T1 - La pistola del tedesco (Il sentiero dei nidi di ragno)

T1

La pistola del tedesco

Il sentiero dei nidi di ragno, cap. 2

Pin, piccolo garzone di calzolaio orfano di madre e dimenticato dal padre marinaio sempre in viaggio, vive tra i vicoli di un paese ligure con la sorella, una prostituta che spesso si vende a un soldato tedesco. Spinto dagli adulti dell’osteria nella quale trascorre molte ore del giorno cantando, facendo battute e dicendo cose oscene, Pin ruba la pistola al tedesco e la nasconde in un posto che solo lui conosce, lungo il sentiero dei nidi di ragno. In questo brano Pin, attraverso una fessura nel muro, spia nella camera della sorella: il suo sguardo vede gli abbracci della donna e del soldato e si posa sull’arma. Tutto l’episodio è inquadrato dal punto di vista del bambino, che fatica a capire il senso di molte cose: l’amplesso dei corpi, i discorsi degli uomini dell’osteria, il valore stesso da attribuire alla pistola, sempre in bilico tra oggetto reale e strumento magico.

In camera di sua sorella, a guardarci in quel modo, sembra sempre che ci sia la nebbia:

una striscia verticale piena di cose con intorno l’offuscarsi dell’ombra, e tutto

sembra cambi dimensioni se s’avvicina o s’allontana l’occhio dalla fessura. Sembra

di guardare attraverso una calza da donna e anche l’odore è lo stesso: l’odore di

5      sua sorella che comincia di là della porta di legno ed emana forse da quelle vesti

gualcite1 e da quel letto mai rifatto, rincalzato2 senza fargli prender aria.

La sorella di Pin è sempre stata sciatta3 nelle faccende di casa, fin da bambina:

Pin faceva dei grandi pianti in braccio a lei, da piccolo, con la testa piena di croste,

e allora lei lo lasciava sul muretto del lavatoio e andava a saltare con i monelli nei

10    rettangoli tracciati col gesso sui marciapiedi. Ogni tanto tornava la nave del loro

padre, di cui Pin ricorda solo le braccia, grandi, e nude, che lo sollevavano in aria,

forti braccia segnate da vene nere. Ma da quando la loro madre è morta, le sue venute

sono state sempre più rade, finché nessuno l’ha più visto; si diceva che avesse

un’altra famiglia in una città di là dal mare.

15    Ora, per abitarci, Pin più che una camera ha un ripostiglio, una cuccia al di

là d’un tramezzo4 di legno, con una finestra che sembra una feritoia, stretta e alta

com’è, e profonda nello sbieco del muro della vecchia casa. Di là c’è la camera di

sua sorella filtrata dalle fessure del tramezzo, fessure da farsi venire gli occhi strabici

a girarli per vedere tutt’intorno. La spiegazione di tutte le cose del mondo è lì

20    dietro quel tramezzo; Pin ci ha passato ore e ore fin da bambino e ci ha fatto gli

occhi come punte da spilli; tutto quel che succede là dentro lui lo sa, pure ancora

la spiegazione del perché gli sfugge e Pin finisce per aggomitolarsi5 ogni notte nella

sua cuccetta abbracciandosi il petto. Allora le ombre del ripostiglio si trasformano

in sogni strani, di corpi che s’inseguono, si picchiano e s’abbracciano nudi, finché

25    viene un qualcosa di grande e caldo e sconosciuto, che sovrasta su di lui, Pin, e lo

carezza e lo tiene nel caldo di sé, e questo è la spiegazione di tutto, un richiamo

lontanissimo di felicità dimenticata.

Ora il tedesco gira per la camera in maglietta, con le braccia rosee e cicciose

come cosce, e ogni tanto viene a fuoco della fessura;6 a un certo punto si vedono

30    anche le ginocchia della sorella che girano per aria ed entrano sotto le lenzuola.

Pin ora deve contorcersi per seguire dove viene posato il cinturone con la pistola;

è lì appeso a una spalliera di seggiola come uno strano frutto e Pin vorrebbe avere

un braccio sottile come lo sguardo da far passare nella fessura, per prendere l’arma

e tirarla verso di sé. Ora, il tedesco è nudo, in maglietta, e ride: ride sempre quando

35    è nudo perché ha un fondo d’animo pudico, da ragazza. Salta nel letto e spegne

la luce; Pin sa che passerà un po’ di tempo così nel buio e in silenzio, prima che il

letto cominci a gemere.

Ora è il momento: Pin dovrebbe entrare nella camera scalzo e carponi e tirare

giù, senza far rumore, il cinturone dalla sedia: tutto questo non per fare uno

40    scherzo e poi ridere e canzonare, ma per qualcosa di serio e misterioso, detto dagli

uomini dell’osteria, con un riflesso opaco nel bianco degli occhi. Pure, a Pin piacerebbe

essere sempre amico con i grandi, e che i grandi scherzassero sempre con

lui e gli dessero confidenza. Pin ama i grandi, ama fare dispetti ai grandi, ai grandi

forti e sciocchi di cui conosce tutti i segreti, ama anche il tedesco, e ora questo sarà

45    un fatto irreparabile; forse non potrà più scherzare col tedesco, dopo questo; e

anche con i compagni dell’osteria sarà diverso, ci sarà qualcosa che li lega a loro su

cui non si può ridere e dire cose oscene, e loro lo guarderanno sempre con quella

riga diritta tra le sopracciglia e gli chiederanno a bassa voce cose sempre più strane.

Pin vorrebbe sdraiarsi nella sua cuccetta e stare a occhi aperti e fantasticare, mentre

50    il tedesco di là sbuffa e la sorella fa dei versi come per un solletico sotto le ascelle,

fantasticare di bande di ragazzi che lo accettino come loro capo, perché lui sa

tante cose più di loro, e tutti insieme andare contro i grandi e picchiarli e fare cose

meravigliose, cose per cui anche i grandi siano costretti a ammirarlo ed a volerlo

come capo, e insieme a volergli bene e a carezzarlo sulla testa. Ma invece lui deve

55    muoversi nella notte solo e attraverso l’odio dei grandi, e rubare la pistola al tedesco,

cosa che non fanno gli altri ragazzi che giocano con pistole di latta e spade di

legno. Chissà cosa direbbero se domani Pin andasse in mezzo a loro, e scoprendola

a poco a poco mostrasse loro una pistola vera, lucida e minacciosa e che sembra

stia per sparare da sola. Forse loro avrebbero paura e anche Pin forse avrebbe paura

60    a tenerla nascosta sotto il giubbetto: gli basterebbe una di quelle pistole per bambini

che fanno lo sparo con una striscia di fulminanti rossi e con quella fare tanto

spavento ai grandi da farli cadere svenuti e chiedergli pietà.

Invece ora Pin è carponi sulla soglia della stanza, scalzo, con la testa già al di

là della tenda in quell’odore di maschio e femmina che dà subito alle narici. Vede

65    le ombre dei mobili nella stanza, il letto, la sedia, il bidè bislungo7 con le gambe a

trespolo. Ecco: dal letto ora comincia a sentirsi quel dialogo di gemiti, ora si può

avanzare carponi badando di far piano. Però forse Pin sarebbe contento che il pavimento

scricchiolasse, il tedesco sentisse e tutt’a un tratto accendesse la luce, e lui

fosse obbligato a scappare scalzo con sua sorella dietro che gli grida: Porco! E che

70    tutto il vicinato sentisse e se ne parlasse anche all’osteria, e lui potesse raccontare

la storia all’Autista e al Francese,8 con tanti particolari da essere creduto in buona

fede e da far dire loro: – Basta. È andata male. Non ne parliamo più.

Il pavimento scricchiola difatti, ma molte cose scricchiolano in quel momento

e il tedesco non sente: Pin già è arrivato a toccare il cinturone, e il cinturone al

75    contatto è una cosa concreta, non magica, e scivola giù dalla spalliera della sedia

in modo spaventosamente facile, senza nemmeno battere contro terra. Adesso «la

cosa» è successa: la paura finta di prima diventa paura vera. Bisogna aggomitolare

in fretta il cinturone intorno alla fondina, e nascondere tutto sotto il maglione

senza impastoiarsi9 braccia e gambe: poi tornare a quattro piedi sui propri passi,

80    pian piano e senza mai togliere la lingua di tra i denti: forse se si togliesse la lingua

di tra i denti succederebbe qualcosa di spaventoso.

Una volta fuori non c’è da pensare a tornare nella sua cuccetta, a nascondere la

pistola sotto il materasso come le mele rubate al mercato della frutta. Tra poco il

tedesco s’alzerà e cercherà la pistola e metterà tutto a soqquadro.

85    Pin esce nel carrugio:10 non è che la pistola gli bruci addosso; così nascosta nei

suoi vestiti è un oggetto come un altro e ci si può dimenticare d’averla; spiace anzi

questa propria indifferenza, e a ricordarsene Pin vorrebbe gli prendesse un brivido.

Una pistola vera. Una pistola vera. Pin cerca di eccitarsi col pensiero. Uno che ha

una pistola vera può tutto, è come un uomo grande. Può far fare tutto quello che

90    vuole alle donne e agli uomini minacciando d’ucciderli.

Pin ora impugnerà la pistola e camminerà sempre con la pistola puntata: nessuno

potrà togliergliela e tutti ne avranno paura. Invece ha sempre la pistola avvolta

nel gomitolo del cinturone, sotto il maglione e non si decide a toccarla, spera

quasi che quando la cercherà non ci sia più, si sia smarrita nel calore del suo corpo.

95    Il posto per guardare la pistola è un sottoscala nascosto dove ci si caccia per

giocare a rimpiattino,11 e arriva un riverbero di luce da un lampione guercio.12 Pin

svolge il cinturone, apre la fondina e con un gesto che sembra tiri un gatto per la

collottola estrae la pistola: è davvero grossa e minacciosa, se Pin avesse il coraggio

di giocarci farebbe finta che fosse un cannone. Ma Pin la maneggia come fosse una

100 bomba; la sicura, dove avrà la sicura?

Alla fine si decide a impugnarla, ma bada a non mettere le dita sotto il grilletto,

tenendo ben forte l’impugnatura; pure così si può impugnare bene e puntarla

contro quello che si vuole. Pin la punta prima contro il tubo della grondaia,

a bruciapelo sulla lamiera, poi contro un dito, un suo dito, e fa la faccia feroce

105 tirando indietro la testa e dicendo tra i denti: «la borsa o la vita», poi trova

una scarpa vecchia e la punta contro la scarpa vecchia, contro il calcagno, poi

nell’interno, poi passa la bocca dell’arma sulle cuciture della tomaia. È una cosa

molto divertente: una scarpa, un oggetto così conosciuto, specie per lui, garzone

ciabattino, e una pistola, un oggetto così misterioso, quasi irreale; a farli incontrare

110 uno con l’altro si possono fare cose mai pensate, si possono far loro recitare

storie meravigliose.

