Questo brano della Cognizione è il finale pirotecnico della scena in cui Gonzalo scende in cucina per mangiare. La modestia e la scarsa luminosità della stanza fanno nascere in lui il ricordo dei tempi in cui la sua era una famiglia benestante, e lo inducono a paragonare la propria misera esistenza a quella dei borghesi arricchiti che lo circondano.
T2 - I manichini ossibuchivori (La cognizione del dolore)
T2
I manichini ossibuchivori
La cognizione del dolore, II, cap. 6
Sì, sì: erano consideratissimi, i fracs. Signori serî, nei «restaurants»1 delle stazioni,
e da prender sul serio, ordinavano loro con perfetta serietà «un ossobuco con risotto».
Ed essi,2 con cenni premurosi, annuivano. E ciò nel pieno possesso delle
rispettive facoltà mentali. Tutti erano presi sul serio: e si avevano in grande considerazione
5 gli uni gli altri. Gli attavolati3 si sentivano sodali4 nella eletta situazione
delle poppe,5 nella usucapzione d’un molleggio adeguato all’importanza del loro
deretano,6 nella dignità del comando. Gli uni si compiacevano della presenza degli
altri, desiderata platea. E a nessuno veniva fatto di pensare, sogguardando il vicino,
«quanto è fesso!». Dietro l’Hymalaia7 dei formaggi, dei finocchi, il guardiasala
10 notificava le partenze: «¡Para Corrientes y Reconquista! ¡Sale a las diez el rápido de
Paraná! ¡Tercero andén!».8
[…]
Tutti, tutti: e più che mai quei signori attavolati. Tutti erano consideratissimi!
A nessuno, mai, era mai venuto in mente di sospettare che potessero anche essere
dei bischeri,9 putacaso,10 dei bambini di tre anni.
15 Nemmeno essi stessi, che pure conoscevano a fondo tutto quanto li riguardava,
le proprie unghie incarnite, e le verruche, i nèi, i calli, un per uno, le varici, i foruncoli,
i baffi solitari:11 neppure essi, no, no, avrebbero fatto di sé medesimi un simile
giudizio. E quella era la vita.
Fumavano. Subito dopo la mela. Apprestandosi a scaricare il fascino che da
20 lunga pezza12 oramai, cioè fin dall’epoca dell’ossobuco, si era andato a mano a
mano accumulando nella di loro persona – (come l’elettrico nelle macchine a strofinio)
– ecco, ecco, tutti eran certi che un loro impreveduto decreto avrebbe lasciato
scoccare sicuramente la importantissima scintilla, folgore e sparo di Signoria
su adeguato spinterogeno ambientale, di forchette in travaso.13 Cascate di posate
25 tintinnanti! Di cucchiaini!
Ed erano appunto in procinto di addivenire14 a quell’atto imprevisto, e però
curiosissimo, ch’era così instantemente15 evocato dalla tensione delle circostanze.
Estraevano, con distratta noncuranza, di tasca, il portasigarette d’argento: poi, dal
portasigarette, una sigaretta, piuttosto piena e massiccia, col bocchino di carta d’oro;
30 quella te la picchiettavano leggermente sul portasigarette, richiuso nel frattempo
dall’altra mano, con un tatràc; la mettevano ai labbri;16 e allora, come infastiditi,
mentre che una sottil ruga orizzontale si delineava sulla lor fronte, onnubilata di
cure altissime,17 riponevano il trascurabile portasigarette. Passati alla cerimonia dei
fiammiferi, ne rinvenivano finalmente, dopo aver cercato in due o tre tasche, una
35 bustina a matrice:18 ma, apertala, si constatava che n’erano già stati tutti spiccati,19
per il che, con dispitto,20 la bustina veniva immantinenti21 estromessa dai confini
dell’Io. E derelitta, ecco giaceva nel piatto, con bucce. Altra, infine, soccorreva, stanata
ultimamente dal 123° taschino. Dissigillavano il francobollo-sigillo, ubiqua
immagine del Fisco Uno e Trino,22 fino a denudare in quella pettinetta miracolosa
40 la Urmutter di tutti gli spiritelli con capocchia.23 Ne spiccavano24 una unità, strofinavano,
accendevano; spianando a serenità nuova la fronte, già così sopraccaricata
di pensiero; (ma pensiero fessissimo,25 riguardante, per lo più, articoli di bigiutteria
in celluloide26). Riponevano la non più necessaria cartina in una qualche altra
tasca: quale? oh! se ne scordano all’atto stesso; per aver motivo di rinnovare (in
45 occasione d’una contigua sigaretta) la importantissima e fruttuosa ricerca.
