T22 - La ginestra o il fiore del deserto

T22

La ginestra o il fiore del deserto

Canti, 34

Scritto nel 1836 durante il soggiorno in una villa sulle falde del Vesuvio, presso Torre del Greco, La ginestra rappresenta l’approdo finale della filosofia leopardiana. Collocata a chiusura dei Canti nell’edizione postuma del 1845, il componimento è una sorta di testamento spirituale da consegnare ai posteri, la meditazione estrema di un poeta straordinario, che, pur ribadendo con forza la condizione permanente di un pessimismo assoluto e abbracciando totalmente e con convinzione la ragione che vanifica ogni illusione di progresso, si appella all’umanità affinché abbandoni ogni vano orgoglio e si unisca contro la sua vera e implacabile nemica, la natura.


Metro Canzone libera composta da 7 strofe di diversa misura, formate da endecasillabi e settenari liberamente rimati.

Kαὶ ἠγάπησαν οἱ ἄνθρωποι μα˜λλον τὸ σκότος τὸ φω˜ς.

E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce.*

(Giovanni, III, 19)

Qui su l’arida schiena

del formidabil monte

sterminator Vesevo,

la qual null’altro allegra arbor né fiore,

5      tuoi cespi solitari intorno spargi,

odorata ginestra,

contenta dei deserti. 

                                        Anco ti vidi

de’ tuoi steli abbellir l’erme contrade

che cingon la cittade

10    la qual fu donna de’ mortali un tempo,

e del perduto impero

par che col grave e taciturno aspetto

faccian fede e ricordo al passeggero.

Or ti riveggo in questo suol, di tristi

15    lochi e dal mondo abbandonati amante,

e d’afflitte fortune ognor compagna.

Questi campi cosparsi

di ceneri infeconde, e ricoperti

dell’impietrata lava,

20    che sotto i passi al peregrin risona;

dove s’annida e si contorce al sole

la serpe, e dove al noto

cavernoso covil torna il coniglio;

fur liete ville e colti,

25    e biondeggiàr di spiche, e risonaro

di muggito d’armenti;

fur giardini e palagi,

agli ozi de’ potenti

gradito ospizio; e fur città famose

30    che coi torrenti suoi l’altero monte

dall’ignea bocca fulminando oppresse

con gli abitanti insieme. Or tutto intorno

una ruina involve,

dove tu siedi, o fior gentile, e quasi

35    i danni altrui commiserando, al cielo

di dolcissimo odor mandi un profumo,

che il deserto consola. 

                                           A queste piagge

venga colui che d’esaltar con lode

il nostro stato ha in uso, e vegga quanto

40     è il gener nostro in cura

all’amante natura. E la possanza

qui con giusta misura

anco estimar potrà dell’uman seme,

cui la dura nutrice, ov’ei men teme,

45     con lieve moto in un momento annulla

in parte, e può con moti

poco men lievi ancor subitamente

annichilare in tutto.

Dipinte in queste rive

50     son dell’umana gente

le magnifiche sorti e progressive.

Qui mira e qui ti specchia,

secol superbo e sciocco,

che il calle insino allora

55    dal risorto pensier segnato innanti

abbandonasti, e volti addietro i passi,

del ritornar ti vanti,

e procedere il chiami.

Al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti,

60    di cui lor sorte rea padre ti fece,

vanno adulando, ancora

ch’a ludibrio talora

t’abbian fra sé. 

                                   Non io

con tal vergogna scenderò sotterra;

65    ma il disprezzo piuttosto che si serra

di te nel petto mio,

mostrato avrò quanto si possa aperto:

ben ch’io sappia che obblio

preme chi troppo all’età propria increbbe.

70    Di questo mal, che teco

mi fia comune, assai finor mi rido.

Libertà vai sognando, e servo a un tempo

vuoi di novo il pensiero,

sol per cui risorgemmo

75    della barbarie in parte, e per cui solo

si cresce in civiltà, che sola in meglio

guida i pubblici fati.

Così ti spiacque il vero

dell’aspra sorte e del depresso loco

80    che natura ci diè. Per questo il tergo

vigliaccamente rivolgesti al lume

che il fe’ palese: e, fuggitivo, appelli

vil chi lui segue, e solo

magnanimo colui

85    che se schernendo o gli altri, astuto o folle,

fin sopra gli astri il mortal grado estolle.