Ma a un certo punto Pin non resiste più alla tentazione e si punta la pistola

contro la tempia: è una cosa che dà le vertigini. Avanti, fino a toccare la pelle e sentire

il freddo del ferro. Si potrebbe posare il dito sul grilletto, adesso: no, meglio

115 premere la bocca della canna contro lo zigomo fino a farsi male, e sentire il cerchio

di ferro con dentro il vuoto dove nascono gli spari. A staccare l’arma dalla tempia,

di botto, forse il risucchio dell’aria farà esplodere un colpo: no, non esplode. Ora

si può mettere la canna in bocca e sentire il sapore sotto la lingua. Poi, cosa più

paurosa di tutte, portarla agli occhi e guardarci dentro, nella canna buia che sembra

120 fonda come un pozzo. Una volta Pin ha visto un ragazzo che s’era sparato in

un occhio con un fucile da caccia, mentre lo portavano all’ospedale: aveva un gran

grumo di sangue su mezza faccia, e l’altra mezza tutta puntini neri della polvere.

Ora Pin ha giocato con la pistola vera, ha giocato abbastanza: può darla a quegli

uomini che gliel’hanno chiesta, non vede l’ora di darla. Quando non l’avrà più

125 sarà come se non l’avesse rubata e il tedesco avrà un bell’andare in bestia con lui,

lui lo potrà di nuovo prendere in giro.

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Dentro il TESTO

I contenuti tematici

In tutto il romanzo Pin ha a che fare con il mondo “dei grandi”: la sorella, i soldati tedeschi, i frequentatori dell’osteria, gli uomini del distaccamento partigiano del Dritto (il comandante del gruppo di ribelli cui giungerà Pin). Il brano mostra come da questo rapporto il bambino sviluppi sentimenti e atteggiamenti contrastanti: da un lato, l’attrazione per i misteri e per le prodezze che, a suo vedere, appartengono soltanto all’universo adulto; dall’altro, la diffidenza verso un ambiente che non gli riconosce alcun ruolo e, allo stesso tempo, la paura di compiere davvero quel gesto (il furto della pistola) che lo proietterebbe direttamente all’altezza degli uomini dell’osteria, in una condizione di parità nei loro confronti.

Pin è convinto che gli adulti percepiscano la realtà con grande sicurezza e vivano la vita come un meccanismo perfetto e immodificabile; lui, al contrario, immerso in una dimensione infantile, stravolge la percezione delle cose, ingrandisce i particolari a discapito della visione generale, adatta gli eventi alla propria capacità di comprensione per collocarli nel campo del meraviglioso.

Nella seconda parte del brano, in particolare, si assiste a una trasposizione delle coordinate spazio-temporali e di quelle psicologiche in un’atmosfera favolosa e ambigua. Non a caso le strategie narrative adottate fanno diretto riferimento ai meccanismi che Vladimir Propp (1895-1970, linguista russo autore del fondamentale saggio Morfologia della fiaba, 1928) aveva individuato nelle fiabe russe di magia: ci sono l’Eroe (Pin), l’Antagonista (il tedesco), l’Aiutante (la sorella di Pin che, indirettamente, agevola il bambino nel rubare la pistola distraendo l’Antagonista), il Mandante (gli uomini dell’osteria), la Prova da superare, ossia l’Iniziazione (il furto), e l’ottenimento dell’Oggetto magico (la pistola, appunto).

Tuttavia il ricorso alla dimensione fiabesca non si risolve mai, per Calvino, in meccanica applicazione di regole generali, che anzi vengono spesso disattese. Il superamento della prova, per esempio, non appianerà la situazione: Pin non entrerà di diritto nel mondo degli adulti e la pistola stessa non verrà neppure esibita ai loro occhi, finendo anzi nelle mani del traditore Pelle. Allo stesso modo la sorella, che avrebbe potuto vestire i panni dell’Aiutante, si dimostrerà in realtà un personaggio negativo, da affiancare all’Antagonista e forse da punire, alla fine, con la morte.

Le scelte stilistiche

Per descrivere l’esperienza collettiva della guerra, Calvino sceglie di adottare una focalizzazione dal basso: è il punto di vista di Pin, un bambino che vede e interpreta il mondo con una prospettiva diversa da quella degli adulti. Per ottenere tale ottica, l’autore ricorre ad accorgimenti stilistici ben individuabili in questo brano, come l’uso più frequente del tempo presente, che genera un livellamento prospettico delle azioni (per ben dodici volte compare l’avverbio di tempo ora, come se le azioni, invece di distribuirsi in un arco diacronico, fossero magicamente compresenti), e una sintassi che presenta caratteri propri del parlato (paratassi*, ripetizioni, frasi che spesso iniziano con la ridondante presenza del nome del protagonista: senza mai togliere la lingua di tra i denti: forse se si togliesse la lingua di tra i denti succederebbe qualcosa di spaventoso, rr. 80-81; Ora, per abitarci, Pin più che una camera ha un ripostiglio, r. 15; Ora il tedesco gira per la camera in maglietta, r. 28; Ora, il tedesco è nudo, r. 34). Per esprimere l’immaginifico punto di vista del bambino, inoltre, il narratore fa ricorso ad alcuni artifici retorici: perifrasi* (il cerchio di ferro con dentro il vuoto dove nascono gli spari, rr. 115-116), similitudini* (gli occhi come punte da spilli, rr. 20-21) e reticenze, per descrivere ciò che Pin non sa dire con parole più esatte (come l’atto sessuale tra la sorella e il tedesco: il tedesco di là sbuffa e la sorella fa dei versi come per un solletico sotto le ascelle, rr. 50-51).

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Verso le COMPETENZE

Comprendere

1 Che tipo di rapporto vorrebbe avere Pin con i “grandi”? Quale immagine si è fatto del mondo adulto?


2 Che cosa fa Pin con la pistola, una volta al sicuro da sguardi indiscreti?

ANALIZZARE

3 Pin non possiede le parole “giuste” per indicare ciò che sta avvenendo tra la sorella e il soldato tedesco al di là del tramezzo, e fa quindi ricorso a metafore, a similitudini e a ipallagi. Rintraccia nel testo la presenza di queste figure retoriche (oltre a quelle evidenziate nell’analisi).


4 Come spesso avviene nelle opere di Calvino, il senso della vista è preponderante nelle descrizioni. Individua nel testo tutte le spie lessicali che fanno riferimento alla vista, allo sguardo, agli occhi.

INTERPRETARE

5 Perché, una volta sottratta al soldato, la pistola sembra perdere in parte il proprio fascino?


6 Verso la pistola Pin ha un atteggiamento ambiguo, di attrazione-repulsione: desidera impadronirsene, ma poi ha fretta di disfarsene. Prova a dare una spiegazione di questo comportamento.


7 Per quale motivo ciò che avviene al di là del tramezzo, e che Pin scorge solo attraverso una fessura, incarna per il bambino qualcosa di tanto grande e misterioso da rappresentare la spiegazione di tutte le cose del mondo (r. 19)?

Dibattito in classe

8 Il furto della pistola del soldato tedesco potrebbe trasformarsi, per Pin, in un vero e proprio rito di iniziazione, di passaggio all’età adulta: ma lo è veramente oppure Pin resta al di qua della linea d’ombra che lo separa dal mondo dei grandi? Confrontati con i compagni.

2 La narrazione fantastica

La fantasia per spiegare la realtà Dopo l’esordio neorealista, Calvino continua a dar seguito alla propria vocazione all’impegno intellettuale e filosofico soprattutto attraverso l’immaginazione e il travestimento fiabesco.

La fantasia e gli elementi surreali che contraddistinguono la trilogia dei Nostri antenati non sono però concepiti come un gioco o come ingenui strumenti di un frivolo intrattenimento letterario. Il racconto fantastico non è finalizzato all’evasione dalla realtà ma, al contrario, funziona come spiegazione del mondo e lettura della contemporaneità, attraverso il filtro di uno sguardo ironico e per mezzo di uno stile nitido ed essenziale.

 >> pagina 577 
Alla ricerca della felicità perduta Il visconte dimezzato, Il barone rampante e Il cavaliere inesistente recuperano la struttura narrativa della fiaba, senza però attingere alla sua funzione consolatoria, ma caricandola anzi della complessità dei rapporti sociali in cui l’individuo si trova immerso. Ciascuno di questi romanzi è basato su una figura di cui l’autore rovescia il significato al fine di farne una metafora della condizione umana: il visconte diviso da una cannonata finisce per acquistare una visione del mondo più chiara e coerente; il barone che ha scelto di vivere sugli alberi, apparentemente distante dalla realtà, partecipa agli eventi della Storia con maggiore intensità degli uomini comuni; il cavaliere senza corpo si dimostra efficiente e impeccabile nello svolgere la propria missione. Il motivo conduttore è quello della faticosa conquista della libertà in un universo alienante e irrazionale, che lo scrittore non rinuncia però a indagare, ancora fiducioso che l’intelletto umano possa garantire la conquista della dignità e della misura, strumenti essenziali del vivere civile.
Romanzi iperletterari Per quanto riguarda lo stile e i modelli letterari, la narrativa fantastica di Calvino non nasconde le numerose influenze della tradizione. Il motivo del dimezzamento del Visconte richiama le Avventure del barone di Münchhausen (1785) del tedesco (ma autore in inglese) Rudolf Erich Raspe (1736-1794), oltre che Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde (1886) dell’inglese Robert Louis Stevenson (1850-1894), ma anche suggestioni più popolari, come quelle dei fumetti (alcuni compagni di scuola dell’autore hanno rivelato che già al liceo Calvino aveva tentato alcune storie con personaggi “dimezzati”). I modelli più immediati del Barone sono invece i racconti filosofici di Voltaire, Denis Diderot e Jonathan Swift. Per il Cavaliere, infine, si possono individuare precedenti nel Don Chisciotte di Cervantes (Agilulfo e il suo scudiero Gurdulù ricordano il nobile spagnolo e il fedele Sancho Panza), oltre che nei poemi cavallereschi di Boiar­do, Ariosto e Tasso.

T2

La gran banda dei ladruncoli di frutta

Il barone rampante, cap. 4

Il narratore, Biagio, racconta le prime avventure del fratello Cosimo, il quale, dopo aver trascorso la prima notte sugli alberi, comincia ad abituarsi alla sua nuova vita. Mentre si trova su un ciliegio, il barone sente delle voci provenienti dall’alto: è l’inizio della sua avventura.

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Audiolettura

Io non so se sia vero quello che si legge nei libri, che in antichi tempi una scimmia

che fosse partita da Roma saltando da un albero all’altro poteva arrivare in Spagna

senza mai toccare terra. Ai tempi miei di luoghi così fitti d’alberi c’era solo il golfo

d’Ombrosa1 da un capo all’altro e la sua valle fin sulle creste dei monti; e per questo

5      i nostri posti erano nominati dappertutto.

Ora, già non si riconoscono più, queste contrade. S’è cominciato quando vennero

i Francesi,2 a tagliar boschi come fossero prati che si falciano tutti gli anni e

poi ricrescono. Non sono ricresciuti. Pareva una cosa della guerra, di Napoleone,

di quei tempi: invece non si smise più. I dossi sono nudi che a guardarli, noi che li

10    conoscevamo da prima, fa impressione.

Allora, dovunque s’andasse, avevamo sempre rami e fronde tra noi e il cielo.

L’unica zona di vegetazione più bassa erano i limoneti, ma anche là in mezzo si

levavano contorti gli alberi di fico, che più a monte ingombravano tutto il cielo

degli orti, con le cupole del pesante loro fogliame, e se non erano fichi erano ciliegi

15    dalle brune fronde, o più teneri cotogni, peschi, mandorli, giovani peri, prodighi

susini, e poi sorbi, carrubi, quando non era un gelso o un noce annoso. Finiti gli

orti, cominciava l’oliveto, grigio-argento, una nuvola che sbiocca3 a mezza costa.

