del loro modello, non per imitarlo ma riviverlo (umanizzarlo) secondo gli impulsi di una sensibilità orgogliosa, indocile e anticonformista, insofferente di ogni idea ricevuta e di ogni moda, di ogni tirannia e di ogni assolutismo, in politica come nelle scelte culturali. La musica nuova (senza «ostentazione rivoluzionaria»)1 della “canzone libera” viene dallo studio metrico calibratissimo delle prime canzoni, come l’inventio prosastica delle Operette viene dalla quotidiana familiarità con la prosa greca e latina. Viaggio lungo, ma l’insegnamento in ogni caso che giunge dall’antico non è valso che come esercizio e tirocinio di libertà. A questo coraggio dell’inattualità, a quest’affrancamento non dal passato, ma dai vincoli inerti del passato, hanno ispirato invano – a parte Manzoni, su altro e antitetico piano – i cultori e i fautori del nuovo, stilisticamente impigliati nella riproposta di forme vecchie, troppo prossime alla tradizione che intendevano ignorare, e ideologicamente inefficaci, perché chiusi nella rete delle idee correnti (il «concorde sentir!» della Palinodia, v. 220), esposte al fenomeno della rapida obsolescenza. La rincorsa delle mode è un abbraccio con la morte. Proprio dalla memoria storica, dal sentimento lancinante della corsa rapinosa dei secoli, Leopardi ha tratto la forza di quella distanza prospettica e polemica dal presente che è stata la garanzia della sua modernità. «Perdóno dunque se il poeta moderno segue le cose antiche, se adopra il linguaggio e lo stile e la maniera antica […]. Perdóno se il poeta, se la poesia moderna non si mostrano, non sono contemporanei a questo secolo, poiché esser contemporaneo a questo secolo, è, o inchiude essenzialmente, non esser poeta, non esser poesia».2
Alla fuga del tempo e alla furia di distruzione che porta con sé, non ha opposto il riparo di alcuna verità positiva: non la fede religiosa nel trascendente, non la fede laica nell’agire umano e nel progresso, non la fede umanistica – cui approda il materialismo foscoliano – nella funzione eternatrice della poesia che «vince di mille secoli il silenzio» (Dei sepolcri, v. 234). Ma neppure ha festeggiato con irrazionale esultanza il trionfo del nichilismo. Lo spettacolo della rovina, indagato con eroico ardire, si sa che comporta l’intrepida risolutezza del disinganno, la contemplazione dignitosa e fiera del negativo, ma genera sgomento («orror»: La ginestra, v. 280), tanto più terribile perché senza riscatto. Sul deserto del «comun fato» (v. 114), del «mal che ci fu dato in sorte» (v. 116), il cerchio si chiude. La parola ritorna all’io e al primato del soggetto lirico, alla sua voce casta e spietata che ha attinto – dalla nostalgia dell’antico, dalla consapevolezza che quel mondo è cancellato, dall’audacia di guardare in volto l’«arido vero» – il suono di una suprema e sconvolgente libertà. La quale vuol dire anche suprema altitudine, non come allontanamento dalla terra (verso il mistero o il misticismo), ma come distacco dal superfluo e dall’inessenziale, da tutto ciò che non tocca, qui e ora, nella nostra indifesa fragilità di individui biologici, la condizione prima ed elementare dell’esistere. La voce dell’io allora diventa capace di porsi domande semplici e capitali, di interrogarsi sul senso della vita e della morte, sugli affanni del dolore, sulla forza dell’amicizia e dell’amore. Il poeta che più di ogni altro ha sofferto la schiavitù dell’individuo di fronte alle leggi inesorabili della natura, è anche il poeta che ha più sentito, con stupefacente vertigine, la libertà dell’io.
Gino Tellini, Leopardi, Salerno editrice, Roma 2001
1 In che modo si manifesta il «rifiuto del modernismo» in Leopardi?
2 Che cosa oppone Leopardi al «mal che ci fu dato in sorte»?
3 Leopardi si sentì schiavo e schiacciato dalle leggi di una natura matrigna: concordi con questa affermazione?
di Nicola Gardini
Nicola Gardini (n. 1965), uno dei critici più acuti della sua generazione, muovendo da uno stimolante confronto con il Canzoniere di Petrarca, invita a leggere i Canti di Leopardi come un libro organico, dotato di una sua compattezza data dalla componente autobiografica della vicenda che l’autore vi narra. Tuttavia sarebbe ingenuo leggere l’opera come una vera e propria autobiografia in versi. Il poeta affronta infatti temi molteplici, sui quali conduce una serrata riflessione: la Storia, l’individuo, la società, la tensione all’infinito. Pone molteplici domande, alle quali si rifiuta però di fornire facili risposte consolatorie.
