T3 - Il bombardamento di San Lorenzo (La Storia)

T3

Il bombardamento di San Lorenzo

La Storia, cap. 3

Insieme a quelle di Ida e dei suoi figli, La Storia racconta le vicende corali della popolazione romana, costretta ad affrontare la tragedia delle persecuzioni razziali e della guerra. Nel brano che riportiamo è descritto uno degli episodi più terribili per Roma: il bombardamento del quartiere popolare di San Lorenzo, il 19 luglio 1943, che provocò più di tremila morti. L’operazione militare è voluta dagli alleati per fiaccare il morale della popolazione e accelerare la fine del regime (che effettivamente cadrà pochi giorni dopo, il 25 luglio), ma ciò che sta a cuore alla scrittrice non sono tanto le dinamiche della storia politica o militare, quanto i riflessi di quegli eventi sulle persone comuni, le più indifese.

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Audiolettura

Una di quelle mattine Ida, con due grosse sporte al braccio, tornava dalla spesa
tenendo per mano Useppe. Faceva un tempo sereno e caldissimo. Secondo un’abitudine
presa in quell’estate per i suoi giri dentro al quartiere, Ida era uscita, come
una popolana, col suo vestito di casa di cretonne1 stampato a colori, senza cappello, 

5      le gambe nude per risparmiare le calze, e ai piedi delle scarpe di pezza con alta
suola di sughero. Useppe non portava altro addosso che una camiciolina quadrettata
stinta, dei calzoncini rimediati di cotone turchino, e due sandaletti di misura
eccessiva (perché acquistati col criterio della crescenza) che ai suoi passi sbattevano
sul selciato con un ciabattio. In mano, teneva la sua famosa pallina Roma2 (la noce 

10    Lazio durante quella primavera fatalmente era andata perduta).

Uscivano dal viale alberato non lontano dallo Scalo Merci,3 dirigendosi in via
dei Volsci, quando non preavvisato da nessun allarme, si udì avanzare nel cielo
un clamore d’orchestra metallico e ronzante. Useppe levò gli occhi in alto, e disse:
«Lioplani».4 E in quel momento l’aria fischiò, mentre già in un tuono enorme tutti 

15    i muri precipitavano alle loro spalle e il terreno saltava d’intorno a loro, sminuzzato
in una mitraglia di frammenti.

«Useppe! Useppeee!», urlò Ida, sbattuta in un ciclone nero e polveroso che
impediva la vista: «Mà,5 sto qui», le rispose, all’altezza del suo braccio, la vocina
di lui, quasi rassicurante. Essa lo prese in collo, e in un attimo le ribalenarono nel 

20    cervello gli insegnamenti dell’UNPA (Unione Nazionale Protezione Antiaerea) e
del Capofabbricato:6 che, in caso di bombe, conviene stendersi al suolo. Ma invece
il suo corpo si mise a correre senza direzione. Aveva lasciato cadere una delle sue
sporte, mentre l’altra, dimenticata, le pendeva ancora al braccio, sotto al culetto
fiducioso di Useppe. Intanto, era incominciato il suono delle sirene. Essa, nella sua 

25    corsa, sentì che scivolava verso il basso, come avesse i pattini, su un terreno rimosso
che pareva arato, e che fumava. Verso il fondo, essa cadde a sedere, con Useppe
stretto fra le braccia. Nella caduta, dalla sporta le si era riversato il suo carico di
ortaggi, fra i quali, sparsi ai suoi piedi, splendevano i colori dei peperoni, verde,
arancione e rosso vivo.

30    Con una mano, essa si aggrappò a una radice schiantata,7 ancora coperta di terriccio
in frantumi, che sporgeva presso di lei. E assestandosi meglio, rannicchiata intorno
a Useppe, prese a palparlo febbrilmente in tutto il corpo, per assicurarsi ch’era
incolume. Poi gli sistemò sulla testolina la sporta vuota come un elmo di protezione.