Uom di povero stato e membra inferme

che sia dell’alma generoso ed alto,

non chiama se né stima

90    ricco d’or né gagliardo,

e di splendida vita o di valente

persona infra la gente

non fa risibil mostra;

ma se di forza e di tesor mendico

95    lascia parer senza vergogna, e noma

parlando, apertamente, e di sue cose

fa stima al vero uguale.

Magnanimo animale

non credo io già, ma stolto,

100 quel che nato a perir, nutrito in pene,

dice, a goder son fatto,

e di fetido orgoglio

empie le carte, eccelsi fati e nove

felicità, quali il ciel tutto ignora,

105 non pur quest’orbe, promettendo in terra

a popoli che un’onda

di mar commosso, un fiato

d’aura maligna, un sotterraneo crollo

distrugge sì, che avanza

110 a gran pena di lor la rimembranza.

Nobil natura è quella

che a sollevar s’ardisce

gli occhi mortali incontra

al comun fato, e che con franca lingua,

115  nulla al ver detraendo,

confessa il mal che ci fu dato in sorte,

e il basso stato e frale;

quella che grande e forte

mostra sé nel soffrir, né gli odii e l’ire

120  fraterne, ancor più gravi

d’ogni altro danno, accresce

alle miserie sue, l’uomo incolpando

del suo dolor, ma dà la colpa a quella

che veramente è rea, che de’ mortali

125  madre è di parto e di voler matrigna.

Costei chiama inimica; e incontro a questa

congiunta esser pensando,

siccome è il vero, ed ordinata in pria

l’umana compagnia,

130  tutti fra sé confederati estima

gli uomini, e tutti abbraccia

con vero amor, porgendo

valida e pronta ed aspettando aita

negli alterni perigli e nelle angosce

135  della guerra comune. Ed alle offese

dell’uomo armar la destra, e laccio porre

al vicino ed inciampo,

stolto crede così qual fora in campo

cinto d’oste contraria, in sul più vivo

140  incalzar degli assalti,

gl’inimici obbliando, acerbe gare

imprender con gli amici,

e sparger fuga e fulminar col brando

infra i propri guerrieri.

145  Così fatti pensieri

quando fien, come fur, palesi al volgo,

e quell’orror che primo

contra l’empia natura

strinse i mortali in social catena,

150  fia ricondotto in parte

da verace saper, l’onesto e il retto

conversar cittadino,

e giustizia e pietade, altra radice

avranno allor che non superbe fole,

155  ove fondata probità del volgo

così star suole in piede

quale star può quel ch’ha in error la sede.

Sovente in queste rive,

che, desolate, a bruno

160  veste il flutto indurato, e par che ondeggi,

seggo la notte; e su la mesta landa

in purissimo azzurro

veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,

cui di lontan fa specchio

165  il mare, e tutto di scintille in giro

per lo vòto seren brillare il mondo.

E poi che gli occhi a quelle luci appunto,

ch’a lor sembrano un punto,

e sono immense, in guisa

170  che un punto a petto a lor son terra e mare

veracemente; a cui

l’uomo non pur, ma questo

globo ove l’uomo è nulla,

sconosciuto è del tutto; e quando miro

175  quegli ancor più senz’alcun fin remoti

nodi quasi di stelle,

ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo

e non la terra sol, ma tutte in uno,

del numero infinite e della mole,

180  con l’aureo sole insiem, le nostre stelle

o sono ignote, o così paion come

essi alla terra, un punto

di luce nebulosa; al pensier mio

che sembri allora, o prole

185  dell’uomo? 

185                          E rimembrando

il tuo stato quaggiù, di cui fa segno

il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,

che te signora e fine

credi tu data al Tutto, e quante volte

190  favoleggiar ti piacque, in questo oscuro

granel di sabbia, il qual di terra ha nome,

per tua cagion, dell’universe cose

scender gli autori, e conversar sovente

co’ tuoi piacevolmente, e che i derisi

195  sogni rinnovellando, ai saggi insulta

fin la presente età, che in conoscenza

ed in civil costume

sembra tutte avanzar; qual moto allora,

mortal prole infelice, o qual pensiero

200  verso te finalmente il cor m’assale?

