La poesia di un istante di Alfonso Berardinelli

LETTURE critiche

La poesia di un istante

di Alfonso Berardinelli

A differenza di Marinetti, che ha affidato a un programma la volontà del Futurismo di rompere i ponti con la tradizione lirica, Ungaretti attribuisce direttamente alle parole illuminanti dei suoi versi il compito di rivoluzionare la poesia italiana. Partendo da questo confronto, Alfonso Berardinelli (n. 1943) mette in evidenza la natura istintiva della scrittura ungarettiana: una forma di naturale e vitale «estremismo linguistico» a cui si sono ispirati – con molto minore autenticità – tanti successivi imitatori.

Non è forse questo il vero e più efficace manifesto poetico, l’irresistibile slogan lirico di tutto il Novecento? Ungaretti è riuscito a battere in velocità e semplificazione anche il suo concorrente più temibile: il fragoroso, facinoroso e inquietante Filippo Tommaso Mari­netti, padre del Futurismo e profeta della Fiat. Ungaretti non si è mischiato coi motori a scoppio, ha preferito l’elettricità, le scintille e i corti circuiti. Marinetti aveva ancora biso­gno, nel 1910, di articolare per punti il suo discorso programmatico sulla letteratura del futuro. Aveva bisogno del passo di corsa, della velocità, dello schiaffo e del pugno, come si legge nel suo manifesto. Era un attivista dell’arte, un invasato squadrista letterario, in posizione ginnica e militare.

Giuseppe Ungaretti è meno attivista del suo connazionale e concittadino più anzia­no (di dodici anni: entrambi nati ad Alessandria d’Egitto, figli di emigrati). Non rifiuta affatto l’estasi, tutt’altro. La usa, la rende proficua. E non ha bisogno della mitraglia di un manifesto letterario in diversi punti. Gli basta un colpo solo, un solo punto, una dichia­razione che è nello stesso istante una poesia in estrema sintesi, la poesia di un istante, lo stato primordiale e originario della poesia.

Il «M’illumino d’immenso» è una professione di fede, una percezione immediata che ha rapporto virtualmente con tutto e concretamente con nulla. Senza averlo messo in pro­gramma, Ungaretti scrive così il primo comandamento dell’estremismo e del fanatismo li­rico, che è anche un vero e proprio manifesto tecnico della nuova poesia. Così ogni parola viene liberata dalla sintassi, viene isolata, lasciata a se stessa, restituita a se stessa. Unga­retti mette in parole, in due parole, l’illuminazione dell’io, nelle quali l’io è sommamen­te illuminato come da un enorme e quasi divino riflettore cosmico, il sole, sul palco di una storia ridotta a zero. Ma quella luce da dove viene? Viene dal sole del mattino o vie­ne direttamente dall’io? L’io (che per il Futurismo doveva sparire) qui, dilatandosi all’in­finito, sparisce o diventa enorme?

Nella antologia Garzanti della poesia italiana del Novecento questa micropoesia è ac­compagnata da una nota: «Due parole per una poesia: oggetto di polemiche, di ironia, di frecciate per tanti anni. È l’esaltazione del frammento, così come Ungaretti, in quella fase di ricostruzione di una poesia e di una metrica italiana, lo sentiva».

I due minimi versi di Ungaretti (un settenario diviso in due) si presentano come un semplice appunto da taccuino, la nota scarna del soldato­poeta che non ha né tempo né spazio per scrivere, e la cui vita è ridotta a una sola cellula di pensiero, che ogni mattina si meraviglia di essere ancora in vita. Ma il destino letterario successivo di questo stile e tecnica di scrittura di Ungaretti forse qualche frecciata ironica la merita. Ungaretti ha la­-vorato alla ricostruzione del discorso poetico, ha aperto la strada al petrarchismo e al gon­gorismo e tardo simbolismo o surrealismo depurato dagli ermetici. L’estrema e disperata serenità di chi è in bilico tra la vita e la morte, soldato in guerra, diventa più tardi certez­za, abitudine e garanzia poeticistica per innumerevoli epigoni, noti e ignoti. È un destino culturale che non riguarda solo Ungaretti e l’ungarettismo (che arriva fino alla Neoavan­guardia e ad Andrea Zanzotto). L’estremismo linguistico, l’essenzialismo dell’arte e del­la poesia moderna è nato da situazioni realmente estreme, è nato dalle rovine della pri­ma guerra mondiale. Ma è diventato poi estremismo simulato, fittizio, o programmatico. Quanti disastrosi disastri poetici, quanti poeti illeggibili, candidi e sibillini (formalistici, informali, oracolari e orfici, irreali) sono nati dal piccolo seme di quelle due parole di Un­garetti! Un vero disastro ecologico. Un pauroso imbruttimento e degrado del linguaggio e dell’ambiente poetico, che ancora oggi ognuno può vedere, se vuole.


Alfonso Berardinelli, Cento poeti, Mondadori, Milano 1991

Comprendere il pensiero critico

1 In quali modi si attuano le rivoluzioni di Ungaretti e Marinetti?


2 Quale significato acquista la scarnificazione del verso di Ungaretti?


3 Gli epigoni di Ungaretti hanno mantenuto la stessa potenza poetica ed evocativa?

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La “poetica della parola” in Ungaretti

di Niva Lorenzini

Niva Lorenzini (n. 1945) si sofferma sulla volontà di Ungaretti di sfidare il silenzio e il disincanto in virtù della fede nel valore quasi materico della parola: una fede mai smarrita in cui il frammentismo sperimentale convive con il richiamo alla totalità espresso dalla poesia simbolista.