In fondo c’era il paese accatastato, tra il porto in basso e in su la rocca; ed anche

lì, tra i tetti, un continuo spuntare di chiome di piante: lecci, platani, anche roveri,

20    una vegetazione più disinteressata e altera che prendeva sfogo – un ordinato sfogo

– nella zona dove i nobili avevano costruito le ville e cinto di cancelli i loro parchi.

Sopra gli olivi cominciava il bosco. I pini dovevano un tempo aver regnato

su tutta la plaga,4 perché ancora s’infiltravano in lame e ciuffi di bosco giù per i

versanti fino sulla spiaggia del mare, e così i larici. Le roveri erano più frequenti

25    e fitte di quel che oggi non sembri, perché furono la prima e più pregiata vittima

della scure. Più in su i pini cedevano ai castagni, il bosco saliva la montagna, e non

se ne vedevano confini. Questo era l’universo di linfa entro il quale noi vivevamo,

abitanti d’Ombrosa, senza quasi accorgercene.

Il primo che vi fermò il pensiero fu Cosimo. Capì che, le piante essendo così

30    fitte, poteva passando da un ramo all’altro spostarsi di parecchie miglia, senza bisogno

di scendere mai. Alle volte, un tratto di terra spoglia l’obbligava a lunghissimi

giri, ma lui presto s’impratichì di tutti gli itinerari obbligati e misurava le distanze

non più secondo i nostri estimi,5 ma sempre con in mente il tracciato contorto

che doveva seguire lui sui rami. E dove neanche con un salto si raggiungeva il ramo

35    più vicino, prese a usare degli accorgimenti; ma questo lo dirò più in là; ora siamo

ancora all’alba in cui svegliandosi si trovò in cima a un elce, tra lo schiamazzo degli

storni, madido di rugiada fredda, intirizzito, le ossa rotte, il formicolio alle gambe

ed alle braccia, e felice si diede a esplorare il nuovo mondo.

Giunse sull’ultimo albero dei parchi, un platano. Giù digradava la valle sotto

40    un cielo di corone di nubi e fumo che saliva da qualche tetto d’ardesia, casolari

nascosti dietro le ripe come mucchi di sassi; un cielo di foglie alzate in aria dai fichi

e dai ciliegi; e più bassi prugni e peschi divaricavano tarchiati rami; tutto si vedeva,

anche l’erba, fogliolina a fogliolina, ma non il colore della terra, ricoperta dalle

pigre foglie della zucca o dall’accesparsi6 di lattughe o verze nei semenzai;7 e così

45    era da una parte e dall’altra del V in cui s’apriva la valle ad un imbuto alto di mare.

E in questo paesaggio correva come un’onda, non visibile e nemmeno, se non di

tanto in tanto, udibile, ma quel che se n’udiva bastava a propagarne l’inquietudine:

uno scoppio di gridi acuti tutt’a un tratto, e poi come un croscio8 di tonfi e forse anche

lo scoppio d’un ramo spezzato, e ancora grida, ma diverse, di vociacce infuriate,

50    che andavano convergendo nel luogo da cui prima erano venuti i gridi acuti. Poi

niente, un senso fatto di nulla, come d’un trascorrere, di qualcosa che c’era da aspettarsi

non là ma da tutt’altra parte, e difatti riprendeva quell’insieme di voci e rumori,

e questi luoghi di probabile provenienza erano, di qua o di là della valle, sempre

dove si muovevano al vento le piccole foglie dentate dei ciliegi. Perciò Cosimo, con

55    la parte della sua mente che veleggiava distratta – un’altra parte di lui invece sapeva e

capiva tutto in precedenza – formulò questo pensiero: le ciliege parlano.

Era verso il più vicino ciliegio, anzi una fila d’alti ciliegi d’un bel verde frondoso,

che Cosimo si dirigeva, e carichi di ciliege nere, ma mio fratello ancora non aveva

l’occhio a distinguere subito tra i rami quello che c’era e quello che non c’era. Stette

60    lì: prima ci si sentiva del rumore ed ora no. Lui era sui rami più bassi, e tutte le ciliege

che c’erano sopra di lui se le sentiva addosso, non avrebbe saputo spiegare come, parevano

convergere su di lui, pareva insomma un albero con occhi invece che ciliege.

Cosimo alzò il viso e una ciliegia troppo matura gli cascò sulla fronte con un

ciacc! Socchiuse le palpebre per guardare in su controcielo (dove il sole cresceva) e

65    vide che su quello e sugli alberi vicini c’era pieno di ragazzi appollaiati.

Al vedersi visti non stettero più zitti, e con voci acute benché smorzate dicevano

qualcosa come: – Guardalo lì quanto l’è bello! – e spartendo davanti a sé le

foglie ognuno dal ramo in cui stava scese a quello più basso, verso il ragazzo col

tricorno in capo.9 Loro erano a capo nudo o con sfrangiati cappelli di paglia, e

70    alcuni incappucciati in sacchi; vestivano lacere camicie e brache; ai piedi chi non

era scalzo aveva fasce di pezza, e qualcuno legati al collo portava gli zoccoli, tolti

per arrampicarsi; erano la gran banda dei ladruncoli di frutta, da cui Cosimo ed io

c’eravamo sempre – in questo obbedienti alle ingiunzioni familiari – tenuti ben

lontani. Quel mattino invece mio fratello sembrava non cercasse altro, pur non

75    essendo nemmeno a lui ben chiaro che cosa se ne ripromettesse.

Stette fermo ad aspettarli mentre calavano indicandoselo e lanciandogli, in

quel loro agro sottovoce, motti come: – Cos’è ch’è qui che cerca questo qui? – e

sputandogli anche qualche nocciolo di ciliegia o tirandogliene qualcuna di quelle

bacate o beccate da un merlo, dopo averle fatte vorticare in aria sul picciòlo con

80    mossa da frombolieri.

– Uuuh! – fecero tutt’a un tratto. Avevano visto lo spadino che gli pendeva

dietro. – Lo vedete cosa ci ha? – E giù risate. – Il battichiappe!

Poi fecero silenzio e soffocavano le risa perché stava per succedere una cosa

da diventare matti dal divertimento: due di questi piccoli manigoldi,10 zitti zitti, si

85    erano portati su di un ramo proprio sopra a Cosimo e gli calavano la bocca d’un

sacco sulla testa (uno di quei lerci sacchi che a loro servivano certo per metterci il

bottino, e quando erano vuoti si acconciavano in testa come cappucci che scendevano

sulle spalle). Tra poco mio fratello si sarebbe trovato insaccato senza neanche

capir come e lo potevano legare come un salame e caricarlo di pestoni.

90    Cosimo fiutò il pericolo, o forse non fiutò niente: si sentì deriso per lo spadino

e volle sfoderarlo per punto d’onore. Lo brandì alto, la lama sfiorò il sacco, lui lo

vide, e con un’accartocciata lo strappò di mano ai due ladroncelli e lo fece volar via.

Era una buona mossa. Gli altri fecero degli «Oh!» insieme di disappunto e meraviglia,

e ai due compari che s’erano lasciati portar via il sacco lanciarono insulti

95    dialettali come: – Cuiasse! Belinùi!11

Non ebbe tempo di rallegrarsi del successo, Cosimo. Una furia opposta si scatenò

da terra; latravano, tiravano dei sassi, gridavano: – Stavolta non ci scappate,

bastardelli ladri! – e s’alzavano punte di forcone. Tra i ladruncoli sui rami ci fu un

rannicchiarsi, un tirar su di gambe e gomiti. Era stato quel chiasso attorno a Cosimo

100 a dar l’allarme agli agricoltori che stavano all’erta.

L’attacco era preparato in forze. Stanchi di farsi rubar la frutta man mano che

maturava, parecchi dei piccoli proprietari e dei fittavoli della vallata s’erano federati

tra loro; perché alla tattica dei furfantelli di dar la scalata tutti insieme a un frutteto,

saccheggiarlo e scappare da tutt’altra parte, e lì daccapo, non c’era da opporre che

105 una tattica simile: cioè far la posta tutti insieme in un podere dove prima o poi sarebbero

venuti, e prenderli in mezzo. Ora i cani sguinzagliati abbaiavano rampando

al piede dei ciliegi con bocche irte di denti, e in aria si protendevano le forche da

fieno. Dei ladruncoli tre o quattro saltarono a terra giusto in tempo per farsi bucare

la schiena dalle punte dei tridenti e il fondo dei calzoni dal morso dei cani, e correre

110 via urlando e sfondando a testate i filari delle vigne. Così nessuno osò più scendere:

stavano sbigottiti sui rami, tanto loro che Cosimo. Già gli agricoltori mettevano le

scale contro i ciliegi e salivano facendosi precedere dai denti puntati dei forconi.

Ci vollero alcuni minuti prima che Cosimo capisse che essere lui spaventato

perché era spaventata quella banda di vagabondi era una cosa senza senso, com’era

115 senza senso quell’idea che loro fossero tanto in gamba e lui no. Il fatto che se ne

stessero lì come dei tonti era già una prova: cosa aspettavano a scappare sugli alberi

intorno? Mio fratello così era giunto fin lì e così poteva andarsene: si calcò il tricorno

in testa, cercò il ramo che gli aveva fatto da ponte, passò dall’ultimo ciliegio a un

carrubo, dal carrubo penzolandosi calò su di un susino, e così via. Quelli, al vederlo

120 girare per quei rami come fosse in piazza, capirono che dovevano tenergli subito

dietro, se no prima di ritrovare la sua strada chissà quanto avrebbero penato; e lo seguirono

zitti, carponi per quell’itinerario tortuoso. Lui intanto, salendo per un fico,

scavalcava la siepe del campo, calava su di un pesco, tenero di rami tanto che bisognava

passarci uno alla volta. Il pesco serviva solo ad aggrapparsi al tronco storto

125 d’un olivo che sporgeva da un muro; dall’olivo con un salto s’era su una rovere che

allungava un robusto braccio oltre il torrente, e si poteva passare sugli alberi di là.

Gli uomini con le forche, che credevano ormai d’avere in mano i ladri di frutta,

se li videro scappare per l’aria come uccelli. Li inseguirono, correndo insieme ai

cani latranti, ma dovettero aggirare la siepe, poi il muro, poi in quel punto del torrente

130 non c’erano ponti, e per trovare un guado persero tempo ed i monelli erano

lontani che correvano.

Correvano come cristiani, con i piedi per terra. Sui rami c’era rimasto solo mio

fratello. – Dov’è finito quel saltimpalo12 con le ghette?13 – si chiedevano loro, non

vedendoselo più davanti. Alzarono lo sguardo: era là che rampava per gli olivi. –

135 Ehi, tu, cala dabbasso, ormai non ci pigliano! – Lui non calò, saltò tra fronda e

fronda, da un olivo passò a un altro, sparì alla vista tra le fitte foglie argentee.

 >> pagina 580 

Dentro il TESTO

I contenuti tematici

Il brano presenta, in apertura, la descrizione dello spazio in cui si svolgono le vicende: una sorta di “paradiso perduto”, quello della riviera ligure un tempo totalmente ricoperta da una splendida e rigogliosa vegetazione, fitta di frutteti e di boschi, con le chiome degli alberi che creano un mondo parallelo, alternativo a quello terreno. In questa natura aggrovigliata e tortuosa, nella quale ha preso dimora, Cosimo vive la sua prima avventura, indicando a un branco di ladruncoli di frutta, inseguiti dai contadini, come mettersi in salvo fuggendo sugli alberi.