Dopo di che, oggetto di stupefatta ammirazione da parte degli «altri tavoli», aspiravano
la prima boccata di quel fumo d’eccezione, di Xanthia, o di Turmac;27 in una
voluttà da sibariti in trentaduesimo,28 che avrebbe fatto pena a un turco stitico.
E così rimanevano: il gomito appoggiato sul tavolino, la sigaretta fra medio
50 e indice, emanando voluttuosi ghirigori; mescolati di miasmi, questo si sa, dei
bronchi e dei polmoni felici, mentre che lo stomaco era tutto messo in giulebbe,29
e andava dietro come un disperato ameboide a mantrugiare e a peptonizzare30
l’ossobuco. La peristalsi31 veniva via con un andazzo trionfale, da parer canto e
trionfo, e presagio lontano di tamburo, la marcia trionfale dell’Aida o il toreador
55 della Carmen.
Così rimanevano. A guardare. Chi? Che cosa? Le donne? Ma neanche. Forse rimirare
se stessi nello specchio delle pupille altrui. In piena valorizzazione dei loro
polsini, e dei loro gemelli da polso. E della loro faccia di manichini ossibuchivori.32
Analisi ATTIVA
I contenuti tematici
La descrizione dei borghesi milanesi, iniziata nel romanzo qualche pagina prima, prosegue in questa scena al ristorante della stazione. Tutti sembrano consapevoli di interpretare una parte (si parla di desiderata platea, r. 8), ma Gadda ne rappresenta la seriosità (Tutti erano presi sul serio, r. 4), la piena e orgogliosa aderenza al proprio ruolo (Tutti erano consideratissimi, r. 12), senza il minimo distacco ironico né da parte dei camerieri (A nessuno, mai, era mai venuto in mente di sospettare che potessero anche essere dei bischeri, rr. 13-14), né da parte dei signori in frac (neppure essi, no, no, avrebbero fatto di sé medesimi un simile giudizio, rr. 17-18). Ne emerge il ritratto pungente di una borghesia soddisfatta e piena di sé, nel godimento di uno dei suoi riti collettivi, celebrato in un luogo (il ristorante) che fa da sfondo all’ostentazione di ricchezza, strumento e simbolo di una precisa identità sociale.
1 Suddividi il testo in sequenze e assegna un titolo a ciascuna di esse.
2 Elenca le diverse azioni compiute dai personaggi.
3 Alla r. 45 si parla di una importantissima e fruttuosa ricerca. A che cosa si riferisce l’espressione? Quale tra le seguenti figure retoriche viene utilizzata?
- a Metafora.
- b Antifrasi.
- c Anafora.
- d Iperbole.
4 Quale figura retorica riconosci nell’espressione manichini ossibuchivori (r. 58)? Qual è il suo significato?
5 Riporta le iperboli che vengono usate in questo brano. Qual è il loro scopo?
Le scelte stilistiche
Lo stile di questo brano, con le frequenti interiezioni a commentare alcuni passaggi (Sì, sì: erano consideratissimi, r. 1; neppure essi, no, no, r. 17; ecco, ecco, tutti eran certi, r. 22), ci ricorda continuamente che stiamo assistendo a una sorta di monologo interiore di Gonzalo. Questi, irato e rancoroso, non può fare a meno di indignarsi all’ennesima visione della madre in cucina, immagine di umiltà e miseria a cui si contrappongono lo sfarzo e la superbia dei borghesi arricchiti.