Con il Canzoniere di Petrarca, i Canti di Leopardi sono il libro di poesia più importante della tradizione italiana. I meriti dei due poeti si possono misurare su numerosi piani. Qui consideriamo il loro contributo più grande, e merito comune: l’invenzione di un personaggio lirico. Petrarca ha inventato un io innamorato che ragiona incessantemente sul desiderio e fonda la sua identità sulla mancanza di direzione e sulla frammentarietà. Leopardi ha inventato un io compatto, un io che non ha bisogno dell’altro per esistere ed è in rapporto dialettico con se stesso. Petrarca aspira a raggiungere una felicità che non potrà essere. Leopardi rimpiange una felicità che è stata, in qualche momento iniziale: la grecità o l’infanzia. Il suo sguardo è completamente retrospettivo. Petrarca sogna il compimento del desiderio. Leopardi piange sulla disfatta di illusioni antiche. Potremmo continuare così a lungo e chissà quante altre interessanti opposizioni salterebbero fuori. Ma quel che conta qui sottolineare è che i modelli psicologici dei due poeti non si escludono a vicenda, bensì derivano da una medesima inclinazione a considerare la poesia una forma di critica della soggettività. Leopardi, dopo secoli di petrarchismi e connessi antipetrarchismi, ha ridato alla poesia la dignità della riflessione morale. Di qui la validità intramontabile di Leopardi.
La scuola ci ha abituato a leggere i Canti come un dato di fatto, qualcosa che c’è e non potrebbe essere altrimenti. In realtà, i Canti sono un work in progress, una ricerca in atto, opera profondamente sperimentale, interrotta solo dalla morte del poeta. Il libro crebbe e si trasformò nel tempo, seguendo la vita e gli studi dell’autore e acquistando via via, attraverso varie edizioni, l’aspetto di una sorta di autobiografia in versi. Le poesie vi sono state incluse in un ordine grosso modo cronologico. Vari stili si susseguono, varie forme: la canzone petrarchesca, l’idillio, la satira, la canzone libera (invenzione dello stesso Leopardi), traduzioni. E – si noti – nessun sonetto, archetipo del lirismo italiano fin dal Medioevo. La cosa più vicina al sonetto è una poesia di quindici versi, tra l’altro priva di rime. Anche la voce del poeta non si mantiene uguale per tutta la raccolta, ma è ora esclamativa, ora meditativa, ora piana e distesa, ora convulsa e declamatoria. Sarebbe difficile concepire libro meno monotono. Eppure i Canti sono un’opera unitaria e compiuta, che segue certi principi e, pur rimettendoli continuamente in discussione, si sviluppa a partire da quelli.
Prima di tutto c’è la storia del protagonista. Anche il lettore meno attento noterà che il protagonista dei Canti è dotato di una fisionomia straordinariamente individuale. Tale protagonista è un poeta: o meglio, si sente poeta e vuole fare il poeta. Dunque, sembrerebbe esserci perfetta corrispondenza tra l’autore e il personaggio che parla in prima persona. E così certo è. Basterebbe un componimento come le «Ricordanze» a dimostrarlo [...].
Ma è bene non dare sempre per scontata questa corrispondenza tra autore e personaggio lirico, anche se a noi sembra tanto ovvia. L’autobiografia nei Canti, infatti, non si esprime necessariamente attraverso il racconto della vita dell’autore come nelle «Ricordanze». Il poeta si pronuncia anche indossando maschere: si pensi al Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, dove parla appunto un pastore e il paesaggio non è certo quello di Recanati.
Il poeta dei Canti, oltre a essere caratterizzato dalla volontà di essere poeta, si distingue per essere particolarmente sensibile al dolore. È un individuo molto sofferente, che non si limita a parlare della propria infelicità ma usa questa a dimostrazione dell’infelicità universale. Per Leopardi l’infelicità è una condizione storica, è un prodotto della storia. Non si tratta di pessimismo. Leopardi non ha mai usato questa parola, che tanto piace ai manuali scolastici e ai caricaturisti. Se non si capisce la radice storica della poesia leopardiana si rischia di fraintendere il significato dei Canti. Per Leopardi la ragion d’essere d’ogni uomo è nel passato. Dal passato discendiamo e nel passato è la risposta agli interrogativi del presente. Ci si potrebbe interrogare sul perché di questa radicale convinzione e si dovrebbe cercare negli studi umanistici e filologici di Leopardi. Qui, per ridurre a poche frasi un discorso potenzialmente lunghissimo, ricordiamo che la cultura classica di Leopardi è tutta impregnata di nostalgia e rimpianto: gli storici antichi, i filosofi antichi, i poeti antichi di cui Leopardi nutrì i suoi pensieri fin da bambino hanno tutti un’idea degenerativa di storia umana. Lo stesso studio di cose vecchie di secoli è nostalgico di per sé. Dunque, il tempo è solo declino e rovina. Ciò, ovviamente, non esclude che la felicità sia esistita ma implica per forza che la felicità sia esistita solo in un’origine irrintracciabile. L’abbiamo detto: la felicità è qualcosa non che verrà – come per Petrarca – ma qualcosa che si è perduto. In questo sta uno dei principali elementi di novità della poesia leopardiana.