 >> pagina 581 

L’episodio proietta il lettore in una dimensione picaresca, che risulta fondamentale nel romanzo. Fughe e inseguimenti si susseguono continuamente in un universo labirintico, dominato dall’avventura e dal succedersi – freneticamente ariostesco – di imprevisti e peripezie.

Allo stesso tempo, si delineano da subito le caratteristiche di Cosimo: egli è curioso e desideroso di conoscere, ed è spinto a infrangere le ingiunzioni familiari (r. 73) per cercare qualcosa che gli appare ancora indefinito. A guidarlo nell’impresa di dominare il nuovo mondo arboreo è la capacità di analizzare la situazione e di trovare sempre una soluzione razionale agli ostacoli che gli si presentano e che si frappongono alla rea­lizzazione dei suoi desideri.

Il protagonista è ritratto come un solitario osservatore della vita umana che, pur essendo separato dalla società, non rinuncia a conoscerne i meccanismi, a illustrarne pregi e difetti, a mettere al servizio del prossimo le proprie esperienze. Grazie allo sguardo panoramico di cui può godere dall’alto, Cosimo finisce per capire il mondo che lo circonda meglio di coloro che si trovano a terra, sebbene questo potenziamento della propria coscienza sia pagato con l’esclusione dalla vita di comunità.

Il barone rampante può sembrare una sorta di contestatore intellettuale, la cui disobbedienza è di qualità superiore – più raffinata, più drastica e più determinata – in confronto a quella dei ladri di frutta con le loro bravate. Il rigore della volontà di Cosimo è simboleggiato qui dalla destrezza e dall’ostinazione con cui egli riesce a guadagnare la via dei rami, anche quando altri, considerati esperti (cioè i ladruncoli), desistono. È del resto Calvino stesso, nel presentare il romanzo, ad affermare che la prima lezione da trarre dal libro è che «la disobbedienza acquista un senso solo quando diventa una disciplina morale più rigorosa e ardua di quella a cui si ribella».

Le scelte stilistiche

Il brano mostra il tono dell’intera opera: dopo l’espressionismo delle prime prove neo­realiste, Calvino dà vita a una scrittura sempre più limpida. Nella ricerca del lessico più appropriato, l’autore non rinuncia a termini rari (sbiocca, r. 17), ma presenta anche vocaboli coloriti (battichiappe, r. 82) ed espressioni dialettali (Cuiasse! Belinùi!, r. 95). Frequenti sono le costruzioni tipiche del parlato (Cos’è ch’è qui che cerca questo qui?, r. 77). All’agile scatto dei dialoghi, ridotti all’essenziale nell’intento di restituire il frangente concitato in cui avvengono, fanno riscontro le parti più propriamente narrative e descrittive, con il dilatarsi dell’ordine sintattico attraverso il ricorso a semplici paratassi* o a ordinate ipotassi*.

Verso le COMPETENZE

Comprendere

1 Come e perché, secondo quanto riportato dalla voce narrante, è cambiato nel tempo l’ambiente in cui si svolge la vicenda?


2 Che cosa intende il narratore quando dice: pareva insomma un albero con occhi invece che ciliege (r. 62)?

 >> pagina 582

ANALIZZARE

3 Individua le frasi attraverso le quali il narratore spiega perché quello d’Ombrosa è ormai un paradiso perduto.


4 A quali sostantivi, aggettivi e verbi ricorre il narratore per descrivere l’universo arboreo di Cosimo come una sorta di labirintico “nuovo mondo”, alternativo a quello terreno?

INTERPRETARE

5 Nel brano si racconta di quando il golfo di Ombrosa era ancora coperto da una fitta vegetazione. Secondo te il narratore rimpiange quel tempo passato?


6 Dalle parole del narratore trapela un certo orgoglio nei confronti di Cosimo e delle sue imprese? Perché?

COMPETENZE LINGUISTICHE

7 Spiega il significato delle seguenti espressioni figurate presenti nel brano.


il paese accatastato (r. 18) • una vegetazione più disinteressata e altera (r. 20)  l’universo di linfa (r. 27) tarchiati rami (r. 42)  mente che veleggiava distratta (r. 55)

Produrre

8 Scrivere per raccontare. L’intera esistenza di Cosimo è determinata da un ferreo vincolo che egli si è imposto di sua volontà(non scendere mai dagli alberi). Ti è mai capitato di vivere un’esperienza che ha acquisito una forza particolare proprio in virtù delle difficili condizioni entro cui si è svolta? Riferiscine in un testo narrativo di circa 30 righe.

3 La critica alla società del benessere

Uno sguardo sulla realtà sociale italiana Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio del decennio successivo Calvino si pone l’obiettivo di osservare e interpretare le tendenze della società industriale e gli effetti sociali, culturali e antropologici derivati dal miracolo economico. Sviluppando riflessioni su tematiche come l’inquinamento, la lotta sindacale, l’alienazione sul lavoro, la pubblicità, il consumismo, lo scrittore esercita una lucida critica alla società del benessere, che cambia le abitudini, i gusti e le aspirazioni delle famiglie italiane.

Le diverse modalità dell’impegno Calvino ritiene che lo scrittore abbia la responsabilità di non «perdersi nel labirinto» della civiltà moderna, e di indicare all’umanità le vie per salvarsi dall’alienazione acquisendo una coscienza critica dei processi in atto.

Per descrivere i guasti della società neocapitalista, egli adotta in questa fase della sua produzione letteraria due soluzioni: da una parte l’impostazione analitica, che dipinge criticamente la realtà, elaborata nelle opere del filone che abbiamo definito realistico-contemporaneo; dall’altra il distacco ironico, sperimentato soprattutto con l’invenzione del personaggio malinconico e sprovveduto di Marcovaldo.

L’approccio analitico L’approccio analitico viene utilizzato da Calvino per esempio nei racconti lunghi a sfondo sociale La nuvola di smog e La speculazione edilizia (confluiti nell’antologia I racconti del 1958). In questi testi, nei quali la vita umana appare minacciata dall’incombere di una nube tossica o dall’assenza di moralità tipica degli arrampicatori sociali arricchitisi con la speculazione edilizia, l’autore ritrae il paesaggio urbano del boom economico, infestato dalle esalazioni chimiche e travolto dalla cementificazione selvaggia.

 >> pagina 583 

Tra incanto e distacco ironico Ben diverso è lo sguardo che getta sul mondo il manovale Marcovaldo, sebbene con implicazioni simili a quelle proposte dai Racconti. Il protagonista dell’omonimo romanzo è un contadino trapiantato in città, un «povero diavolo» alla Charlie Chaplin (secondo quanto suggerito dall’autore stesso), nostalgico del proprio mondo rurale poiché imprigionato nell’universo estraneo ed estraniante costituito dalla città industriale. Ridotto a una sorta di buffo fantoccio, egli denuncia inconsapevolmente le trasformazioni avvenute in seno alla «società opulenta»: Calvino ne segue le vicissitudini con una pietà sorridente e comica, la quale lascia però trasparire la rappresentazione della dolorosa condizione di migliaia di uomini e donne che hanno smarrito per sempre, nella giungla d’asfalto, la semplicità del mondo contadino.

La città in cui Marcovaldo vive non ha un nome: sebbene alcuni tratti la apparentino a Torino, essa è la città per antonomasia, con i suoi ritmi frenetici e i suoi meccanismi opprimenti. Allo stesso modo, non si viene mai a sapere che cosa produca la ditta per cui il protagonista lavora, la Sbav: essa è, come scrive l’autore, una di quelle fabbriche anonime «che regnano sulle persone e sulle cose del nostro tempo».

All’interno di queste deprimenti coordinate spaziali, Marcovaldo è capace di vedere dove tutti gli altri non posano neppure lo sguardo, riuscendo ancora a cogliere il riaffiorare delle stagioni in uno spazio urbano che, al contrario, è avviato all’annullamento della natura. Il risultato è un comico e straniante attrito tra le speranze e i sogni di un uomo ancora sorretto da un candido ottimismo e la disincantata ironia di una voce narrante onnisciente che, conferendo al racconto un tono tragicomico, sembra svelare una verità surreale: ovvero che la città non è un posto adatto agli individui.

T3

La pietanziera

Marcovaldo, cap. 7

All’ora di pranzo, il manovale Marcovaldo siede sulla panchina di un viale e svita il coperchio della sua pietanziera, pregustando le gioie che dovrebbero giungergli dai profumi e dai sapori del cibo familiare. Ma non sempre l’attesa si traduce in realtà; un giorno d’autunno, dopo aver scoperto che il contenitore ospita l’ennesimo pasto deludente preparatogli dalla moglie, inizia a vagare per le strade della città in preda alla tristezza, finché trova il modo di dare una svolta alla sua pausa. Il capitolo è collocato nella sezione Autunno.

Le gioie di quel recipiente tondo e piatto chiamato «pietanziera» consistono innanzitutto

nell’essere svitabile. Già il movimento di svitare il coperchio richiama

l’acquolina in bocca, specie se uno non sa ancora quello che c’è dentro, perché

ad esempio è sua moglie che gli prepara la pietanziera ogni mattina. Scoperchiata

5      la pietanziera, si vede il mangiare lì pigiato: salamini e lenticchie, o uova sode

e barbabietole, oppure polenta e stoccafisso, tutto ben assestato in quell’area di

circonferenza come i continenti e i mari nelle carte del globo, e anche se è poca

roba fa l’effetto di qualcosa di sostanzioso e di compatto. Il coperchio, una volta

svitato, fa da piatto, e così si hanno due recipienti e si può cominciare a smistare

10    il contenuto.

Il manovale Marcovaldo, svitata la pietanziera e aspirato velocemente il profumo,

dà mano alle posate che si porta sempre dietro, in tasca, involte in un fagotto,

da quando a mezzogiorno mangia con la pietanziera anziché tornare a casa. I primi

colpi di forchetta servono a svegliare un po’ quelle vivande intorpidite, a dare il

15    rilievo e l’attrattiva d’un piatto appena servito in tavola a quei cibi che se ne sono

stati lì rannicchiati già tante ore. Allora si comincia a vedere che la roba è poca, e si

pensa: «Conviene mangiarla lentamente», ma già si sono portate alla bocca, velocissime

e fameliche, le prime forchettate.

Per primo gusto si sente la tristezza del mangiare freddo, ma subito ricominciano

20    le gioie, ritrovando i sapori del desco familiare, trasportati su uno scenario

inconsueto. Marcovaldo adesso ha preso a masticare lentamente: è seduto sulla

panchina d’un viale, vicino al posto dove lui lavora; siccome casa sua è lontana e

ad andarci a mezzogiorno perde tempo e buchi nei biglietti tramviari, lui si porta

il desinare nella pietanziera, comperata apposta, e mangia all’aperto, guardando

25    passare la gente, e poi beve a una fontana. Se è d’autunno e c’è sole, sceglie i posti

dove arriva qualche raggio; le foglie rosse e lucide che cadono dagli alberi gli fanno

da salvietta;1 le bucce di salame vanno a cani randagi che non tardano a divenirgli

amici; e le briciole di pane le raccoglieranno i passeri, un momento che nel viale

non passi nessuno.

