T17 - Le ricordanze

T17

Le ricordanze

Canti, 22

Composta tra la fine d’agosto e l’inizio di settembre del 1829 a Recanati, la lirica testimonia il doloroso ritorno di Leopardi al paese natale, dopo il fallimento dei tentativi di emancipazione economica dalla famiglia messi in atto nei quattro anni precedenti, in cui il poeta aveva vissuto a Milano, Bologna, Firenze e Pisa. Nuovamente a casa, nei luoghi dell’infanzia, l’autore pone a confronto la tristezza del presente con le dolci illusioni che avevano nutrito la sua giovinezza.


Metro Strofe di diversa misura in endecasillabi sciolti.

Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea

tornare ancor per uso a contemplarvi

sul paterno giardino scintillanti,

e ragionar con voi dalle finestre

5      di questo albergo ove abitai fanciullo,

e delle gioie mie vidi la fine.

Quante immagini un tempo, e quante fole

creommi nel pensier l’aspetto vostro

e delle luci a voi compagne! allora

10    che, tacito, seduto in verde zolla,

delle sere io solea passar gran parte

mirando il cielo, ed ascoltando il canto

della rana rimota alla campagna!

E la lucciola errava appo le siepi

15    e in su l’aiuole, susurrando al vento

i viali odorati, ed i cipressi

là nella selva; e sotto al patrio tetto

sonavan voci alterne, e le tranquille

opre de’ servi. E che pensieri immensi,

20    che dolci sogni mi spirò la vista

di quel lontano mar, quei monti azzurri,

che di qua scopro, e che varcare un giorno

io mi pensava, arcani mondi, arcana

felicità fingendo al viver mio!

25    Ignaro del mio fato, e quante volte

questa mia vita dolorosa e nuda

volentier con la morte avrei cangiato.



Né mi diceva il cor che l’età verde

sarei dannato a consumare in questo

30    natio borgo selvaggio, intra una gente

zotica, vil; cui nomi strani, e spesso

argomento di riso e di trastullo,

son dottrina e saper; che m’odia e fugge,

per invidia non già, che non mi tiene

35    maggior di se, ma perché tale estima

ch’io mi tenga in cor mio, sebben di fuori

a persona giammai non ne fo segno.

Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,

senz’amor, senza vita; ed aspro a forza

40    tra lo stuol de’ malevoli divengo:

qui di pietà mi spoglio e di virtudi,

e sprezzator degli uomini mi rendo,

per la greggia ch’ho appresso: e intanto vola

il caro tempo giovanil; più caro

45    che la fama e l’allor, più che la pura

luce del giorno, e lo spirar: ti perdo

senza un diletto, inutilmente, in questo

soggiorno disumano, intra gli affanni,

o dell’arida vita unico fiore.

50    Viene il vento recando il suon dell’ora

dalla torre del borgo. Era conforto

questo suon, mi rimembra, alle mie notti,

quando fanciullo, nella buia stanza,

per assidui terrori io vigilava,

55    sospirando il mattin. Qui non è cosa

ch’io vegga o senta, onde un’immagin dentro

non torni, e un dolce rimembrar non sorga.

Dolce per se; ma con dolor sottentra

il pensier del presente, un van desio

60    del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.

Quella loggia colà, volta agli estremi

raggi del dì; queste dipinte mura,

quei figurati armenti, e il Sol che nasce

su romita campagna, agli ozi miei

65    porser mille diletti allor che al fianco

         m’era, parlando, il mio possente errore

sempre, ov’io fossi. In queste sale antiche,

al chiaror delle nevi, intorno a queste

ampie finestre sibilando il vento,

70    rimbombaro i sollazzi e le festose

mie voci al tempo che l’acerbo, indegno

mistero delle cose a noi si mostra

pien di dolcezza; indelibata, intera

il garzoncel, come inesperto amante,

75    la sua vita ingannevole vagheggia,

e celeste beltà fingendo ammira.