Si trovavano in fondo a una specie di angusta trincea, protetta nell’alto, come 

35    da un tetto, da un grosso tronco d’albero disteso. Si poteva udire in prossimità,
sopra di loro, la sua chioma caduta agitare il fogliame in un gran vento. Tutto
all’intorno, durava un fragore fischiante e rovinoso nel quale, fra scrosci, scoppiettii
vivaci e strani tintinnii, si sperdevano deboli e già da una distanza assurda voci
umane e nitriti di cavalli. Useppe, accucciato contro di lei, la guardava in faccia, di 

40    sotto la sporta, non impaurito, ma piuttosto curioso e soprapensiero. «Non è niente»,
essa gli disse, «non aver paura. Non è niente». Lui aveva perduto i sandaletti
ma teneva ancora la sua pallina stretta nel pugno. Agli schianti più forti, lo sentiva
appena appena tremare:

«Niente…», diceva poi, fra persuaso e interrogativo.

45    I suoi piedini nudi si bilanciavano quieti accosto8 a Ida, uno di qua e uno di là.
Per tutto il tempo che aspettarono in quel riparo, i suoi occhi e quelli di Ida rimasero,
intenti, a guardarsi. Lei non avrebbe saputo dire la durata di quel tempo. Il
suo orologetto da polso si era rotto; e ci sono delle circostanze in cui, per la mente,
calcolare una durata è impossibile.

50    Al cessato allarme, nell’affacciarsi fuori di là, si ritrovarono dentro una immensa
nube pulverulenta che nascondeva il sole, e faceva tossire col suo sapore di 
catrame: attraverso questa nube, si vedevano fiamme e fumo nero dalla parte dello 
Scalo Merci. Sull’altra parte del viale, le vie di sbocco erano montagne di macerie, 

e Ida, avanzando a stento con Useppe in braccio, cercò un’uscita verso il piazzale 

55    fra gli alberi massacrati e anneriti. II primo oggetto riconoscibile che incontrarono 

fu, ai loro piedi, un cavallo morto, con la testa adorna di un pennacchio nero, fra 
corone di fiori sfrante.9 E in quel punto, un liquido dolce e tiepido bagnò il braccio 
di Ida. Soltanto allora, Useppe avvilito si mise a piangere: perché già da tempo 

aveva smesso di essere così piccolo da pisciarsi addosso.

60    Nello spazio attorno al cavallo, si scorgevano altre corone, altri fiori, ali di gesso, 

teste e membra di statue mutilate. Davanti alle botteghe funebri, rotte e svuotate, 
di là intorno, il terreno era tutto coperto di vetri. Dal prossimo cimitero, veniva un 
odore molle, zuccheroso e stantio; e se ne intravedevano, al di là delle muraglie 

sbrecciate, i cipressi neri e contorti. Intanto, altra gente era riapparsa, crescendo in

65    una folla che si aggirava come su un altro pianeta. Certuni erano sporchi di sangue.
Si sentivano delle urla e dei nomi, oppure: «anche là brucia!», «dov’è l’ambulanza?!».
Però anche questi suoni echeggiavano rauchi e stravaganti, come in una corte
di sordomuti. La vocina di Useppe ripeteva a Ida una domanda incomprensibile, 

in cui le pareva di riconoscere la parola casa: «Mà, quando torniamo a casa?». La

70    sporta gli calava giù sugli occhietti, e lui fremeva adesso, in una impazienza feroce.
Pareva fissato in una preoccupazione che non voleva enunciare, neanche a se stesso:
«mà?… casa?…», seguitava ostinata la sua vocina. Ma era difficile riconoscere le
strade familiari. Finalmente, di là da un casamento semidistrutto, da cui pendevano 

i travi e le persiane divelte, fra il solito polverone di rovina, Ida ravvisò, intatto,

75    il casamento con l’osteria, dove andavano a rifugiarsi le notti degli allarmi. Qui
Useppe prese a dibattersi con tanta frenesia che riuscì a svincolarsi dalle sue braccia
e a scendere in terra. E correndo coi suoi piedini nudi verso una nube più densa di
polverone, incominciò a gridare:

«Bii! Biii! Biiii!!».10

80    Il loro caseggiato era distrutto. Ne rimaneva solo una quinta,11 spalancata sul
vuoto. Cercando con gli occhi in alto, al posto del loro appartamento, si scorgeva,
fra la nuvolaglia del fumo, un pezzo di pianerottolo, sotto a due cassoni dell’acqua
rimasti in piedi. Dabbasso delle figure urlanti o ammutolite si aggiravano fra 

i lastroni di cemento, i mobili sconquassati, i cumuli di rottami e di immondezze.