30    Mangiando pensa: «Perché il sapore della cucina di mia moglie mi fa piacere

ritrovarlo qui, e invece a casa tra le liti, i pianti, i debiti che saltano fuori a ogni

discorso, non mi riesce di gustarlo?» E poi pensa: «Ora mi ricordo, questi sono gli

avanzi della cena d’ieri». E lo riprende già la scontentezza, forse perché gli tocca di

mangiare gli avanzi, freddi e un po’ irranciditi, forse perché l’alluminio della pietanziera

35    comunica un sapore metallico ai cibi, ma il pensiero che gli gira in capo

è: «Ecco che l’idea di Domitilla2 riesce a guastarmi anche i desinari lontano da lei».

In quella, s’accorge che è giunto quasi alla fine, e di nuovo gli sembra che quel

piatto sia qualcosa di molto ghiotto e raro, e mangia con entusiasmo e devozione

gli ultimi resti sul fondo della pietanziera, quelli che più sanno di metallo. Poi,

40    contemplando il recipiente vuoto e unto, lo riprende di nuovo la tristezza.

Allora involge e intasca tutto, s’alza, è ancora presto per tornare al lavoro, nelle

grosse tasche del giaccone le posate suonano il tamburo contro la pietanziera vuota.

Marcovaldo va a una bottiglieria e si fa versare un bicchiere raso all’orlo; oppure

in un caffè e sorbisce una tazzina; poi guarda le paste nella bacheca di vetro, le

45    scatole di caramelle e di torrone, si persuade che non è vero che ne ha voglia, che

proprio non ha voglia di nulla, guarda un momento il calciobalilla per convincersi

che vuole ingannare il tempo, non l’appetito. Ritorna in strada. I tram sono di

nuovo affollati, s’avvicina l’ora di tornare al lavoro; e lui s’avvia.

Accadde che la moglie Domitilla, per ragioni sue, comprò una grande quantità

50    di salciccia. E per tre sere di seguito a cena Marcovaldo trovò salciccia e rape. Ora,

quella salciccia doveva essere di cane; solo l’odore bastava a fargli scappare l’appetito.

Quanto alle rape, quest’ortaggio pallido e sfuggente era il solo vegetale che

Marcovaldo non avesse mai potuto soffrire.

A mezzogiorno, di nuovo: la sua salciccia e rape fredda e grassa lì nella pietanziera.

55    Smemorato com’era, svitava sempre il coperchio con curiosità e ghiottoneria, 

senza ricordarsi quel che aveva mangiato ieri a cena, e ogni giorno era

la stessa delusione. Il quarto giorno, ci ficcò dentro la forchetta, annusò ancora

una volta, s’alzò dalla panchina, e reggendo in mano la pietanziera aperta s’avviò

distrattamente per il viale. I passanti vedevano quest’uomo che passeggiava con in

60    una mano una forchetta e nell’altra un recipiente di salciccia, e sembrava non si

decidesse a portare alla bocca la prima forchettata.

Da una finestra un bambino disse: – Ehi, tu, uomo!

Marcovaldo alzò gli occhi. Dal piano rialzato di una ricca villa, un bambino

stava con i gomiti puntati al davanzale, su cui era posato un piatto.

65    – Ehi, tu, uomo! Cosa mangi?

– Salciccia e rape!

– Beato te! – disse il bambino.

– Eh… – fece Marcovaldo, vagamente.

– Pensa che io dovrei mangiare fritto di cervella…

70    Marcovaldo guardò il piatto sul davanzale. C’era una frittura di cervella morbida

e riccioluta come un cumulo di nuvole. Le narici gli vibrarono.

– Perché: a te non piace, il cervello?… – chiese al bambino.

– No, m’hanno chiuso qui in castigo perché non voglio mangiarlo. Ma io lo

butto dalla finestra.

75    – E la salciccia ti piace?…

– Oh, sì, sembra una biscia… A casa nostra non ne mangiamo mai…

– Allora tu dammi il tuo piatto e io ti do il mio.

– Evviva! – Il bambino era tutto contento. Porse all’uomo il suo piatto di maiolica

con una forchetta d’argento tutta ornata, e l’uomo gli diede la pietanziera colla

80    forchetta di stagno.

Così si misero a mangiare tutti e due: il bambino al davanzale e Marcovaldo

seduto su una panchina lì di fronte, tutti e due leccandosi le labbra e dicendosi che

non avevano assaggiato mai un cibo così buono.

Quand’ecco, alle spalle del bambino compare una governante colle mani sulle

85    anche.

– Signorino! Dio mio! Che cosa mangia?

– Salciccia! – fa il bambino.

– E chi gliel’ha data?

– Quel signore lì, – e indicò Marcovaldo che interruppe il suo lento e diligente

90    mastichio d’un boccone di cervello.

– Butti via! Cosa sento! Butti via!

– Ma è buona…

– E il suo piatto? La forchetta?

– Ce l’ha il signore… – e indicò di nuovo Marcovaldo che teneva la forchetta in

95    aria con infilzato un pezzo di cervello morsicato.

Quella si mise a gridare: – Al ladro! Al ladro! Le posate!

Marcovaldo s’alzò, guardò ancora un momento la frittura lasciata a metà, s’avvicinò

alla finestra, posò sul davanzale piatto e forchetta, fissò la governante con

disdegno, e si ritrasse. Sentì la pietanziera rotolare sul marciapiede, il pianto del

100 bambino, lo sbattere della finestra che veniva richiusa con mal garbo. Si chinò a

raccogliere pietanziera e coperchio. S’erano un po’ ammaccati; il coperchio non

avvitava più bene. Cacciò tutto in tasca e andò al lavoro.

 >> pagina 586 

Analisi ATTIVA

I contenuti tematici

L’episodio qui proposto e le altre diciannove storie che hanno per protagonista Marcovaldo presentano una struttura narrativa tipica del comico, che ripete in modo quasi identico un medesimo modello: quello proprio delle comiche cinematografiche o delle narrazioni a vignette dei giornalini per l’infanzia (non a caso la prima edizione del libro era corredata dalle illustrazioni di Sergio Tofano, il creatore del Signor Bonaventura, celeberrimo eroe del “Corriere dei Piccoli”).

Come spesso accade nel libro, anche qui lo schema della storia segue una struttura bipartita: in un primo momento viene descritto ciò che Marcovaldo fa abitualmente e che costituisce la norma delle sue giornate di alienato uomo di fatica (viene cioè raccontato come egli sia solito consumare il pranzo contenuto nella pietanziera); su questa base di azioni consuetudinarie si innesta poi l’“avventura” vera e propria (lo scambio di pietanze tra Marcovaldo e il bambino).


1 Quale punto di vista prevale nel paragrafo iniziale?


2 Qual è la prima gioia procurata dalla pietanziera?


3 A che cosa servono i primi colpi di forchetta dati da Marcovaldo al cibo?

Lo sguardo di Marcovaldo ignora i segni distintivi della città, preferendo soffermarsi sugli indizi che mostrano una residua presenza della natura, come il ciclico mutare delle stagioni (Se è d’autunno e c’è sole, sceglie i posti dove arriva qualche raggio, rr. 25-26). Se la sua attenzione si sofferma su oggetti che non appartengono al mondo della natura, è per estrapolarli dal contesto in cui si trovano e riconnetterli a una dimensione più umana. È quanto avviene con la pietanziera: da oggetto-simbolo dell’operaio di fabbrica che non può permettersi un pasto servito caldo o il ritorno a casa durante la pausa pranzo (siccome casa sua è lontana e ad andarci a mezzogiorno perde tempo, rr. 22-23), essa si muta, agli occhi di Marcovaldo, in una scatola magica, in un ghiotto portagioie che nasconde e conserva i sapori del desco familiare (r. 20). Infine, la pietanziera risulta il tramite grazie al quale dare e ricevere un’imprevista felicità, derivante dal piacevole scambio culinario tra Marcovaldo e il bambino (che gusta il cibo proibito, quella salsiccia che a casa sua non si mangia mai).


4 Individua nel testo gli elementi da cui si può intuire lo status socioeconomico del bambino.


5 Sia Marcovaldo sia il bambino vedono nel cibo il riflesso dei loro desideri e della loro immaginazione (per il primo la frittura di cervella è come un cumulo di nuvole, r. 71, per il secondo la salsiccia sembra una biscia, r. 76). Si può dire che le pietanze diventino una metafora dell’essere altrove, del desiderare una vita diversa? Peché?

Tuttavia, le speranze del manovale si infrangono continuamente contro una realtà ben più amara. Nonostante l’entusiasmo suscitato dalla pietanziera, questo oggetto umile e anonimo non può che confermare la propria inadeguatezza rispetto ai sogni di un uomo ingenuo, ingannato e deluso dal suo stesso sguardo. Così, se nella prima parte del racconto l’umore di Marcovaldo oscilla più volte tra l’euforia per le gioie contenute nel recipiente e la delusione di trovarvi delle vivande intorpidite (r. 14), la tristezza del mangiare freddo (r. 19) e il disappunto per il sapore metallico comunicato ai cibi dall’alluminio (r. 35), nella seconda parte la felicità per l’inattesa svolta dovuta all’incontro con il bambino viene bruscamente interrotta dall’arrivo della governante, che riporta i due personaggi al posto che spetta loro.


6 Il piacere che Marcovaldo pensa di ricavare dalla pietanziera è unicamente culinario o riguarda anche altro? A quali pensieri lo conduce il sapore del cibo?

 >> pagina 587 

Le scelte stilistiche

Nel brano predomina un tono colloquiale e ricco di venature ironiche, cui fanno da contrappunto brevi slanci lirici subito raffreddati dall’inserzione di particolari prosaici, che svelano le miserie della vita. Ciò accade, per esempio, quando il narratore descrive il tentativo messo in atto da Marcovaldo di operare una comunione tra uomo e natura: le foglie rosse e lucide che cadono dagli alberi gli fanno da salvietta; le bucce di salame vanno a cani randagi che non tardano a divenirgli amici; e le briciole di pane le raccoglieranno i passeri, un momento che nel viale non passi nessuno (rr. 26-29).

L’inizio apparentemente banale (Le gioie di quel recipiente tondo e piatto chiamato «pietanziera» consistono innanzitutto nell’essere svitabile, rr. 1-2) dà luogo, in realtà, a un geniale accostamento di immagini tra l’atto di svitare il coperchio della pietanziera e l’acquolina in bocca di chi, per una sorta di riflesso istintivo, preavverte le gioie del palato. Questo avvio permette al narratore di caricare il lettore (oltre che Marcovaldo) di aspettative che, dopo un gioco di alternanze fra sogni e disillusioni, precipiteranno definitivamente (non solo in senso metaforico, dato che la pietanziera finirà con il rotolare sul marciapiede).


7 Scrivere per argomentare. Calvino ha definito le storie di Marcovaldo come una «divagazione comico-melanconica in margine al “neorea­lismo”». È possibile quindi pensare che Calvino abbia una visione negativa della vita “moderna”? Argomenta la tua risposta in un testo di circa 30 righe.

4 Tra scienza e fantascienza

Cresciuto tra agronomi e botanici e lui stesso iscritto, inizialmente, alla facoltà di Agraria, Calvino recupera la tradizione degli studi di famiglia all’inizio degli anni Sessanta, sperimentando la propria idea di un rinnovamento dell’arte attraverso la contaminazione tra letteratura e scienza in un tipo di racconto del tutto inedito, quello “cosmicomico”.