Non so se il riso o la pietà prevale.

Come d’arbor cadendo un picciol pomo,

cui là nel tardo autunno

maturità senz’altra forza atterra,

205  d’un popol di formiche i dolci alberghi,

cavati in molle gleba

con gran lavoro, e l’opre

e le ricchezze che adunate a prova

con lungo affaticar l’assidua gente

210  avea provvidamente al tempo estivo,

schiaccia, diserta e copre

in un punto; così d’alto piombando,

dall’utero tonante

scagliata al ciel profondo,

215  di ceneri e di pomici e di sassi

notte e ruina, infusa

di bollenti ruscelli

o pel montano fianco

furiosa tra l’erba

220  di liquefatti massi

e di metalli e d’infocata arena

scendendo immensa piena,

le cittadi che il mar là su l’estremo

lido aspergea, confuse

225  e infranse e ricoperse

in pochi istanti: onde su quelle or pasce

la capra, e città nove

sorgon dall’altra banda, a cui sgabello

son le sepolte, e le prostrate mura

230  l’arduo monte al suo piè quasi calpesta.

Non ha natura al seme

dell’uom più stima o cura

che alla formica: e se più rara in quello

che nell’altra è la strage,

235  non avvien ciò d’altronde

fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde.

Ben mille ed ottocento

anni varcàr poi che spariro, oppressi

dall’ignea forza, i popolati seggi,

240  e il villanello intento

ai vigneti, che a stento in questi campi

nutre la morta zolla e incenerita,

ancor leva lo sguardo

sospettoso alla vetta

245  fatal, che nulla mai fatta più mite

ancor siede tremenda, ancor minaccia

a lui strage ed ai figli ed agli averi

lor poverelli. E spesso

il meschino in sul tetto

250  dell’ostel villereccio, alla vagante

aura giacendo tutta notte insonne,

e balzando più volte, esplora il corso

dal temuto bollor, che si riversa

dall’inesausto grembo

255  su l’arenoso dorso, a cui riluce

di Capri la marina

e di Napoli il porto e Mergellina.

E se appressar lo vede, o se nel cupo

del domestico pozzo ode mai l’acqua

260  fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,

desta la moglie in fretta, e via, con quanto

di lor cose rapir posson, fuggendo,

vede lontan l’usato

suo nido, e il picciol campo,

265  che gli fu dalla fame unico schermo,

preda al flutto rovente,

che crepitando giunge, e inesorato

durabilmente sovra quei si spiega.

Torna al celeste raggio

270  dopo l’antica obblivion l’estinta

Pompei, come sepolto

scheletro, cui di terra

avarizia o pietà rende all’aperto;

e dal deserto foro

275  diritto infra le file

dei mozzi colonnati il peregrino

lunge contempla il bipartito giogo

e la cresta fumante,

che alla sparsa ruina ancor minaccia.

280  E nell’orror della secreta notte

per li vacui teatri,

per li templi deformi e per le rotte

case, ove i parti il pipistrello asconde,

come sinistra face

285  che per vòti palagi atra s’aggiri,

corre il baglior della funerea lava,

che di lontan per l’ombre

rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.

Così, dell’uomo ignara e dell’etadi

290  ch’ei chiama antiche, e del seguir che fanno

dopo gli avi i nepoti,

sta natura ognor verde, anzi procede

per sì lungo cammino

che sembra star. Caggiono i regni intanto,

295  passan genti e linguaggi: ella nol vede:

e l’uom d’eternità s’arroga il vanto.

E tu, lenta ginestra,

che di selve odorate

queste campagne dispogliate adorni,

300  anche tu presto alla crudel possanza

soccomberai del sotterraneo foco,

che ritornando al loco

già noto, stenderà l’avaro lembo

su tue molli foreste. E piegherai

305  sotto il fascio mortal non renitente

il tuo capo innocente:

ma non piegato insino allora indarno

codardamente supplicando innanzi

al futuro oppressor; ma non eretto

310  con forsennato orgoglio inver le stelle,

né sul deserto, dove

e la sede e i natali

non per voler ma per fortuna avesti;

ma più saggia, ma tanto

315  meno inferma dell’uom, quanto le frali

tue stirpi non credesti

o dal fato o da te fatte immortali.