O speranze, speranze; ameni inganni

della mia prima età! sempre, parlando,

ritorno a voi; che per andar di tempo,

80    per variar d’affetti e di pensieri,

obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,

son la gloria e l’onor; diletti e beni

mero desio; non ha la vita un frutto,

inutile miseria. E sebben vóti

85    son gli anni miei, sebben deserto, oscuro

il mio stato mortal, poco mi toglie

la fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta

a voi ripenso, o mie speranze antiche,

ed a quel caro immaginar mio primo;

90    indi riguardo il viver mio sì vile

e sì dolente, e che la morte è quello

che di cotanta speme oggi m’avanza;

sento serrarmi il cor, sento ch’al tutto

consolarmi non so del mio destino.

95    E quando pur questa invocata morte

sarammi allato, e sarà giunto il fine

della sventura mia; quando la terra

mi fia straniera valle, e dal mio sguardo

fuggirà l’avvenir; di voi per certo

100 risovverrammi; e quell’imago ancora

sospirar mi farà, farammi acerbo

l’esser vissuto indarno, e la dolcezza

del dì fatal tempererà d’affanno.

E già nel primo giovanil tumulto

105 di contenti, d’angosce e di desio,

morte chiamai più volte, e lungamente

mi sedetti colà su la fontana

pensoso di cessar dentro quell’acque

la speme e il dolor mio. Poscia, per cieco

110 malor, condotto della vita in forse,

piansi la bella giovanezza, e il fiore

de’ miei poveri dì, che sì per tempo

cadeva: e spesso all’ore tarde, assiso

sul conscio letto, dolorosamente

115 alla fioca lucerna poetando,

lamentai co’ silenzi e con la notte

il fuggitivo spirto, ed a me stesso

in sul languir cantai funereo canto.

Chi rimembrar vi può senza sospiri,

120 o primo entrar di giovinezza, o giorni

vezzosi, inenarrabili, allor quando

al rapito mortal primieramente

sorridon le donzelle; a gara intorno

ogni cosa sorride; invidia tace,

125 non desta ancora ovver benigna; e quasi

(inusitata maraviglia!) il mondo

la destra soccorrevole gli porge,

scusa gli errori suoi, festeggia il novo

suo venir nella vita, ed inchinando

130 mostra che per signor l’accolga e chiami?

Fugaci giorni! a somigliar d’un lampo

son dileguati. E qual mortale ignaro

di sventura esser può, se a lui già scorsa

quella vaga stagion, se il suo buon tempo,

135 se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?

O Nerina! e di te forse non odo

questi luoghi parlar? caduta forse

dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,

che qui sola di te la ricordanza

140 trovo, dolcezza mia? Più non ti vede

questa Terra natal: quella finestra,

ond’eri usata favellarmi, ed onde

mesto riluce delle stelle il raggio,

è deserta. Ove sei, che più non odo

145 la tua voce sonar, siccome un giorno,

quando soleva ogni lontano accento

del labbro tuo, ch’a me giungesse, il volto

scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi

furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri

150 il passar per la terra oggi è sortito,

e l’abitar questi odorati colli.

Ma rapida passasti; e come un sogno

fu la tua vita. Ivi danzando; in fronte

la gioia ti splendea, splendea negli occhi

155 quel confidente immaginar, quel lume

di gioventù, quando spegneali il fato,

e giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna

l’antico amor. Se a feste anco talvolta,

se a radunanze io movo, infra me stesso

160 dico: o Nerina, a radunanze, a feste

tu non ti acconci più, tu più non movi.

Se torna maggio, e ramoscelli e suoni

van gli amanti recando alle fanciulle,

dico: Nerina mia, per te non torna

165 primavera giammai, non torna amore.

Ogni giorno sereno, ogni fiorita

piaggia ch’io miro, ogni goder ch’io sento,

dico: Nerina or più non gode; i campi,

l’aria non mira. Ahi tu passasti, eterno

170 sospiro mio: passasti: e fia compagna

d’ogni mio vago immaginar, di tutti

i miei teneri sensi, i tristi e cari

moti del cor, la rimembranza acerba.