Genesi e senso dei racconti cosmicomici Leggendo, più per passione che per motivi di studio, alcuni testi scientifici (soprattutto di cosmologia, di fisica, di genetica), l’autore racconta di essere stato colpito, di tanto in tanto, da una frase capace di suscitargli un’improvvisa creatività e lo sviluppo di una narrazione spesso paradossale. Le immagini, le situazioni e i personaggi scaturiti dalla fantasia danno così origine ai racconti delle Cosmicomiche (1965), di Ti con zero (1967) e delle Cosmicomiche vecchie e nuove (1984), che raccolgono le due pubblicazioni precedenti.

Venati di umorismo e ricchi di trovate surreali, i racconti cosmicomici trattano ipotesi, teorie e argomenti riguardanti la vita dell’universo in una forma leggera e apparentemente strampalata. Mediante l’unione tra i concetti di “cosmico” e “comico”, Calvino coniuga due approcci alla realtà. Con il primo, quello cosmico, egli tenta di ricondurre l’umanità a un rapporto diretto con le cose «grandi ed eccelse», con quella dimensione assoluta, cioè, che pare dimenticata da una società concentrata sull’osservazione dei particolari a discapito dell’universale. Con l’approccio comico, l’autore adotta una strategia (già sperimentata in Marcovaldo) utile a segmentare la Storia dell’universo in episodi, come accade nelle comiche del cinema muto o nelle strisce a fumetti dei comics, in cui, come scrive Calvino stesso, «un pupazzetto emblematico si trova di volta in volta in situazioni sempre diverse che pure seguono uno schema comune».

Inserito in questa visione “cosmocentrica” (anziché antropocentrica), l’essere umano subisce un processo di ridimensionamento, attraverso il quale da una parte si recupera il senso cosmico proprio dell’uomo primitivo, immerso nella natura e nel mondo al pari degli altri esseri viventi; ma dall’altra, grazie all’intervento del comico, si esorcizza una realtà percepita come tragica e penosa.

 >> pagina 588 

Una fantascienza a ritroso Non si tratta di racconti fantascientifici, sebbene alcuni critici abbiano tentato di forzare questi testi in tale categoria. Essi sono infatti costruiti secondo prospettive e metodi completamente diversi: mentre la fantascienza parla del futuro, le narrazioni di Calvino volgono lo sguardo a un passato remoto, ricostruendo in chiave comica una sorta di galleria di miti delle origini. Ma soprattutto risulta differente il rapporto tra dati scientifici e invenzione fantastica: se la fantascienza tratta di oggetti e idee a noi lontani come una proiezione ipotetica del nostro presente, mirando a dare una rappresentazione tendenzialmente realistica e credibile del futuro, il racconto cosmicomico rielabora le nostre conoscenze del passato attraverso nuovi occhi, nuove idee, nuove sensibilità, non preoccupandosi della coerenza razionale tra l’una e l’altra teoria; non per nulla il protagonista dei racconti cosmicomici avalla ipotesi cosmologiche contraddittorie o addirittura opposte tra loro.

Il protagonista Del protagonista e voce narrante non si sa quasi nulla, tranne che ha più o meno l’età dell’universo e che di esso conosce ogni luogo e ogni tempo; non a caso porta un nome, Qfwfq, palindromo, quasi a simboleggiare l’atemporalità e l’aspazialità che lo contraddistinguono. Secondo Calvino, non è neppure un personaggio vero e proprio, ma piuttosto «un punto di vista, un occhio (o un ammicco) umano proiettato sulla realtà d’un mondo che pare sempre più refrattario alla parola e all’immagine». La sua importanza non sta nel compiere azioni, quanto nel ricordare la storia dell’universo, nell’essere la «memoria del mondo» (come recita il titolo di una cosmicomica del 1967).

T4

Lo zio acquatico

Le Cosmicomiche

Qfwfq, il protagonista senza tempo delle Cosmicomiche, è alle prese con un vecchio zio, burbero e antiquato, che si ostina a voler vivere nell’acqua quando tutti i nipoti sono ormai passati all’ambiente terrestre. In questa sorta di primitivo scontro generazionale si inserisce la figura della bellissima Lll (il cui nome è formato da tre “elle” consecutive), di cui Qfwfq è innamorato e che appare ai suoi occhi la creatura di punta del processo evolutivo. Sarà lei a scompaginare non solo le aspettative di Qfwfq, ma anche l’idea stessa di progresso.

I primi vertebrati che nel Carbonifero1 lasciarono la vita acquatica per quella terrestre,

derivavano dai pesci ossei polmonati le cui pinne potevano essere ruotate sotto il corpo e

usate come zampe sulla terra.

Ormai era chiaro che i tempi dell’acqua erano finiti, – ricordò il vecchio Qfwfq,

– quelli che si decidevano a fare il grande passo erano sempre in maggior numero,

non c’era famiglia che non avesse qualcuno dei suoi cari là all’asciutto, tutti raccontavano

cose straordinarie di quel che c’era da fare in terraferma, e chiamavano i

5      parenti. Ormai i pesci giovani non li teneva più nessuno, sbattevano le pinne sulle

rive di fango per vedere se funzionavano da zampe, com’era riuscito ai più dotati.

Ma proprio in quei tempi s’accentuavano le differenze tra noi: c’era la famiglia che

viveva a terra da più generazioni, e i cui giovani ostentavano maniere che non 

erano nemmeno più da anfibi ma già quasi da rettili; e c’era chi s’attardava ancora 

10    a fare il pesce, anzi, diventava più pesce di quanto non si usasse essere pesci una
volta.

La nostra famiglia, devo dire, nonni in testa, zampettava sulla spiaggia al completo,

come non avessimo mai conosciuto altra vocazione. Non fosse stato per

l’ostinazione del prozio N’ba N’ga, i contatti col mondo acquatico sarebbero stati

15    perduti da un pezzo.

Sì, avevamo un prozio pesce, e precisamente dalla parte di mia nonna paterna,

nata dei Celacanti2 del Devoniano3 (quelli d’acqua dolce: che poi resterebbero

cugini di quegli altri – ma non voglio dilungarmi sui gradi di parentela, tanto

nessuno riesce mai a seguirli). Dunque questo prozio abitava in certe acque basse 

20    e limacciose, tra radici di protoconifere,4 in quel braccio di laguna dov’erano nati 

tutti i nostri vecchi. Non si muoveva mai di là: in qualsiasi stagione bastava spingerci 

sugli strati di vegetazione più molli fin che non ci si sentiva sprofondare nel 

bagnato, e là sotto, a pochi palmi dall’orlo, vedevamo la colonna di bollicine che
lui mandava su sbuffando, come fanno gli individui d’età, o la nuvoletta di fango

25    raspata dal suo muso aguzzo, sempre lì a frugare più per abitudine che per cercar
qualcosa.

– Zio N’ba N’ga! Siamo venuti a trovarla! Ci aspettava? – gridavamo, sguazzando

nell’acqua zampe e coda per richiamare la sua attenzione. – Le abbiamo

portato degli insetti nuovi che crescono da noi! Zio N’ba N’ga! Ne aveva mai viste,

30    di blatte5 così grosse? Assaggi se le piacciono…

– Potete pulirvici quelle verruche schifose che avete addosso, con le vostre blatte

puzzolenti! – La risposta del prozio era sempre una frase di questo genere, o

magari più villana ancora: ci accoglieva così ogni volta, ma non ci facevamo caso

perché sapevamo che dopo un po’ finiva per rabbonirsi, gradire i doni, e conversare

35    in toni più garbati.

– Ma che verruche, zio N’ba N’ga? Quando mai ci ha visto addosso una verruca?

Questo delle verruche era un pregiudizio dei vecchi pesci: che a noi, a vivere

all’asciutto, ci venissero tante verruche su tutto il corpo, trasudanti roba liquida;

il che era vero sì, ma solo per i rospi, che con noi non avevano nulla da spartire;

40    al contrario, la nostra pelle era liscia e sgusciante come nessun pesce l’aveva mai

avuta; e il prozio lo sapeva bene, però non rinunciava a imbastire i suoi discorsi di

tutte le calunnie e le prevenzioni in mezzo alle quali era cresciuto.

Andavamo a fare visita al prozio una volta all’anno, tutta la famiglia insieme.

Era anche un’occasione per ritrovarci tra noi, sparpagliati com’eravamo nel continente,

45    scambiarci notizie e insetti mangerecci, e discutere vecchie faccende d’interessi

rimaste in sospeso.

Il prozio interloquiva anche in questioni lontane da lui chilometri e chilometri

di terra secca, come sarebbe la spartizione delle zone per la caccia alle libellule, e

dava ragione agli uni o agli altri secondo criteri suoi, che erano sempre quelli acquatici.

50    – Ma non lo sai che chi caccia sul fondo è sempre in vantaggio su chi caccia

a galla? Cos’hai da far tanto l’angoscioso, allora?

– Ma zio, veda, non è questione di galla o di fondo: io sto al piede della collina

e lui a mezza costa… Le colline, ha presente, zio…

E lui: – Al piede degli scogli c’è sempre i gamberi migliori –. Non c’era verso di

55    fargli accettare per possibile una realtà diversa dalla sua.

Eppure, il suo giudizio continuava ad avere un’autorità su tutti noi: finivamo

per chiedergli consiglio su fatti di cui non capiva niente, benché sapessimo che

poteva avere torto marcio. Forse la sua autorità gli veniva proprio dall’essere un

avanzo del passato, dall’usare vecchi modi di dire, tipo: – E cala un po’ le pinne,

60    bravo! – di cui noi non comprendevamo neppur più bene il significato.

Tentativi di portarlo a terra con noi ne avevamo fatti parecchi, e continuavamo

a farne; anzi, su questo punto non s’era mai spenta la rivalità tra i vari rami della

famiglia, perché chi fosse riuscito a portare il prozio a casa propria si sarebbe trovato

in una posizione diciamo preminente rispetto a tutto il parentado. Ma era una

65    rivalità inutile, perché il prozio non si sognava di lasciare la laguna.

– Zio, alla bella età che ha, sapesse quanto ci dispiace lasciarla così sempre da

solo, in mezzo all’umido… A noi, sa, è venuta un’idea… – attaccavamo.

– Me l’aspettavo che l’avreste capita, – interrompeva il vecchio pesce, – ormai il

gusto di sguazzare nel secco ve lo siete tolto, è giusto l’ora che torniate a vivere come

70    esseri normali. Qui c’è acqua per tutti, e quanto al mangiare, la stagione dei lombrichi

non è mai stata così buona. Potete buttarvi a bagno bell’e ora e non se ne parli più.

– Ma no, zio N’ba N’ga, cos’ha capito? Noi si voleva portarla a star con noi,

in un bel praticello… Vedrà che ci si trova bene, le scaviamo una fossetta umida,

fresca: lei ci si rigira come vuole tal quale a qui; potrà anche provare a fare qualche

75    passo intorno, vedrà che ci riesce. E poi alla sua età il clima di terra è più indicato.

Dunque, zio N’ba N’ga, non si faccia più pregare: viene?

– No! – era la risposta secca del prozio, e con una nasata in acqua scompariva

dalla nostra vista.