6 Scrivere per argomentare. Tutto il brano gioca sulla dicotomia essere/avere, valida in ogni epoca storica, anche in quella odierna. Qual è il tuo punto di vista su questo tema? Scrivi un testo argomentativo di circa 20 righe.
7 Gadda utilizza in questo estratto numerose invenzioni linguistiche. Elencane qualcuna spiegando la sua funzione espressiva.
3 Lo stile espressionistico
Il pastiche linguistico Quando ci si accosta a Gadda per la prima volta, ciò che colpisce è una certa difficoltà di lettura, sostanzialmente a causa di due fattori di ordine stilistico. Dal punto di vista sintattico, la costruzione della frase è spesso stravolta, con soggetto, predicato e complemento collocati in posizioni diverse da quelle consuete, e con la frequente presenza di incisi, digressioni, commenti. Dal punto di vista lessicale, la scrittura offre un’impressionante varietà di elementi linguistici: tecnicismi di diverse discipline (ingegneria, filosofia, matematica, medicina ecc.), arcaismi e vocaboli presi dai diversi repertori letterari del passato, inserti in lingua straniera, citazioni latine e greche, lemmi dialettali e neologismi.
Una lingua barocca per una realtà barocca La lingua di Gadda mescola aulico e comico, alternando momenti lirici a espressioni sconce e oscene: per tale contaminazione essa si inserisce all’interno della tradizione maccheronica, che annovera autori come Folengo e Rabelais, e in quella più ampia linea espressionistica che si fa risalire fino a Dante. Attraverso questo filtro linguistico Gadda intende rappresentare la realtà in modo deformato, osservandola da punti di vista molteplici e spesso contraddittori, perché la complessità del mondo si può rendere solo con pari complessità di stili e registri. Egli stesso, parlando in terza persona, scrive che la sua scrittura è la riproduzione del ridondante disordine della realtà: «Barocco è il mondo, e il Gadda ne ha percepito e ritratto la baroccaggine».
Enumerazione e onnicomprensività La forma più efficace per esprimere il caos e la molteplicità del reale è – agli occhi dello scrittore lombardo – quella dell’elenco. Egli procede infatti per accumulazione, giustapponendo nomi, aggettivi, verbi. Questo impulso alla catalogazione può talvolta risultare eccessivo e forzato, ma Gadda non intende rinunciare mai all’obiettivo di cogliere “enciclopedicamente” la totalità degli aspetti, convinto che la comprensione delle cose possa avvenire solo all’interno di una sintesi ideale di tutto il sapere. La sua scrittura tende in tal modo a procedere dall’enumerazione all’onnicomprensività o, per usare i termini del critico Gian Carlo Roscioni, dal singula enumerare (enumerare i singoli elementi uno per uno) all’omnia circumspicere (abbracciare tutte le cose con lo sguardo): la smania di registrare e inventariare i segni, anche minimi, del mondo significa impossessarsene linguisticamente, accatastando tutte le possibili forme nelle quali esso si manifesta. In questo contesto, assume un significato profondo la propensione ai dettagli, alle digressioni, alle note, a tutto ciò che a una prima lettura appare come secondario e poco rilevante.
Al contrario, l’attenzione ossessiva per il particolare significa per Gadda cercare di sbrogliare un groviglio di relazioni, di contatti, di somiglianze, nella convinzione che un qualsiasi fatto non sia conoscibile nella sua interezza se non dopo averlo scomposto negli elementi che lo costituiscono e averlo messo in rapporto con altri fatti, altri contesti, altre realtà.
T3
L’incendio di via Keplero
Accoppiamenti giudiziosi
Uscito per la prima volta nel 1940 sulla rivista “Il Tesoretto”, ma scritto tra il 1930 e il 1935, questo racconto – di cui riportiamo una parte – offre il primo esempio, dal punto di vista cronologico, della straordinaria creatività linguistica gaddiana.