85    Nessun lamento ne saliva, là sotto dovevano essere tutti morti. Ma certune di quelle
figure, sotto l’azione di un meccanismo idiota, andavano frugando o raspando
con le unghie fra quei cumuli, alla ricerca di qualcuno o qualcosa da recuperare. E
in mezzo a tutto questo, la vocina di Useppe continuava a chiamare:

«Biii! Biiii! Biiiii!».

90    Blitz era perduto, insieme col letto matrimoniale e il lettino e il divanoletto e la
cassapanca, e i libri squinternati12 di Ninnuzzu,13 e il suo ritratto a ingrandimento,
e le pentole di cucina, e il tessilsacco14 coi cappotti riadattati e le maglie d’inverno,
e le dieci buste di latte in polvere, e i sei chili di pasta, e quanto restava dell’ultimo 

stipendio del mese, riposto in un cassetto della credenza.

95    «Andiamo via! andiamo via!», disse Ida, tentando di sollevare Useppe fra le
braccia. Ma lui resisteva e si dibatteva, sviluppando una violenza inverosimile, e ripeteva
il suo grido: «Biii!» con una pretesa sempre più urgente e perentoria.15 Forse
reputava che, incitato a questo modo, per forza Blitz dovesse rispuntare scodinzolando 

di dietro qualche cantone, da un momento all’altro,

100 E trascinato via di peso, non cessava di ripetere quell’unica e buffa sillaba, con
voce convulsa per i singulti. «Andiamo, andiamo via», reiterava Ida. Ma veramente non 
sapeva più dove andare. L’unico asilo che le si presentò fu l’osteria, dove già si trovava 
raccolta parecchia gente, così che non c’era posto da sedersi. Però una donna anziana, 

vedendola entrare col bambino in braccio, e riconoscendoli, all’aspetto, per sinistrati,16

105 invitò i propri vicini a restringersi, e le fece posto accanto a sé su una panca.

Ida affannava,17 lacera, con le gambe graffiate, e imbrattata fin sulla faccia di
un nerume unticcio, nel quale si distinguevano le ditate minuscole lasciatele da 

Useppe nell’appendersi al suo collo. Appena la vide accomodata alla meglio sulla
panca, la donna le domandò sollecita: «Siete di queste parti?» E all’annuire silenzioso

110 di Ida, le fece sapere: «Io no; vengo da Mandela».18 Si trovava qui a Roma di passaggio,
come ogni lunedì, per vendere i suoi prodotti: «Sono una rurale», precisò.
Qui all’osteria doveva aspettare un suo nipote, il quale, come ogni lunedì, l’aveva 

accompagnata per aiutarla e al momento dell’attacco aereo si trovava in giro per la
città, chi sa dove. Correva voce che per questo bombardamento ci s’erano impiegati

115 diecimila apparecchi,19 e che l’intera città di Roma era distrutta:20 anche il Vaticano,
anche Palazzo Reale, anche Piazza Vittorio e Campo dei Fiori. Tutto a fuoco.

«Chi sa dove si trova a quest’ora mio nipote? chi sa se ancora funziona il treno 

per Mandela?».

Era una donna sui settant’anni, ma ancora in salute, alta e grossa, con la carnagione

120 rosata e due buccole21 nere agli orecchi. Teneva sui ginocchi una canestra
vuota con dentro un cércine22 sciolto; e pareva disposta ad aspettare il nipote, là
seduta con la canestra, magari per altri trecento anni, come il bramano23 della 

leggenda indù.

Vedendo la disperazione di Useppe che ancora andava chiamando il suo Bi con

125 voce sempre più smorzata e fioca, tentò di divertirlo facendogli dondolare innanzi
una crocetta di madreperla che portava al collo, appesa a un cordoncino:

«Bi bi bi pupé!24 Che dici, eh, che dici?».