Prendiamo in esame la prima poesia dei Canti, «All’Italia». Il titolo è fuorviante. Sembra una poesia politica. Invece, è una poesia storica (una bella poesia, che la scuola tende a mortificare, se non a ridicolizzare). Parla soprattutto dell’antica Grecia, delle guerre persiane e del poeta Simonide che, dall’alto di un colle, ebbe la ventura di assistere a quei grandi fatti militari e di cantarli. «All’Italia» si conclude proprio con un discorso del poeta greco, che celebra i gloriosi caduti. La voce del poeta moderno, del Leopardi autore, e la voce di quell’antico personaggio si sovrappongono e sono indistinguibili. In questo modo il poeta moderno si fa erede di quello antico. E proprio nell’acquisizione di antichità sta il suo valore. Leopardi vuole essere un poeta della tradizione, come Simonide, come Saffo, e questo obiettivo è chiaramente pronunciato e realizzato già in quella poesia che fa da apertura alla raccolta.
Abbiamo così messo in evidenza già uno dei temi portanti dei Canti: la storia, o meglio la storicità del soggetto poetante. Il poeta è, secondo Leopardi, un uomo del passato. Ma è tipico della mente leopardiana costruire antitesi e contraddizioni. Al tema della storia si appaia il suo esatto contrario: la non-storia, la sospensione della temporalità, la cessazione del declino. Intendo, l’infinito. Al tema dell’infinito Leopardi ha dedicato una poesia particolare, e un genere specifico, il cosiddetto idillio. «L’infinito» si intitola la più celebre poesia dell’intera raccolta, quel componimento in quindici versi (del 1819) [...] che forse va considerato una deformazione del sonetto tradizionale. Ma l’infinito affiora un po’ dovunque nei Canti. Che cos’è l’infinito per Leopardi? Ripetiamolo: l’opposto della storia. Non c’è concetto che nella mente di Leopardi non vada considerato in una prospettiva dialettica. Come c’è il sì, c’è il no. Gli opposti, nel suo pensiero, non si escludono né si conciliano, ma coesistono in uno stato permanente di tensione. Se c’è la consapevolezza del finito, del divenire, del cessare, del cadere, ci deve essere il sogno dell’evasione, della dolcezza, della pace. [...]
Come finiscono i Canti? Abbiamo detto che i dissidi in Leopardi non si risolvono. Leopardi è poeta di problemi, non di soluzioni. L’ultima poesia della raccolta, dunque, non è una risposta, ma la rinuncia a rispondere. È uno scherzo, come dice il titolo. Ma uno scherzo abbastanza serio: perché parla del mestiere del poeta, che è il grande programma di tutta la vita di Leopardi. Segue poi un’appendice di traduzioni dal greco. Da quale poeta? Da quello stesso Simonide cui Leopardi aveva ceduto il palcoscenico nella poesia incipitaria. Il giro è completo. I Canti sono una raccolta circolare. Nel cerchio, appunto, che non ha né inizio né fine riconoscibili, è la metafora geometrica che meglio rappresenti la mente di questo poeta ossessivo, inquieto, infaticabile, che torna di continuo a mettere in discussione i traguardi raggiunti.
Per questo, i Canti, se sono un ragionare sulla fatica della condizione umana, sono anche un inno alla bellezza del vivere, e attribuiscono principalmente alla poesia il compito di cogliere tale contraddizione. Non si dica mai che Leopardi fu poeta religioso. Perché non lo fu. In lui mai la disperazione fece spazio alla speranza di una risposta ultraterrena. E proprio il rifiuto della metafisica rende questa poesia così contraddittoria, così bloccata e viva, anzi vivissima nelle sue incoerenze e nella celebrazione di un sogno tramontato. Avesse invocato Dio, Leopardi sarebbe stato un poeta completamente diverso. Leggeremmo altre poesie. Non avremmo imparato quello che i Canti insegnano: a porre domande pur anche nel dubbio di arrivare mai alle risposte. Non capiremmo tanto il significato della nostra giovinezza e il valore del passato dei popoli.
Nicola Gardini, Per una biblioteca indispensabile. Cinquantadue classici della letteratura italiana, Einaudi, Torino 2011
1 Quale invenzione accomuna Petrarca e Leopardi? Argomenta la tua risposta.
2 Perché i Canti leopardiani possono essere concepiti come un’opera unitaria, nonostante i differenti stili che caratterizzano i componimenti?
3 Spiega come la tensione dialettica tra il concetto di infinito e l’idea di storia sia il fulcro della poetica di Leopardi.