Se ne raccontavano di cotte e di crude sul fuoco del numero 14. Ma la verità è che
neppur Sua Eccellenza Filippo Tommaso Marinetti avrebbe potuto simultanare1 quel
che accadde, in tre minuti, dentro la ululante topaia, come subito invece gli riuscì fatto
al fuoco: che ne disprigionò fuori a un tratto tutte le donne che ci abitavano seminude
5 nel ferragosto e la lor prole globale,2 fuor dal tanfo e dallo spavento repentino
della casa, poi diversi maschi, poi alcune signore povere e al dir d’ognuno alquanto
malandate in gamba,3 che apparvero ossute e bianche e spettinate, in sottane bianche
di pizzo, anzi che nere e composte come al solito verso la chiesa, poi alcuni signori
un po’ rattoppati pure loro, poi Anacarsi Rotunno, il poeta italo-americano, poi la
10 domestica del garibaldino agonizzante del quinto piano, poi l’Achille con la bambina
e il pappagallo, poi il Balossi in mutande con in braccio la Carpioni, anzi mi
sbaglio, la Maldifassi, che pareva che il diavolo fosse dietro a spennarla, da tanto che
la strillava anche lei. Poi, finalmente, fra persistenti urla, angosce, lacrime, bambini,
gridi e strazianti richiami e atterraggi di fortuna e fagotti di roba buttati a salvazione4
15 giù dalle finestre, quando già si sentivano arrivare i pompieri a tutta carriera5 e due
autocarri si vuotavano già d’un tre dozzine di guardie municipali in tenuta bianca, ed
era in arrivo anche l’autolettiga della Croce Verde, allora, infine, dalle due finestre a
destra del terzo, e poco dopo del quarto, il fuoco non poté a meno di liberare anche
le sue proprie spaventose faville, tanto attese!, e lingue, a tratti subitanei,6 serpigne7 e
20 rosse, celerissime nel manifestarsi e svanire, con tortiglioni neri di fumo, questo però
pecioso e crasso8 come d’un arrosto infernale, e libidinoso9 solo di morularsi10 a globi
e riglobi o intrefolarsi11 come un pitone nero su di se stesso, uscito dal profondo e
dal sottoterra tra sinistri barbagli;12 e farfalloni ardenti, così parvero, forse carta o più
probabilmente stoffa o pegamoide13 bruciata, che andarono a svolazzare per tutto il
25 cielo insudiciato da quel fumo, nel nuovo terrore delle scarmigliate,14 alcune a piè
nudi nella polvere della strada incompiuta, altre in ciabatte senza badare alla piscia
e alle polpette15 di cavallo, fra gli stridi e i pianti dei loro mille nati. Sentivano già la
testa, e i capegli, vanamente ondulati,16 avvampare in un’orrida, vivente face.17
Urlarono le sirene dalle ciminiere o dagli stabilimenti vicini verso il cielo torrefatto:18
30 e la trama criptosimbolica delle cose elettriche perfezionò gli appelli disperati
dell’angoscia.19 Dalle stazioni lontane, spalancatesi, le batterie20 delle autopompe
fuoruscirono in corsa, impulsi pronti e celeri a sovvenire a ogni sùbito male delle
fiamme,21 nel mentre l’ultimo pompiere del quinto drappello, spiccato un salto, gli
riuscì d’abbrancare con la sinistra l’ultimo ferro del reggiscala dell’autoscala di coda
35 già in voltata fuori dal portone, e viceversa con la destra si finiva ancora d’abbottonare
la bottoniera della giacca di servizio.