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Dentro il TESTO

I contenuti tematici

Il componimento si articola in 7 strofe, in ciascuna delle quali l’autore si focalizza su un motivo particolare, annunciando al termine di essa quello della strofa successiva. I diversi concetti sono legati l’uno all’altro attraverso accostamenti non sempre basati su una struttura argomentativa serrata e stringente. Tuttavia cercheremo qui di seguito di ripercorrere i temi principali presentati di strofa in strofa.

  • Il ritorno ai luoghi dell’infanzia (vv. 1-27): tornato a Recanati a partire dal novembre del 1828, Leopardi è colpito e commosso dalle immagini della casa paterna che lo riportano alla memoria dell’infanzia. La lirica si apre con un’invocazione alla costellazione dell’Orsa Maggiore che splende sul giardino del palazzo di famiglia. Il poeta ricorda come la vista delle stelle e degli altri elementi del paesaggio recanatese (il mare e i monti in lontananza) crearono in lui ragazzo infinite fantasticherie.
  • La giovinezza sfiorita (vv. 28-49): quando era così giovane Leopardi non immaginava che sarebbe stato condannato a vivere in un luogo inospitale come Recanati, tra persone grette e ostili, e a condurre un’esistenza oscura. Ma ora la giovinezza fugge via, senza che egli l’abbia veramente assaporata.
  • I ricordi della casa paterna (vv. 50-76): il poeta rievoca la propria fanciullezza attraverso ricordi che generano in lui un senso di nostalgia per un’età in cui il futuro gli appariva roseo e allettante.
  • Le speranze ingannevoli (vv. 77-103): l’esperienza ha insegnato a Leopardi che tutto quanto sognava da fanciullo (gloria, onori, piaceri) è soltanto un’illusione, perché la vita è, in realtà, un semplice susseguirsi di dolori e delusioni senza scopo. Tuttavia quei sogni erano belli, tanto che ora egli ne sente la mancanza. Meglio, perciò, sarebbe morire, anche se teme che l’ultimo giorno di vita sarà amareggiato dal pensiero di non aver goduto le gioie dell’esistenza.
  • L’infelicità giovanile e il rimpianto della giovinezza perduta (vv. 104-135): al ricordo della fanciullezza, segue quello dell’adolescenza con tutti i sentimenti contrastanti che caratterizzano questa età: gioie, angosce, speranze, desiderio e al tempo stesso paura di morire.
  • Nerina, simbolo di un tempo che non torna (vv. 136-173): il poeta introduce la figura di Nerina, una ragazza recanatese morta in giovane età. Leopardi non può dimenticarla, tanto che ogniqualvolta gli capiti di vivere una situazione lieta (occasioni – confessa – in verità per lui sempre più rare) non riesce a non pensare che da tutto ciò Nerina è ormai esclusa per sempre.

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Chi è Nerina? Il nome è quello di una ninfa amica di Silvia nell’Aminta di Tasso. Si tratta dunque di un nome fittizio, di ascendenza letteraria, sotto il quale per alcuni si nasconderebbe la stessa Teresa Fattorini di A Silvia, secondo altri una certa Maria Belardinelli, un’altra ragazza di Recanati, morta nel 1827 all’età di ventisette anni. In ogni caso il personaggio incarna il mito della fanciulla precocemente scomparsa, attraverso cui Leopardi intende emblematizzare la fine delle speranze giovanili. Le espressioni affettuose con cui il poeta le si rivolge (dolcezza mia, v. 140; mio dolce amor, v. 149; Nerina mia, v. 164) – espressioni per la verità piuttosto convenzionali (tanto da ricordare versi della produzione arcadica) – più che testimoniare un sentimento d’amore da parte di Leopardi nei confronti della ragazza sottolineano il suo attaccamento alle illusioni giovanili, ormai definitivamente tramontate, di cui essa assurge a simbolo: Nerina è detta infatti da Leopardi eterno / sospiro mio (vv. 169-170) proprio perché rappresenta la gioventù e la speranza di felicità.