– Ma perché mai, zio, cos’ha contro, non comprendiamo, lei così largo di vedute,

80    certi preconcetti…

In uno sbuffo a fior d’acqua, prima d’inabissarsi con un colpo ancor agile di coda,

ci veniva l’ultima risposta del prozio: – Nuota a pancia nel fango chi ci ha pulci tra le

squame! – che doveva essere un modo di dire dei suoi tempi (sul tipo del nostro proverbio

nuovo, e molto più rapido: «Chi ha prurito si gratti»), con quell’espressione

85    «fango» che lui continuava a usare per tutte le occasioni in cui noi dicevamo: «terra».

Fu in quell’epoca che io m’innamorai. Passavo le giornate con Lll, rincorrendoci;

agile come lei non s’era vista mai nessuna; sulle felci, che a quel tempo erano

alte come alberi, saliva fino in cima di slancio, e le cime s’inchinavano fin quasi

al suolo, e lei saltava giù e riprendeva la sua corsa; io, con movimenti un po’ più

90    tardi e goffi, la seguivo. Ci inoltravamo in territori dell’interno dove mai nessuna

impronta aveva marcato il suolo secco e crostoso; alle volte m’arrestavo spaventato

d’essermi tanto allontanato dalla distesa delle lagune. Ma nulla pareva lontano

dalla vita acquatica quanto lei, Lll: i deserti di sabbia e pietre, le praterie, il folto

delle foreste, i rilievi rocciosi, le montagne di quarzo, questo era il suo mondo: un

95    mondo che pareva fatto apposta per essere scrutato dai suoi occhi oblunghi e percorso

dal suo passo guizzante. Guardando la sua pelle liscia pareva che non fossero

mai esistite scaglie e squame.

I parenti di Lll mi davano un po’ di soggezione: erano una di quelle famiglie

che per essersi stabilite a terra in epoca più antica avevano finito per convincersi

100 di stare qui da sempre; una di quelle famiglie in cui ormai anche le uova venivano

deposte all’asciutto, protette da un guscio resistente; e Lll, a guardarla nei suoi scatti,

nelle sue mosse saettanti, si capiva che era nata tal quale a ora, da una di quelle

uova calde di sabbia e di sole, saltando a piè pari la fase natante e ciondolona del

girino, ancora d’obbligo nelle nostre famiglie meno evolute.

105 Era venuto il momento che Lll conoscesse i miei: e il più anziano e autorevole

della famiglia essendo il prozio N’ba N’ga, non potevo mancare di fargli una visita

per presentargli la mia fidanzata. Ma tutte le volte che capitava un’occasione,

rimandavo pieno d’imbarazzo: conoscendo i pregiudizi in cui lei era stata allevata,

non avevo ancora osato dire a Lll che il mio prozio era un pesce.

110 Un giorno ci eravamo inoltrati in uno di quei fradici promontori che cingono

la laguna, dove il suolo più che di sabbia è fatto di grovigli di radici e vegetazione

marcita. E Lll mi propose una delle solite sue sfide o prove di bravura: – Qfwfq,

fin dove sei buono a tenere l’equilibrio? Facciamo a chi corre più sull’orlo! – e si

lanciò avanti col suo saltello da terraferma, ma un po’ esitante.

115 Stavolta mi sentivo non solo d’emularla, ma di vincerla, perché sull’umido le

mie zampe avevano più presa. – Fin sull’orlo quanto vuoi! – esclamai, – e magari

anche al di là!

– Non dire stupidaggini! – fece lei. – Al di là dell’orlo come si fa a correre? C’è

l’acqua!

120 Forse era il momento favorevole per portare il discorso sul prozio.

– E con ciò? – le dissi. – C’è chi corre di là dell’orlo e chi di qua.

– Dici delle cose senza capo né coda!

– Dico che il mio prozio N’ba N’ga sta nell’acqua come noi in terra, e non ne

è mai uscito!

125 – Bum! Vorrei proprio conoscerlo questo N’ba N’ga!

Non aveva finito di dirlo e la torbida superficie della laguna gorgogliò di bollicine,

si mosse un poco a vortice e lasciò affiorare un muso tutto ricoperto di squame spinose.

– Bè: sono io, che c’è? – disse il prozio, fissando Lll con occhi tondi e inespressivi

come pietre e facendo pulsare le branchie ai lati dell’enorme gola. Mai il prozio

130 m’era parso così diverso da noi: un vero e proprio mostro.

– Zio, se permette, questa… vorrei avere il piacere appunto di farle conoscere…

la mia promessa sposa Lll, – e indicai la mia fidanzata che chissà perché s’era messa

ritta sulle zampe di dietro, in uno dei suoi atteggiamenti più ricercati e certamente

meno apprezzabili da quel vecchio zoticone.

135 – E così bel bello, signorina, è venuta a bagnarsi un po’ la coda? – fece il prozio,

una battuta che ai suoi tempi sarà magari stata una galanteria, ma a noi suonava

addirittura indecente.

Guardai Lll, sicuro di vederla voltarsi e scappar via con uno squittio scandalizzato.

Ma non avevo calcolato quanto forte fosse in lei l’educazione a ignorare

140 ogni volgarità del mondo circostante. – Senta, quelle piantine là, – fa, disinvolta, e

indica certe giuncacee6 che crescevano gigantesche in mezzo alla laguna, – le radici,

mi dica, dov’è che le affondano?

Una domanda di quelle che si fanno tanto per tener su la conversazione; figuriamoci

cosa importava a lei delle giuncacee! Ma il prozio pareva che non aspettasse altro 

145 per mettersi a spiegare il perché e il percome delle radici degli alberi galleggianti e di 

come ci si poteva nuotare in mezzo, anzi: i posti più indicati per la caccia erano lì sotto.

Non la finiva più. Io sbuffavo, cercavo d’interromperlo. Ma quella impertinente

invece che fa? Non si mette a dargli corda? – Ah sì, lei va a caccia tra le radici

natanti? Interessante!

150 Io sprofondavo dalla vergogna.

E lui: – Mica storie: i lombrichi che c’è lì, roba da farci delle scorpacciate! – E,

senza starci a pensare, si tuffa. Un tuffo agile come mai gliene avevo visto fare; anzi,

un salto in alto: balza fuori dell’acqua quant’è lungo, tutto maculato sulle squame,

divaricando i ventagli spinosi delle pinne; poi, descritto in aria un bel semicerchio,

155 ripiomba a immergersi testa avanti, e scompare rapido con una specie di movimento

a vite della coda falcata.

A questa vista, il discorsetto che m’ero preparato per giustificarmi in fretta con

Lll approfittando dell’allontanamento del prozio: «Sai, bisogna capirlo, con questa

idea fissa di vivere come un pesce, ha finito per assomigliare a un pesce davvero…»

160 mi si smorzò in gola. Neanch’io m’ero mai reso conto fino a che punto fosse pesce il

fratello di mia nonna. Dissi appena: – Lll, è tardi, andiamo… – e già il prozio riemergeva

reggendo tra le sue labbra da squalo un festone di lombrichi e alghe fangose.

Non mi pareva vero, quando ci accomiatammo; ma trottando zitto dietro a Lll

pensavo che ora lei avrebbe cominciato a fare i suoi commenti, cioè che il peggio per 

165 me doveva ancor venire. Ed ecco Lll, senza fermarsi, si volta appena verso di me, e: – 

Però, simpatico, tuo zio! – Questo, dice, e nient’altro. Di fronte alla sua ironia, già più 

d’una volta m’ero trovato disarmato; ma il gelo che mi colse a questa battuta fu tale che 

avrei preferito non rivederla più piuttosto che dover riaffrontare l’argomento.

Invece continuammo a vederci, a andare insieme, e non si parlò più dell’episodio

170 della laguna. Io restavo insicuro: avevo un bel cercare di convincermi che se

ne fosse dimenticata; ogni tanto mi prendeva il sospetto che tacesse per potermi

svergognare in qualche modo clamoroso, davanti ai suoi, oppure – e questa era per

me un’ipotesi ancor peggiore – che soltanto per compassione si studiasse di parlare

d’altro. Finché, di punto in bianco, un bel mattino, non uscì a dire:

175 – Ma senti, da tuo zio non mi ci porti più?

Con un filo di voce chiesi: – … Scherzi?

Macché: diceva sul serio, non vedeva l’ora di tornare a far quattro chiacchiere

col vecchio N’ba N’ga. Io non ci capivo più niente.

Quella volta la visita alla laguna fu più lunga. Ci sdraiammo su una riva in declivio 

180 tutti e tre: il prozio più dalla parte dell’acqua, ma anche noi mezzo a bagno, cosicché a 

         vederci da lontano, allungati vicini, non si sarebbe capito chi era terrestre e chi acquatico.

Il pesce attaccò una solfa delle solite: la superiorità della respirazione ad acqua

su quella aerea, con tutto il repertorio delle sue denigrazioni. «Adesso Lll salta su e

gli risponde per le rime!» pensavo. Invece si vede che quel giorno Lll usava un’altra

185 tattica: discuteva con impegno, difendendo i nostri punti di vista, ma come se

prendesse molto sul serio quelli del vecchio N’ba N’ga.

Le terre emerse, secondo il prozio, erano un fenomeno limitato: sarebbero scomparse 

com’eran saltate fuori, o, comunque, sarebbero state soggette a continui cambiamenti: 

vulcani, glaciazioni, terremoti, corrugamenti,7 mutamenti di clima e di vegetazione. 

190 E la nostra vita là in mezzo avrebbe dovuto affrontare trasformazioni continue, 

attraverso le quali intere popolazioni sarebbero scomparse, e sarebbe potuto sopravvivere 

solo chi era disposto a cambiare talmente le basi della propria esistenza, che le 

ragioni per cui era bello vivere sarebbero state completamente sconvolte e dimenticate.

Una prospettiva che faceva a pugni con l’ottimismo in cui noi figli della costa eravamo 

195 stati allevati; e alla quale io ribattevo con proteste scandalizzate. Ma per me la 

vera, vivente confutazione di quegli argomenti era Lll: vedevo in lei la forma perfetta, 

definitiva, nata dalla conquista dei territori emersi, la somma delle nuove illimitate 

capacità che si aprivano. Come poteva pretendere, il prozio, di negare la realtà incarnata 

di Lll? Fiammeggiavo di passione polemica, e mi pareva che la mia compagna si 

200 dimostrasse fin troppo paziente e comprensiva col nostro contraddittore.

Certo, anche per me – abituato com’ero a sentire dalla bocca del prozio solo

boffonchiamenti e improperi – questo suo argomentare così filato suonava come

una novità, se pur condito d’espressioni antiquate ed enfatiche, e reso buffo dalla

sua caratteristica cadenza. Stupiva anche sentirlo dar prova d’una competenza minuziosa

205 – per quanto tutta esterna – delle terre continentali.

Ma Lll, con le sue domande, cercava di farlo parlare il più possibile della vita

sott’acqua: e certo questo era il tema sul quale il discorso del prozio si faceva più

serrato, ed a tratti commosso.

In confronto alle incertezze della terra e dell’aria, lagune e mari e oceani rappresentavano

210 un futuro di sicurezza. Là i cambiamenti sarebbero stati minimi, gli

spazi e le provvigioni senza limiti, la temperatura avrebbe sempre trovato il suo

equilibrio, insomma la vita si sarebbe conservata così come s’era svolta fin qui,

nelle sue forme piene e perfette, senza metamorfosi o aggiunte di dubbio esito,

e ognuno avrebbe potuto approfondire la propria natura, arrivare all’essenza di

215 sé e di ogni cosa. Il prozio parlava dell’avvenire acquatico senza abbellimenti o

illusioni, non si nascondeva i problemi anche gravi che si sarebbero presentati

(più preoccupante di tutti l’aumento della salinità8); ma erano problemi che non

avrebbero sconvolto i valori e le proporzioni in cui egli credeva.