La sonnolenza impomatata22 dei guidatori d’automobili che falciano via con il
parafango i ginocchi de’ claudicanti vecchi alle svolte23 e, svaccati dentro macchina,
ma saette pazze di fuori,24 stracciano via i cantoni ai più garibaldofrusti25 marciapiedi
40 della metropoli, ecco sonerie elettriche premonitrici li bloccarono improvvisamente
ai cantoni, poi, subito, l’avvento delle trasvolanti sirene. Inchiodati i
tram, i cavalli trattenuti al morso dal cavallaro, disceso di serpa:26 i cavalli col carro
contro il culo, l’occhio, all’angolo, imbiancato da un ignoto motivo di terrore. […]
«L’incendio», dissero poi tutti, «è una delle cose più terribili che sia». Ed è vero: fra
45 la generosità e la perplessità de’ pompieri d’oro:27 fra cataratte28 d’acqua potabile sopra
le ottomane pisciose e verdi,29 ma stavolta minacciate da un ben brutto rosso, e,
sopra i cifoni30 e i credenzoni, custodi magari d’un mezz’etto di gorgonzola sudato,31
ma leccati già dalla fiamma come il capriolo dal pitone: con zampilli, spilli liquidi,
dai serpi inturgiditi32 e fradici dei tubi di canapa, e lunghe, lancinanti zagaglie33 dagli
50 idranti d’ottone, che finiscono in bianche zazzere34 e nube nel cielo dell’agosto
torrido: e isolatori di porcellana semiusti35 cader giù a pezzi a frantumarsi del tutto
contro il marciapiede patatràf!: e fili di telefoni bruciati che svolavano via nella sera
dalle lor mensole fatte roventi, con penisole nere e volanti di cartone e mongolfiere
di tappezzeria carbonizzata, e giù, tra i piedi degli uomini, e dietro le scale mobili,
55 anse e rigiri e impennate di tubi che sprizzano zampilli parabolici da tutte le parti
nella mota36 della strada, vetri in briciole in un pantano d’acque e di melma, pitali37
di ferro smaltato ripieni di carote buttati giù di finestra, ancora adesso!, contro gli
stivaloni dei salvatori, i gambali dei genieri,38 dei carabinieri, degli ingegneri comandanti
dei pompieri: e il protervo e indefesso39 cicciàc, e cicìc e ciciàc, delle ciabatte
60 femminine a raccoglier pezzi di pettine, o schegge di specchio, e immagini benedette
di San Vincenzo de’ Liguori40 dentro lo sguazzo di quella catastrofica lavanderia.41
Dentro il TESTO
I contenuti tematici
L’incipit cala il lettore in una sorta di aura mitica: Se ne raccontavano di cotte e di crude (r. 1). Subito dopo il richiamo ironico alle tecniche futuriste, incapaci di descrivere il fulmineo precipitare degli eventi, si entra direttamente e bruscamente nell’azione. Lo sconvolgimento provocato dall’improvviso incendio viene reso con la fuga caotica e terrorizzata dall’ululante topaia (r. 3) da parte degli inquilini, presentati genericamente o esplicitamente (nome e/o cognome), per dare il senso del simultaneo accavallarsi delle persone spinte all’esterno e in qualche modo rese simili dall’infuriare del fuoco.
Sul finire della prima parte antologizzata entrano in scena i pompieri, che – anch’essi frettolosamente – si dirigono verso il luogo del disastro. La loro azione viene poi riportata nella seconda parte, nella quale si descrivono la lotta dell’acqua contro il fuoco e il palazzo avvolto dal fumo e immerso in una enorme pozza di fango.
All’interno di questa rappresentazione frenetica non mancano gli attacchi comici al perbenismo borghese e alle sue ipocrisie: la prole globale (r. 5), che sta sottilmente a indicare i figli legittimi e illegittimi; le signore che, normalmente ben vestite e ordinate nell’atto di dirigersi in chiesa, vengono raffigurate in frivole sottane bianche di pizzo (r. 8); il riferimento alla pegamoide (r. 25), sorta di succedaneo più economico del cuoio (fatto di una sostanza a base di celluloide); l’elemento scatologico degli escrementi di cavallo; l’accenno fugace ai capelli che sono vanamente ondulati (r. 29), vanamente sia perché segno di civetteria femminile, sia perché ormai l’acconciatura è rovinata dalla fretta e dalla paura; l’accorrere protervo e indefesso (r. 60) per cercare di salvare da quella catastrofe oggetti che mescolano il profano (la vanità di pettini e di specchi) al sacro (l’immagine votiva del santo).