È innegabile che le prime prove di Ungaretti successive all’apprendistato di “Lacerba”,così importante per il delinearsi di una vena palazzeschiana2 che non va affatto sotto­valutata nel futuro estimatore di Apollinaire,3 si impongono coi caratteri della novità: al punto che né il futurismo né la sperimentazione vociana sono premesse sufficienti a contenerla, e Ungaretti si sente – non certo solo per ragioni formali – uno sradicato, in­compreso sino all’emarginazione. Le lettere a Soffici4 esprimono il disagio di chi vede non solo le sue prime poesie, ma l’Allegria del ’19, il libro più rivoluzionario della prima metà del secolo, boicottati dalla critica più tradizionalista. [...] 

Può incuriosire allora ascoltare lo stesso Ungaretti intento a definire, non senza enfa­si autocelebrativa, i modi di quel lirismo singolare. Alle Prime mie poesie...è è destinata in­fatti, nel ’33, una pagina ispirata che può valere come ulteriore descrizione di una nuova accezione di «frammento lirico»:

Se le mie prime preoccupazioni furono di cogliere la parola in istato di crisi, di farla con me soffrire, se la mia poesia vuole essere sempre come uno schianto carnale che apra il volo a fiori di fuoco […], se la realtà mi preme così tanto, potevo essere indifferente alla grande miseria che negli ultimi anni s’è precipitata sul mondo?

La «parola in stato di crisi»: dalla vergogna della poesia alle provocazioni delle avanguardie, il primo quindicennio del secolo si era chiesto, nei modi più diversificati, come fosse possibile ricominciare a parlare dopo l’inflazione dei vati e lo smascheramento del binomio arte­vita.Ungaretti imposta le sue prime prove come sintesi, da un lato, delle esperienze che lo precedono, e dall’altro come verifiche in atto di un passare oltre, ritrovando l’energia della pronuncia proprio a partire dall’angoscia di un io franto («Sono un poeta / un gri­do unanime / sono un grumo di sogni», scrive non senza residui di posa oratoria in Italia, datata Locvizza l’1 ottobre 1916, tra le pochissime poesie di Porto Sepolto – saranno 9 com­plessivamente – a non subire ritocchi correttori nell’edizione definitiva).

[...]

Né l’afonia né la desublimazione si ritrovano nell’eccitazione di un dire reso sovrac­carico di responsabilità dall’uomo-poeta che, stendendo col Porto Sepolto il proprio dia­rio di guerra, non cessa di credere alla poetica della parola (pur scavata nell’abisso, colta nell’esasperazione del grido). Al punto che essere poeti, nei decenni a venire e sino quasi ai nostri anni, vorrà dire, nell’immaginario nazional popolare, assumere un’ispirata po­sa, optando per l’inusuale, la pronuncia forte, ispirata, che finisce per concludersi in sé, autosufficiente e salvifica.

Eppure il Novecento non potrà sottrarsi al confronto col Porto Sepolto né con la prima Allegria, che segnano una esplicita rottura con una continuità lirica sino a quel punto di­scussa, ribaltata, ma mai infranta in modi così dirompenti.

Non è nuova la volontà, ribadita negli interventi critici di Ungaretti, di stendere una biografia in versi, secondo una linea che ha addirittura nel Petrarca l’autorevole iniziato­re («Il carattere, il primo carattere di tutta la mia attività è autobiografico», si legge in Ungaretti commenta Ungaretti, subito prima dell’affermazione: «La mia poesia è nata in realtà in trincea. […] La guerra improvvisamente mi rivela il linguaggio»).

È però nuova l’intensità con cui il vissuto si trasforma in esperienza di scrittura. Qui sta il punto: Ungaretti vuole accreditare il bisogno di «dire in fretta perché il tempo pote­va mancare», dirlo con «poche parole», che avessero «un’intensità straordinaria di signifi­cato». Ed è nuova, allora, non la «vita in versi», che era già dei crepuscolari e vociani, ma questo sfidare matericamente il silenzio, questo costringere l’attimo a prendere corpo, so­stituendo alla vibrazione della materia tanto praticata dai futuristi una nudità che ne met­tesse ancor più in evidenza l’aspetto fenomenico, il battito del respiro, in una «necessità di farsi intimo agli elementi» che non escludeva uno «stupore contemplativo».

Un espressionismo radicale, dunque, che veicola però insieme un valore orfico: il transeunte non si esaurisce in sé, ma contiene un’ansia di assoluto che lo carica dei mo­tivi della perdita da risarcire, dell’assenza da colmare. Di «tensione vitale sorpresa di se stessa, sbalordita di poter assistere» parlava non a caso Fortini:5 e aggiungeva che di fron­te alla violenza del verso (quella ottenuta tecnicamente con pause di silenzio che valgo­no come «veri e propri atti di intimidazione» nei confronti del lettore, imponendosi all’a­scolto con un’evidenza teatrale) sta il riconoscersi del poeta­soldato «una docile fibra / dell’universo» (I fiumi).


Niva Lorenzini, La poesia italiana del Novecento, il Mulino, Bologna 2005

Comprendere il pensiero critico

1 Come definisce Ungaretti il suo stile poetico nell’Allegria del 1919?


2 Perché, secondo Nina Lorenzini, è nuova l’intensità con cui il vissuto si trasforma in esperienza di scrittura?

Volti e luoghi della letteratura - volume 3B
Volti e luoghi della letteratura - volume 3B
Dalla Prima guerra mondiale a oggi