 >> pagina 142 

Dentro il TESTO

I contenuti tematici

La ginestra è il canto di Leopardi più esteso (ben 317 versi) e più importante dal punto di vista dell’impegno ideologico: la sua riflessione tutta negativa si propone come un nuovo fondamento della vita e della civiltà, indicando una possibile forma di resistenza e di convivenza per l’umanità. Al termine del suo viaggio intellettuale, lungo il quale ha percorso con coraggio i sentieri impervi della “verità”, ora il poeta intende presentare un messaggio che sintetizzi il proprio progetto di una morale laica coerente con un pensiero rigorosamente materialistico e contrario a ogni illusione provvidenzialistica.

La meditazione morale e il suo approdo conclusivo passano attraverso una lunga serie di immagini e una complessa sequenza di concetti, con frequenti riprese, che rendono compatto lo svolgimento del discorso. Il titolo del canto riporta il nome di un fiore: e con il vocabolo “fiore” in vari punti dell’intero libro dei Canti viene designata la parte migliore dell’esistenza umana, vale a dire la giovinezza (indicata, per esempio, al v. 49 delle Ricordanze come «dell’arida vita unico fiore»). Non a caso, la ginestra viene chiamata in causa dal poeta sia all’inizio sia alla fine del lungo ragionamento: di volta in volta definita odorata (v. 6), contenta dei deserti (v. 7), gentile (v. 34), lenta (v. 297), saggia (v. 314), costituisce l’immagine-ossatura del componimento, gli conferisce una struttura circolare ed esemplifica, con la sua forza priva di superbia e con la sua dignitosa pazienza, la capacità di opporsi alla furia devastatrice della natura.
Dopo averla già vista a Roma, nelle zone periferiche della città, il poeta ritrova ora alle falde del Vesuvio l’umile ginestra, che, amante dei luoghi tristi (v. 14) e abbandonati (v. 15) pare comprendere le sofferenze altrui, consolando con il suo profumo lo squallore del paesaggio. Oggi, attorno al Vesuvio, essa fiorisce in lande deserte, un tempo sedi di ferventi attività agricole e di città popolose. Coloro che hanno una visione positiva della vita umana dovrebbero recarsi in quei luoghi per capire quanto poco la natura abbia a cuore il genere umano. Essa, infatti, con un piccolo sforzo può annientare in parte le opere dell’uomo e gli stessi esseri viventi, e, con uno sforzo soltanto di poco maggiore, distruggerli. La vanità e la caducità del tutto sono così rappresentate dal paesaggio petroso, che testimonia con la sconsolata realtà del suo panorama la vittoria della natura sulla Storia, sugli uomini e sulle loro povere creazioni, destinate a essere azzerate per sempre: Dipinte in queste rive / son dell’umana gente / le magnifiche sorti e progressive (vv. 49-51).

 >> pagina 143 

Il poeta polemizza con il proprio tempo, definito, in una secca apostrofe, secol superbo e sciocco (v. 53). A partire dal Rinascimento (risorto pensier, v. 55) e poi con l’Illuminismo, l’approccio razionale alla realtà era riuscito, almeno in parte, a sconfiggere la barbarie (v. 75) medievale, cioè – nella visione leopardiana – l’insieme delle credenze religiose, equiparate a mere superstizioni irrazionalistiche. Il Romanticismo mistifica infatti la real­tà, autocelebrandosi in modo paradossale e ingannevole: esso chiama procedere (v. 58) quello che è invece un ritornar (v. 57: un indietreggiare cioè verso il buio dell’ignoranza); annovera tra i propri valori la Libertà (v. 72), ma in realtà il pensiero contemporaneo sembra andare piuttosto stabilendo una nuova schiavitù della ragione nei confronti della fede e dei dogmi religiosi.