Ida le spiegò a bassa voce in un balbettio che Blitz era il nome del cane, rimasto
fra le macerie della loro casa.

130 «Ah, cristiani e bestie, crepare è tutta una sorte», osservò l’altra, muovendo
appena la testa con placida rassegnazione. Poi rivolta a Useppe, piena di gravità
matriarcale e senza smorfie, lo confortò col discorso seguente:

«Non piangere pupé, che il cane tuo s’è messo le ali, è diventato una palombella,
e è volato in cielo».

135 Nel dirgli questo, essa mimò, con le due palme alzate, il bàttito di due ali.
Useppe, che credeva a tutto, sospese il pianto, per seguire con interesse il piccolo
movimento di quelle mani, che frattanto erano ridiscese sulla canestra, e là stavano, 

in riposo, con le loro cento rughe annerite dal terriccio.

«L’ali? pecché l’ali?».

140 «Perché è diventato una palombella25 bianca».

«Palommella bianca», assentì Useppe, esaminando attentamente la donna con
gli occhi lagrimosi26 che già principavano a sorridere, «e che fa, là, mò?».

«Vola, con tante altre palombelle».

«Quante?».

145 «Tante! tante!».

«Quante??».

«Trecentomila».

«Tentomila sono tante?».

«Eh! più d’un quintale!!».

150 «Sono tante! Sono tante! eh! Ma là, che fanno?».

«Volano, se la spassano. Beh».

«E le dòndini27 pure, ci stanno? E pure i vavalli, ci stanno?».

«Ci stanno».

«Pure i vavalli?».

155 «Pure i cavalli».

«E loro pure, ci volano?».

«E come, se ci volano!».

Useppe le volse un sorrisetto. Era tutto coperto di polvere nerastra e di sudore,
da parere uno spazzacamino. I ciuffetti neri dei suoi capelli, tanto erano impastati,

160 gli stavano dritti sulla testa. La donna, all’osservare che i suoi piedini facevano
sangue da qualche graffio, autorevolmente chiamò un soldato entrato a cercare
dell’acqua, e lo incaricò di medicarglieli. E lui subì la rapida medicazione senza 

neanche badarci, tanto era distratto dalla fortunata carriera di Blitz.

Quando il soldato finì di medicarlo, lui distrattamente gli fece addio con la

165 mano. I suoi due pugnetti adesso erano vuoti: anche la pallina Roma s’era persa.
Di lì a poco, nel suo abbigliamento lurido e calzoncini bagnati, Useppe dormiva.
La vecchia di Mandela, da quel punto in poi, tacque.

Nella cantina, era incominciato un andirivieni di gente: il locale puzzava di
folla e delle zaffate che venivano dall’esterno. Ma, al contrario che nelle notti degli

170 allarmi, non c’era confusione, né urti, né vocìo. La maggior parte dei presenti
si guardavano in faccia inebetiti senza dire nulla. Molti avevano i vestiti a pezzi e
bruciacchiati, certuni sanguinavano. Da qualche parte di fuori, fra un rumorio sterminato 

e incoerente ogni tanto pareva di distinguere dei rantoli, oppure si levava
d’un tratto qualche urlo feroce, come da una foresta in fiamme. Cominciavano a

175 circolare le ambulanze, i carri dei pompieri, le truppe a piedi armate di badili e di
picconi. Qualcuno aveva visto giungere anche un camion pieno di bare.

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Analisi ATTIVA

I contenuti tematici

La mattina del 19 luglio 1943, nel pieno della Seconda guerra mondiale, gli Alleati anglo-americani bombardano Roma. Il quartiere di San Lorenzo, strategico per la presenza dello scalo ferroviario, viene pressoché completamente raso al suolo. Più della cronaca e della Storia, la letteratura restituisce il vivo senso degli eventi: il lettore, in base al racconto del narratore onnisciente, viene proiettato, insieme a Ida e Useppe, nel mezzo della tragedia.