– Ma noi ora galoppiamo per vallate e montagne, zio! – esclamai, a nome mio

220 e soprattutto di Lll, che invece stava zitta.

– Và là, girino, che appena torni a bagno torni a casa! – m’apostrofò lui, riprendendo

il tono che gli avevo sempre sentito usare con noi.

– Non crede, zio, che se noi volessimo imparare a respirare sott’acqua ora sarebbe

troppo tardi? – chiese Lll, seria, e io non sapevo se sentirmi lusingato perché

225 aveva chiamato zio il mio vecchio parente o disorientato perché certe questioni

(almeno, così ero abituato a pensare io) non si ponevano neppure.

– Se ci stai, stella, – fece il pesce, – ti ci insegno subito!

Lll uscì in una risata strana e finalmente si mise a correre, a correre da non

poterle tener dietro.

230 La cercai per pianure e colline, giunsi in cima a uno sperone di basalto che

dominava intorno il paesaggio di deserti e foreste circondato dalle acque. Lll era lì.

Era certo questo che aveva voluto dirmi – io l’avevo capito! – col suo ascoltare N’ba

N’ga e poi col suo fuggire e rifugiarsi lassù: che bisognava stare nel nostro mondo

con la stessa forza con cui il vecchio pesce stava nel suo.

235 – Io sarò per qua come lo zio per là, – gridai, un po’ farfugliando, poi mi

corressi: – Noi due, saremo, insieme! – perché era vero che senza di lei non mi

sentivo sicuro.

E Lll allora, cosa mi rispose? Ancora adesso arrossisco a ricordarlo, a distanza

di tante ere geologiche. Rispose: – Và là, girino, ci vuol altro! – e non sapevo se

240 voleva fare il verso al prozio, per canzonare lui e me insieme, o se davvero aveva

fatto suo l’atteggiamento di quel vecchio bacucco verso il pronipote, e l’una e l’altra

ipotesi erano ugualmente scoraggianti, perché entrambe significavano che mi considerava

uno a metà strada, uno che non era nel suo né in un mondo né nell’altro.

L’avevo perduta? Nel dubbio, mi precipitai a riconquistarla. Presi a compiere

245 prodezze: nella caccia agli insetti volanti, nel salto, nello scavare tane sotterranee,

nella lotta coi più forti dei nostri.

Ero fiero di me stesso, ma purtroppo ogni volta che facevo qualcosa di valoroso,

lei non era lì a vedermi: spariva continuamente, non si sapeva dove andasse a

nascondersi.

250 Finalmente capii: andava alla laguna dove il prozio le insegnava a nuotare

sott’acqua. Li vidi affiorare insieme: filavano a pari velocità, da sembrare fratello

e sorella.

– Sai, – fece lei, allegra, vedendomi, – le zampe funzionano benissimo da pinne!

– E brava: guarda che bel passo avanti, – non potei fare a meno di commentare,

con sarcasmo.

255 Era un gioco, per lei, lo capivo. Ma un gioco che non mi piaceva.

Dovevo richiamarla alla realtà, al futuro che ci attendeva.

Un giorno la aspettai in mezzo a un bosco di alte felci, che scoscendeva9

sull’acqua.

– Lll, ho da parlarti, – dissi appena la vidi, – adesso ti sei divertita abbastanza.

260 Abbiamo cose più importanti davanti a noi. Ho scoperto un passaggio nella catena

dei monti: di là s’estende un’immensa pianura di pietra, abbandonata da poco

dalle acque. Saremo i primi a stabilirci là, popoleremo territori sconfinati, noi e i

nostri figli.

– Il mare, è sconfinato, – disse Lll.

265 – Smettila di ripetere le fandonie di quel vecchio rimbambito. Il mondo è di

chi ha gambe, non dei pesci, lo sai.

– So che lui è uno che è uno, – disse Lll.

– E io?

– Nessuno c’è di quelli con le gambe che sia uno come lui.

270 – E la tua famiglia?

– Ci ho litigato. Non hanno mai capito niente.

– Ma sei matta! Non si può mica tornare indietro!

– Io sì.

– E cosa vuoi fare, tu sola con un vecchio pesce?

275 – Sposarlo. Tornare pesce con lui. E mettere al mondo altri pesci. Addio.

E, con un’ultima arrampicata delle sue, salì fino in cima a un’alta foglia di

felce, l’inclinò verso la laguna, e si lasciò andare in un tuffo. Riemerse, ma non era

sola: la robusta coda falcata del prozio N’ba N’ga affiorò vicino alla sua e insieme

fendettero le acque.

280 Fu una batosta dura per me. Ma poi, che farci? Continuai la mia strada, in mezzo

alle trasformazioni del mondo, anch’io trasformandomi. Ogni tanto, tra le tante

forme degli esseri viventi, incontravo qualcuno che «era uno» più di quanto io

non lo fossi: uno che annunciava il futuro, ornitorinco che allatta il piccolo uscito

dall’uovo, giraffa allampanata in mezzo alla vegetazione ancora bassa; o uno che

285 testimoniava un passato senza ritorno, dinosauro superstite dopo ch’era cominciato

il Cenozoico,10 oppure – coccodrillo – un passato che aveva trovato il modo

di conservarsi immobile nei secoli. Tutti costoro avevano qualcosa, lo so, che li

rendeva in qualche modo superiori a me, sublimi, e che rendeva me, in confronto

a loro, mediocre. Eppure non mi sarei cambiato con nessuno di loro.

 >> pagina 595 

Dentro il TESTO

I contenuti tematici

Le righe in corsivo poste come preambolo a ogni racconto sono tratte dai testi scientifici cui l’autore si è ispirato; servono da impulso alla narrazione e, allo stesso tempo, da sommario di quanto verrà raccontato di seguito. In questo caso, l’incipit fa riferimento al periodo geologico del Carbonifero, in cui i primi esseri vertebrati, abbandonata la vita nell’acqua, iniziano a popolare la terra. Riconducendo la biologia a dimensioni domestiche, il narratore racconta, apparentemente, una vicenda di scontro generazionale tra uno zio, vecchio e bisbetico, che ancora vive come pesce, e i nipoti che hanno invece guadagnato la terra.

L’evoluzione procede verso la perfezione? Questa è l’idea che ha Qfwfq, e la prima parte del racconto sembrerebbe confermarla: il vecchio zio, un avanzo del passato (rr. 59-60), è presentato come un vero e proprio mostro (r. 132) dagli occhi tondi e inespressivi come pietre (rr. 130-131) che fa pulsare le branchie ai lati dell’enorme gola (r. 131); Lll, che simboleggia il balzo evolutivo, è al contrario caratterizzata da una bellezza e da una grazia fatta di pelle liscia (r. 97), di mosse saettanti (r. 103) e di modi raffinati che le provengono dall’educazione familiare (I parenti di Lll mi davano un po’ di soggezione: erano una di quelle famiglie che per essersi stabilite a terra in epoca più antica avevano finito per convincersi di stare qui da sempre, rr. 100-102). Agli occhi di Qfwfq, Lll rappresenta in tutto e per tutto la perfezione: vedevo in lei la forma perfetta, definitiva, nata dalla conquista dei territori emersi (rr. 202-203).

In realtà, l’intero racconto è costruito in modo da deludere l’orizzonte d’attesa di Qfwfq e, con esso, quello del lettore. Le convinzioni del protagonista circa un disegno armonico del ritmo evolutivo (gli esseri devono passare dall’acqua alla terra) è incrinato proprio da Lll, che, mandando in frantumi la cristallina geometria del progresso, mostra chiaramente come l’evoluzione non presenti uno sviluppo univoco e lineare. La sua decisione di sposare il vecchio zio per tornare pesce vanifica l’illusione che la vita (e dunque anche l’umanità) percorrano un itinerario continuo verso la sicurezza e la felicità.

 >> pagina 596 

Le scelte stilistiche

Lo stile delle Cosmicomiche è conseguenza della scelta di ripetere, in chiave moderna e ironica, le grandi narrazioni dei miti delle origini. Il monologismo epico (cioè quel tipo di discorso, proprio dei testi antichi, che riconduce ogni idea, ogni concetto e ogni ragionamento a una ratio unica e indubitabile) si frantuma attraverso lo spassoso accostamento del linguaggio quotidiano a quello scientifico e la mescolanza di classificazione scientifica e percezione comune. Si ottiene così una prosa che non eccede in tecnicismi (le definizioni specialistiche – coda falcata, rr. 159 e 286, respirazione […] aerea, rr. 187-188 – quasi non risaltano sul resto del tessuto lessicale) e che anzi ricorre ironicamente alle frasi fatte della lingua parlata (Il pesce attaccò una solfa delle solite, r. 187, e Adesso Lll salta su e gli risponde per le rime!, rr. 188-189).

Escluse le parti più propriamente descrittive, il racconto è basato sull’alternarsi di momenti dialogici e di pause di riflessione condotte da Qfwfq tra sé e sé. I dialoghi sono a tratti bruschi e pungenti, soprattutto quando si tratta dei botta e risposta tra lo zio e il protagonista (Potete pulirvici quelle verruche schifose che avete addosso, con le vostre blatte puzzolenti!, rr. 32-33). La prosa si distende invece nei monologhi interiori di Qfwfq, nei quali il tono si fa più serio e viene interpretato il senso dei gesti e delle parole dei personaggi.

Verso le COMPETENZE

Comprendere

1 Che cosa si aspetta lo zio che vede arrivare i nipoti dalla terraferma?


2 Su che cosa il narratore e lo zio N’ba N’ga hanno opinioni diverse?


3 Perché Qfwfq ha timore di portare Lll a conoscere il vecchio zio? Come reagisce lei quando questo avviene?

ANALIZZARE

4 Rintraccia i passi del testo in cui le descrizioni fisiche del vecchio zio e della giovane e bella Lll appaiono, agli occhi di Qfwfq, in netta contrapposizione.


5 Nel racconto Calvino utilizza proverbi e modi di dire adattati a una realtà remota nel tempo. Individuali e spiegane il significato.

INTERPRETARE

6 Perché Lll considera Qfwfq uno a metà strada, uno che non era nel suo né in un mondo né nell’altro (r. 250)?


7 Che cosa significa la frase di Lll So che lui è uno che è uno (r. 267)?

COMPETENZE LINGUISTICHE

8 Il lessico scientifico utilizzato da Calvino nel brano proviene soprattutto da due discipline, la biologia e la geologia. Individua almeno cinque termini per ciascuna di esse.


 Lessico della biologia

Lessico della geologia


 


 


 
   
   

Produrre

9 Scrivere per esporre. A differenza che nel mondo anglosassone, in Italia gli autori di fantascienza hanno sempre incontrato molte resistenze; celebre a tal proposito è la dichiarazione dello scrittore Carlo Fruttero (1926-2012): «Un disco volante non può atterrare a Lucca». Svolgi una ricerca sulla cosiddetta SF (Science Fiction) italiana: la sua nascita e diffusione, gli scrittori principali, le collane editoriali. Elabora i risultati in un testo espositivo di circa 40 righe.

Volti e luoghi della letteratura - volume 3B
Volti e luoghi della letteratura - volume 3B
Dalla Prima guerra mondiale a oggi