La polemica dell’autore si appunta in particolare contro lo spiritualismo cattolico che pone l’uomo al centro della mente divina (fin sopra gli astri, v. 86). Tuttavia per Leopardi chi professa questa concezione della condizione umana illude sé stesso oppure è in malafede (se schernendo o gli altri, astuto o folle, v. 85; ancora / ch’a ludibrio talora / t’abbian fra sé, vv. 61-63). Diversa è infatti la posizione del poeta, che, avverso a ogni metafisica, rifiuta la religione in quanto per lui espressione di viltà (Non io / con tal vergogna scenderò sotterra, vv. 63-64), pur essendo consapevole che chi va controcorrente rispetto al pensiero dominante è fatto oggetto di quella che gli antichi romani chiamavano damnatio memoriae, cioè la condanna alla dimenticanza.

Dinanzi al male che domina l’esistenza, gli uomini si dividono per Leopardi in due categorie: quelli che si ostinano a ritenersi fortunati in quanto esseri privilegiati nell’universo e quelli che invece, guardando in faccia la realtà, riconoscono la miseria dello stato umano sulla Terra. Il poeta propende naturalmente per questa seconda visione, perché i primi a suo giudizio sono patetici e ricordano un uomo povero e malato che parli di sé stesso come di una persona ricca e sana: che neghi, cioè, l’evidenza. Quello di Leopardi, peraltro, non è soltanto puntiglio intellettuale, perché l’adesione alla verità ha una positiva ricaduta morale e sociale: una volta riconosciuta la tristezza della condizione umana, è possibile allearsi contro il nemico comune, la natura, madre […] di parto e di voler matrigna (v. 125). In tal modo la concezione della vita avrà solide fondamenta razionali, in grado di promuovere la giustizia e la solidarietà.
Con la quarta strofa la dimensione spazio-temporale si allarga da una prospettiva terrestre a una cosmica. Osservando il cielo dal paesaggio ricoperto dalla lava, il poeta è indotto a riflettere su come, rispetto all’universo, la Terra e l’uomo siano un nulla. Il panorama astrale non evoca più, come nell’Infinito (▶ T13, p. 93), l’immensità in cui l’individuo può perdersi con l’immaginazione, ma diventa la metafora dell’irrilevanza dell’uomo, ridotto nel sistema universale a uno stato di assoluta e ininfluente marginalità. Per questo, a metà tra la derisione e la pena (Non so se il riso o la pietà prevale, v. 201), Leopardi attacca la cultura del proprio secolo, il quale ha riportato in auge miti e credenze religiose che la ragione illuministica sembrava aver sconfitto per sempre, perpetuando un’ingannevole immagine antropocentrica del mondo.

 >> pagina 144 
Il motivo dell’insignificanza dell’uomo viene ripreso anche in questa strofa, mediante una lunga similitudine, che la occupa quasi per intero e che costituisce una sorta di apologo: come un frutto maturo cadendo da un albero annienta (schiaccia, diserta e copre, v. 211) un’intera colonia di formiche, così l’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. ha distrutto (confuse e infranse e ricoperse, vv. 224-225) le città limitrofe, facendo perire tragicamente tutti i loro abitanti. Ciò mostra come la natura sia indifferente allo stesso modo agli uomini e alle formiche; essa non si interessa né agli uni né alle altre, e dunque l’uomo non ha alcun privilegio particolare rispetto agli altri esseri viventi, dei quali condivide la sorte, ugualmente inserita nell’eterno ciclo di nascita, trasformazione e morte.

Il personaggio, evocato a questo punto, di un contadino che scruta preoccupato i segni del Vesuvio, sembra prelevato a prima vista da una scena idillica (in questa direzione vanno, oltre che l’immagine del villanello, v. 240, anche quelle dell’ostel villereccio, v. 250, e del picciol campo, v. 264): in realtà la sua innocenza sottolinea per contrasto l’onnipotenza devastatrice della natura, che lo costringe a lasciare ogni avere pur di mettersi in salvo con la famiglia. Il destino che incombe su di lui è lo stesso che ha travolto l’antica Pompei, ora tornata alla luce grazie agli scavi archeo­logici e descritta con un gusto delle rovine e del macabro cimiteriale, influenzato dalla letteratura preromantica.

Qui però all’intento puramente estetico si sostituisce quello ideologico: alla civiltà umana si contrappone la natura, insensibile all’uomo e alle sue realizzazioni. Essa si perpetua attraverso un tempo lunghissimo, incurante delle generazioni e delle epoche storiche.