Possiamo così sentire anche noi i disperati e soffocati richiami dei sopravvissuti, come in una corte di sordomuti (rr. 67-68); vediamo, sconvolte e sgomente, figure urlanti o ammutolite (r. 83) che, prive di senno per il terrore e l’angoscia, sotto l’azione di un meccanismo idiota, andavano frugando o raspando con le unghie fra quei cumuli (rr. 86-87). Né il papa né il re sono riusciti a proteggere la Città eterna: in pochi istanti, la pioggia di bombe ha trasformato il ridente quartiere in un cimitero a cielo aperto dove, nel crollo delle case e delle tombe, nessuna differenza sussiste più tra i vivi e i morti.


1 Da che cosa è annunciato il bombardamento?


2 Dove riescono a trovare rifugio Ida e Useppe?

Lo sguardo del narratore si concentra sul tenero Useppe, del quale vengono registrate affettuosamente le reazioni di fronte ai tragici, e per lui incomprensibili, accadimenti. Al festoso stupore per la comparsa dei lioplani (r. 14), segue l’infantile serenità del bimbo che avverte, pur nel disastro, la presenza protettiva della madre: a lei, ben consapevole e atterrita dal pericolo, Useppe risponde con vocina quasi rassicurante (r. 19); egli sta buono, accucciato contro il corpo materno, senza mostrare paura o preoccupazione, continuando a tenere in mano la sua pallina.

Al cessato allarme (r. 50), però, una misteriosa consapevolezza si insinua nel suo cuore: la vista del cavallo morto, nei pressi del cimitero, rompe qualcosa in lui, che non riesce più a trattenersi e bagna il braccio della madre. È un crescendo di angoscia: l’oscuro presentimento della morte si affaccia alla coscienza del bambino che, davanti alle macerie della propria casa, nello straziante richiamo al cagnolino tanto amato, dà sfogo alla propria profonda disperazione.


3 Come si comporta Useppe durante il bombardamento?


4 Ricostruisci il crescendo di dolore e angoscia di Useppe, assegnando un numero progressivo ai passi del testo.

  • La vocina di Useppe ripeteva a Ida una domanda incomprensibile, in cui le pareva di riconoscere la parola casa: “Mà, quando torniamo a casa?”
  • E correndo coi suoi piedini nudi verso una nube più densa di polverone, incominciò a gridare “Bii! Biii! Biiii!”
  • E in quel punto, un liquido dolce e tiepido bagnò il braccio di Ida.
  • Useppe prese a dibattersi con tanta frenesia che riuscì a svincolarsi dalle sue braccia e a scendere in terra
  • E trascinato via di peso, non cessava di ripetere quell’unica e buffa sillaba, con voce convulsa per i singulti
  • E in mezzo a tutto questo, la vocina di Useppe continuava a chiamare: “Biii! Biiii! Biiiii!”
  • adesso, in una impazienza feroce. Pareva fissato in una preoccupazione che non voleva enunciare, neanche a se stesso: “mà? … casa? …” seguitava ostinata la sua vocina
  • lui resisteva e di dibatteva, sviluppando una violenza inverosimile, e ripeteva il suo grido: “Biii!” con una pretesa sempre più urgente e perentoria

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Ida appare, dopo il trauma del bombardamento, esausta e come svuotata: ha protetto istintivamente il figlio ma ora, di fronte alla perdita dei suoi miseri ma essenziali averi, veramente non sapeva più dove andare (rr. 101-102). Nel disorientamento, le sue reazioni sono pertanto ridotte, quasi ovattate: non capisce la semplice domanda del figlio (Useppe ripeteva a Ida una domanda incomprensibile, r. 68), o non gli sa rispondere, come isolata nell’automatismo con cui ripete andiamo via, andiamo via (r. 95). Senza parlare, replica con un annuire silenzioso (rr. 109-110) o in un balbettio (r. 128) all’anziana di Mandela che, impietosita, le offre un posto nel rifugio dell’osteria.