È stato osservato dalla critica che questo canto rappresenta una sorta di summa dei “grandi idilli” o canti pisano-recanatesi, in cui Leopardi cerca di recuperare, attraverso la memoria, la capacità di immaginazione tipica della giovinezza. Centrale è dunque il motivo del ricordo, a cui si aggiunge quello della disillusione, giacché il recupero di una condizione speranzosa e sospesa nell’attesa di un futuro positivo quale era quella giovanile appare di fatto impossibile. Così nelle varie strofe si intrecciano tra loro, in un’alternanza di passato e presente, i temi dell’illusione e del disinganno, e ciascuno di essi acquista maggiore evidenza proprio dall’accostamento a quello opposto.

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È particolarmente significativa, in questa poesia, anche l’ambientazione a Recanati. Nei confronti del natio borgo selvaggio (v. 30) Leopardi manifesta sentimenti ambivalenti. Il paese natale da un lato rappresenta il luogo dell’infanzia, dei suoi dolci ricordi, del formarsi, dei pensieri immensi (v. 19) e dei dolci sogni (v. 20) ispirati dalla contemplazione della realtà naturale che circondava la casa paterna; dall’altro esso si configura come quella prigione dalla quale Leopardi a più riprese ha cercato di evadere (a partire dal fallito tentativo di fuga del 1819) e nella quale ora è stato costretto a rientrare dopo che è naufragata la possibilità di conquistare l’indipendenza economica attraverso il lavoro editoriale. 

La contrapposizione è dunque tra la Recanati di ieri, bella e suggestiva nella prospettiva del ricordo, e la Recanati di oggi, in cui, cadute le illusioni, al poeta sembra di trascorrere gli anni abbandonato, occulto, / senz’amor, senza vita (vv. 38-39). Tale contrasto è impostato già nella dialettica che si instaura tra la prima strofa (in cui prevalgono predicati al passato: abitai, v. 5; vidi, v. 6; creommi, v. 8; ecc.) e la seconda (nella quale dominano verbi al presente: m’odia e fugge, v. 33; passo, v. 38; divengo, v. 40; ecc.), e poi pervade tutto il componimento.

Le scelte stilistiche

Il lungo componimento è un esempio significativo di quella poetica del vago e dell’indefinito più volte teorizzata da Leopardi. Concentrandoci solo sulla prima strofa, lo vediamo già dalla prima parola del testo, vaghe: l’aggettivo, riferito alle stelle, significa “belle” per il loro splendore, ma prima ancora, letteralmente, “vaganti”, “erranti”, poiché esse apparentemente si muovono nella volta celeste. Tale indeterminatezza semantica prosegue anche in alcune espressioni come rana rimota alla campagna (v. 13), dove il senso di indefinita lontananza veicolato dall’aggettivo rimota è rinforzato dalla preposizione articolata alla: Leopardi non sceglie la più ovvia “nella”, e probabilmente non solo per ragioni metriche. Nella stessa direzione va il sintagma là nella selva (v. 17): il luogo specifico è il boschetto nei pressi del monte Tabor (l’«ermo colle» dell’Infinito), che era quasi la continuazione del giardino di casa Leopardi, ma l’espressione ha il sapore di una lontananza quasi leggendaria. Ancora: i pensieri del giovane Leopardi sono immensi (v. 19), il mare lontano (v. 21) e i monti azzurri (v. 21) sempre per la lontananza. Ai vv. 23-24 l’uso dell’aggettivo “arcano” (arcani mondi, arcana / felicità fingendo al viver mio) evidenzia la fusione tra paesaggio esterno e paesaggio interiore.