Infine il discorso torna al punto di partenza: il poeta si rivolge infatti nuovamente alla ginestra, meditando sulla sua situazione. Anch’essa, prima o poi, dovrà soccombere ancora una volta al furore distruttivo del vulcano, ma si piegherà sotto la lava senza protestare. Leopardi ammira nella ginestra la dote dell’umiltà: non – come accade con l’uomo – la sottomissione codarda e magari anche un po’ ipocrita alla divinità (il tuo capo […] / […] non piegato […] / codardamente supplicando innanzi / al futuro oppressor, vv. 306-309) e neppure, al contrario, la sciocca esaltazione di sé (eretto / con forsennato orgoglio inver le stelle, vv. 309-310) nel credersi appartenente a una specie superiore alle altre. Il messaggio di Leopardi è chiaro: la constatazione del dolore e dell’infelicità che avvolgono la vita umana non deve condurre né alla falsa opinione di un’impossibile immortalità né a una resa rinunciataria, ma a un’accettazione dignitosa del destino.

Le scelte stilistiche

Il testo è abilmente costruito sull’alternanza tra fasi descrittive, squarci paesaggistici e momenti riflessivi. E a seconda delle situazioni, il poeta varia il ritmo della versificazione. Così troviamo, per esempio, nella sequenza della distruzione, nella quinta strofa, un ritmo incalzante ottenuto attraverso il ricorso a una serie di climax ascendenti (spesso scanditi dal polisindeto): schiaccia, diserta e copre (v. 211); di ceneri e di pomici e di sassi (v. 215); di liquefatti massi / e di metalli e d’infocata arena (vv. 220-221); confuse / e infranse e ricoperse (vv. 224-225). A fasi di forte tensione drammatica come questa, ne seguono altre in cui il periodare è meno concitato, come nella quarta strofa, in cui la meditazione sull’infinità dell’universo si distende nel movimento di periodi assai lunghi, caratterizzati dall’ipotassi. L’autore riesce a conseguire i diversi effetti ritmici anche modulando di volta in volta quella successione di endecasillabi e settenari che la canzone libera gli consente con la massima flessibilità: prevalgono gli endecasillabi nelle fasi più distese (per esempio, per limitarci alla prima strofa, quando viene descritta la ginestra: vv. 4-8; 14-16; 34-37), mentre sono più frequenti i settenari nei passaggi dal ritmo più incalzante (a partire dai primi tre versi del testo, con la presentazione del vulcano minaccioso).

 >> pagina 145

Alla variazione del ritmo corrisponde spesso un’analoga variazione del tono, che alterna momenti ragionativi, accenti polemici e inflessioni liriche. Una delle modalità espressive più ricorrenti è quella dell’ironia, che a volte sconfina nel sarcasmo. Ciò avviene per esempio quando Leopardi vuole deridere la presunzione dell’uomo rispetto al suo ruolo nell’universo e alla supposta benevolenza nei suoi confronti da parte della divinità: si vedano, per esempio, i versi 49-51 (Dipinte in queste rive / son dell’umana gente / le magnifiche sorti e progressive) e anche quelli che aprono la strofa immediatamente successiva (Qui mira e qui ti specchia, / secol superbo e sciocco, vv. 52-53). Altre volte, invece, troviamo un tono elegiaco, come nei passi nei quali sono presentati la ginestra o il paesaggio (si vedano, all’inizio della quarta strofa, i vv. 158-166); oppure un tono drammatico, quando viene descritta l’attività del vulcano; e ancora un tono meditativo quando il poe­ta riflette su quanto sia piccola la Terra negli spazi infiniti dell’universo o sullo scorrere del tempo, come accade nella quarta strofa.