Al muto sbigottimento di Ida, che non sa trovare parole per consolare Useppe, il narratore contrappone la calma eloquenza della vecchia contadina: custode autorevole di una saggezza antica, che vede serenamente la morte come una sorte (r. 130) comune a tutti, la vecchia di Mandela racconta, con gravità matriarcale e senza smorfie (rr. 131-132), la fiabesca metamorfosi di Blitz in bianca palombella (rr. 133-134). Le parole e i gesti della donna, seguiti da un incantato Useppe, riconducono quell’evento tragico alle eterne trasformazioni della vita: nell’atmosfera improvvisamente arcaica e solenne, come di un rito o di una buona magia, la morte si presenta al bambino sorridente come una meravigliosa trasfigurazione della vita.


5 Che cosa ha fatto Ida per proteggere il figlio durante il bombardamento?

Le scelte stilistiche

Lo stile narrativo del brano è caratterizzato dalla precisione delle descrizioni e dalla ricchezza dei dettagli. Ida viene rappresentata in modo oggettivo dallo sguardo esterno del narratore onnisciente*: lei, maestra elementare che prima della guerra non avrebbe mai rinunciato al decoro dell’abbigliamento, ora, nelle circostanze eccezionali del conflitto, scende in strada con i vestiti di casa, senza calze e con scarpe di pezza. Anche se l’autrice non rinuncia a introdurre nella narrazione alcuni elementi lirici, come il discorso insieme consolatorio e fantasioso che la vecchia rurale rivolge al piccolo Useppe, e simbolici, come la contrapposizione tra i colori della morte (il nero della terra smossa e il grigio del fumo) e quelli della vita (il verde, arancione e rosso vivo dei peperoni, rr. 28-29, vale a dire i colori della quotidianità), con La Storia Elsa Morante si allontana dalla dimensione favolistica e memoriale delle opere precedenti, optando invece per un romanzo di saldo impianto realista, basato su un’osservazione attenta del contesto storico e sociale e che si adegua ai modi e alle strutture tipici della narrativa ottocentesca.


6 Quali effetti determina la scelta della Morante di affidare la narrazione a una voce onnisciente?

Il narratore esprime il proprio affetto per Useppe attraverso l’adozione sovrabbondante di diminutivi e vezzeggiativi. L’empatia per il piccolo giunge alla trascrizione diretta del suo buffo linguaggio, in cui la pronuncia infantile (lioplani, r. 14; dondini, r. 164; vavalli, r. 164) si mescola al romanesco e all’italiano regionale (, r. 83; , r. 154; ci stanno, r. 164), con effetti di comicità e di pathos al tempo stesso.

Accanto alla lingua felice dell’infanzia, però, abbiamo anche le parole adulte, che dicono, senza meraviglia, il duro valore economico delle cose. Ecco allora che, di fronte al caseggiato crollato, il narratore assume il punto di vista di Ida, elencando, minuziosamente, i poveri beni perduti: le suppellettili (il divanoletto e la cassapanca, rr. 101-102), gli abiti (i cappotti riadattati e le maglie d’inverno, r. 103), il cibo e i denari (le dieci buste di latte in polvere, e i sei chili di pasta, e quanto restava dell’ultimo stipendio del mese, rr. 104-105). In questo minuzioso e asciutto elenco di piccole cose, il lettore sente lo sconforto dell’attonita Ida, e tutta la tragedia dei sinistrati (r. 116), gli umili e i poveri, donne e bambini, vecchie e soldati, ai quali va l’addolorata compassione di chi narra.


7 Individua, nel testo, tutti i diminutivi e i vezzeggiativi riferiti a Useppe.


8 Scrivere per esporre. Traccia un ritratto di Ida a partire dalle informazioni ricavabili dal brano in un testo descrittivo di circa 10 righe.


9 Scrivere per confrontare. Confronta la descrizione del bombardamento di San Lorenzo di Elsa Morante con quella del bombardamento di Adrianopoli di Filippo Tommaso Marinetti, evidenziando le differenze sia sul piano stilistico, sia per quanto attiene alla visione ideologica dei due autori nei confronti della guerra. Scrivi un testo argomentativo di circa 30 righe.

Volti e luoghi della letteratura - volume 3B
Volti e luoghi della letteratura - volume 3B
Dalla Prima guerra mondiale a oggi