La riflessione leopardiana sulla caduta delle illusioni e l’espressione della sofferenza interiore che essa provoca vengono rese, sul piano formale, attraverso una serie di espedienti retorici. L’apostrofe iniziale (Vaghe stelle dell’Orsa), umanizzando la natura, chiama i suoi elementi (le stelle) a una partecipazione al dramma intimo del poeta. Quest’ultimo motivo viene fortemente enfatizzato più avanti dalle frasi esclamative (Quante immagini… a voi compagne!, vv. 7-9; O speranze, speranze… della mia prima età!, vv. 77-78; ecc.) e dalle interrogative retoriche (Chi rimembrar vi può… l’accolga e chiami?, vv. 119-130; E qual mortale… è spenta?, vv. 132-135; ecc.). La ripetizione della congiunzione e ai vv. 14-19 rende l’affollarsi dei ricordi nella mente del poeta. Nell’ultima strofa, e in particolare a partire dal verso 148, attraverso una serie di frasi molto brevi (Altro tempo. I giorni tuoi / furo, mio dolce amor. Passasti ecc.) Leopardi cerca di trasmettere l’idea dell’infittirsi dei sospiri provocati dalla rievocazione dolorosa del passato.

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Verso le COMPETENZE

Comprendere

1 Qual è la ragione dell’infelicità del poeta?


2 Chi è Nerina? Perché l’autore parla di lei?

ANALIZZARE

3 Elenca le apostrofi introdotte dal poeta: chi sono i suoi ideali interlocutori?


4 Rintraccia nella lirica le espressioni con cui Leopardi si riferisce alle illusioni giovanili. Quale idea trasmettono della giovinezza?


5 Evidenzia i punti di passaggio tra passato e presente e viceversa. Perché il poeta tende a oscillare tra i due momenti temporali? Che cosa intende comunicare attraverso questa alternanza?


6 Trova nel testo altri esempi di espressioni vaghe e indefinite, oltre a quelli già segnalati.

INTERPRETARE

7 Quale effetto espressivo ottiene, ai vv. 23-24, la spezzatura, tramite enjambement, del sintagma arcana felicità?


8 A quale scopo il poeta al v. 135 ripete il vocabolo giovanezza?


9 Ai vv. 104-109 Leopardi ricorda di aver concepito in gioventù il pensiero del suicidio. Quali potrebbero essere le ragioni di tale proposito? Rispondi riflettendo sul testo, ma anche pensando a quanto hai appreso sulla biografia del poeta.

Produrre

10 Scrivere per confrontare. Confronta il personaggio di Nerina con quello di Silvia in un testo espositivo di circa 20 righe: quali analogie e quali differenze riscontri? 


11 Scrivere per argomentare. È stato notato da alcuni studiosi che i monti azzurri del v. 21 hanno una funzione analoga a quella della siepe dell’Infinito ( T13, p. 93). Sei d’accordo con questa interpretazione? Dopo aver condotto un confronto tra i due canti e il loro contenuti generali, argomenta la tua risposta in un testo di circa 20 righe.

Le ninfe della favola pastorale

Nerina e Silvia sono due personaggi dell’Aminta, una favola pastorale composta da Torquato Tasso nel 1573 e pubblicata intorno al 1580: nel testo, un pastore, Aminta, s’innamora di una ninfa mortale, Silvia, che lo ricambia solo quando l’uomo, disperato perché crede che l’amata sia morta, tenta di porre fine alla sua vita.

Le vicende dell’Aminta furono affrescate, nella seconda metà del Cinquecento, nella villa veneta di Caldogno edificata da Andrea Palladio nel 1542 in provincia di Vicenza e riccamente decorata al suo interno da un nutrito gruppo di pittori, tra cui Giovanni Antonio Fasolo (1530-1572), Giovanni Battista Zelotti (1526-1578), Giulio Carpioni (1613-1679). Gli affreschi simulano logge inquadrate da festoni di fiori e frutti, aperti su una ridente campagna molto simile a quella veneta, in cui si muovono i personaggi della favola pastorale del Tasso, insieme alle divinità del mondo classico.

Volti e luoghi della letteratura - Giacomo Leopardi
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