Le scelte lessicali sono di tono sostenuto ed elevato, del resto adeguato all’importanza dei temi affrontati. Sono frequenti, infatti, gli arcaismi e i latinismi (per esempio, già nella prima strofa, formidabil, Vesevo, erme, donna, liete, ville, armenti, ozi, ignea, ruina, siedi, annichilare), che spesso, peraltro, rimandano a precisi echi letterari (da Virgilio, Petrarca, Foscolo), evidentemente presenti nella memoria di un poeta coltissimo come Leopardi. Altre volte, in alcuni squarci paesaggistici (come ai vv. 158-166), ritroviamo alcuni vocaboli “indefiniti” tipici della fase degli idilli: mesta, landa, purissimo azzurro, di lontan, vòto, seren. Ma tali elementi lessicali «tornano in una prospettiva radicalmente nuova in cui la percezione dell’infinito ormai genera solo la sgomenta consapevolezza della schiacciante sproporzione fra il cosmo e l’uomo» (Gioanola).

 >> pagina 146 

Verso le COMPETENZE

COMPRENDERE

1 Quale significato assume la frase in esergo?


2 Che cosa intende il poeta con pargoleggiar (v. 59)? A quale tendenza del pensiero del proprio tempo si riferisce?


3 Che cos’è la guerra comune del v. 135?


4 A che cosa si riferisce l’espressione il suol ch’io premo al v. 187? Perché questo suolo offre testimonianza della condizione dell’uomo sulla Terra (come viene detto al verso precedente)?


5 A che cosa si riferisce quei al v. 268?


6 Spiega il significato dei vv. 271-273 (come sepolto / scheletro, cui di terra / avarizia o pietà rende all’aperto).


7 Al v. 314 la ginestra viene definita più saggia. Più saggia di chi? Per quale motivo?

ANALIZZARE

8 Rintraccia sei apostrofi presenti nel componimento.


9 Individua nel testo almeno tre esempi di costrutti sintattici classicheggianti con il verbo collocato alla fine del periodo.


10 Che funzione hanno, al v. 4, il pronome relativo la qual e i sostantivi arbor e fiore?


11 Quale figura riconosci ai vv. 24-32?

  • a Una metafora.
  • b Un’anafora.
  • c Un’epifora.
  • d Una sineddoche.


12 Quale connotazione è ravvisabile nell’espressione amante natura (v. 41)?


13 Ponendo attenzione al rapporto tra i concetti e la disposizione delle parole, quale figura possiamo riconoscere al v. 85 (sé schernendo o gli altri, astuto o folle)?


14 Individua due antitesi presenti ai vv. 72-86.


15 Che complemento è dell’alma al v. 88?


16 Rintraccia i chiasmi presenti nella terza strofa.


17 Individua nella quinta strofa gli elementi di simmetria all’interno della similitudine tra le formiche e gli uomini.


18 Ai vv. 241-242 quali sono le funzioni logiche rispettivamente del pronome relativo che e del sostantivo zolla?

INTERPRETARE

19 A quale scopo viene introdotta un’anafora della congiunzione ma a inizio di periodi ai vv. 307-317?


20 Come ti sembra mutato l’atteggiamento psicologico e intellettuale di Leopardi da A se stesso ( T21, p. 131) alla Ginestra? Spiegalo in un testo argomentativo di circa 20 righe.

Produrre

21 Scrivere per argomentare. A partire dalla lettura della Ginestra, ma ampliando la tua informazione con altre fonti, sviluppa un testo argomentativo di circa 30 righe sul rapporto tra Leopardi e l’Illuminismo.

Dibattito in classe

22 Leopardi aveva in mente una Lettera ad un giovane del XX secolo, che però non scrisse mai. Secondo il critico Walter Binni, «La ginestra può leggersi anche come la realizzazione suprema di questa Lettera a un giovane del ventesimo secolo, mai stesa, ma vivamente pensata: messaggio, quello della Ginestra, che è, sulla asserita, amarissima realtà della sorte degli uomini tutta e solo su questa terra, tanto più l’invito urgente ad una lotta per una attiva e concorde prassi sociale, per una società comunitaria di tutti gli uomini, veramente libera, “eguale” giusta ed aperta, veramente e interamente fraterna: lotta il cui successo non ha nessuna garanzia e che è tanto più doverosa proprio nella sua ardua difficoltà». Sei d’accordo con quanto afferma il critico? Perché? Confrontati con i compagni.

Volti e luoghi della letteratura - Giacomo Leopardi
Volti e luoghi della letteratura - Giacomo Leopardi