Le scelte stilistiche
L’aspetto più interessante del racconto non sta però nello sviluppo della trama, di per sé molto semplice, bensì nello stile utilizzato dall’autore. Già dalle prime righe si possono cogliere appieno alcuni degli aspetti caratteristici dell’espressionismo gaddiano: la frenesia e la confusione sono rese da una inesauribile elencazione di persone, cose, azioni, con una tecnica paratattica che accosta elementi diversi in lunghissime sequenze, da leggersi tutte d’un fiato. Il periodo che va da che ne disprigionò fuori (r. 4) a la strillava anche lei (r. 13) si interrompe per un breve attimo con il punto fermo, per riprendere subito in un altro lunghissimo elenco, da Poi, finalmente, fra persistenti urla (rr. 13-14) fino a i pianti dei loro mille nati (r. 28); lo stesso procedimento si trova anche in seguito. Se nella prima sequenza la tecnica dell’accumulo si basa sull’uso dell’avverbio poi, nella seconda viene utilizzata la congiunzione e. La differenza è sottile, ma in grado di rendere nel primo caso l’impressione di una velocissima catena di azioni, nel secondo la contemporaneità di un confuso e ingarbugliato quadro d’insieme: tutta la seconda parte del brano è infatti racchiusa in un periodo lungo e articolato, da Ed è vero (r. 45) a catastrofica lavanderia (r. 62), interrotto solo da virgole e due punti.
La punteggiatura è, come sempre accade in Gadda, usata senza risparmio, a volte sovvertendo le regole. Peculiare della sua scrittura è per esempio l’uso dei due punti, allo scopo non solo di introdurre un elenco, ma anche di segnare una pausa nel lungo periodo, assumendo così il valore della virgola o del punto e virgola (come si vede dalla r. 45 alla r. 60).
Di rilievo sono anche gli elementi linguistici più tipici del pastiche, come il frequente ricorso a vocaboli fuori dal comune. Gadda non disdegna né il prestito di termini tecnici da altre discipline (il morularsi, r. 22, che deriva dalla genetica), né la variante aulica di alcuni vocaboli (intrefolarsi per “avvolgersi”, r. 22; capegli per “capelli”, r. 28; semi-usti per “bruciacchiati”, r. 52), né ancora il ricorso a dialettismi (cifoni per “comodini”, r. 48), neologismi e invenzioni linguistiche: il simultanare ironico verso i Futuristi (r. 2), il malandate in gamba (r. 7) che richiama la locuzione “essere (male) in gamba”, i riglobi (r. 22) come ripetizione di globi, i marciapiedi garibaldofrusti (r. 40).
Non meno ricca è la presenza di figure retoriche, dalle metafore (le lingue di fuoco che sono serpigne, r. 20), alle similitudini (il fumo che si attorciglia come un pitone nero su di se stesso, r. 23), alle iperboli (i pianti dei mille nati, r. 28), alle onomatopee che rendono la dimensione auditiva del brano: il patatràf! (r. 53) che riproduce il rumore degli isolatori di porcellana caduti a terra, e il cic-ciàc, e cicìc e ciciàc (r. 60) che descrive il ciabattare delle donne. A volte ne viene utilizzata più d’una nello stesso sintagma: ululante topaia (r. 3), per esempio, ha sia aspetti metonimici (a ululare non è il palazzo, ovviamente, ma chi vi abita) che metaforici (gli inquilini vengono assimilati a tanti topi che fuggono dalla propria tana), rendendo efficacemente, a livello uditivo e visivo, la concitazione di quegli attimi.
Verso le COMPETENZE
Comprendere
1 In quante scene è suddiviso il brano? Prova a riassumerle brevemente e dai a ciascuna un titolo.
Analizzare
2 Le sequenze di questo brano hanno come protagonisti prima il fuoco e poi l’acqua. Evidenzia le frasi in cui ci si riferisce all’uno e all’altra.
3 Riporta nella tabella i termini che ritieni più significativi per ogni registro linguistico.
Registro basso |
Registro medio |
Registro alto |
4 Nel brano sono presenti diverse parole composte. Rintracciale e spiegane la funzione espressiva.
Interpretare
5 Perché l’autore esordisce citando il futurista Filippo Tommaso Marinetti (r. 2)?
6 A quale scopo, secondo la tua opinione, Gadda si sofferma sull’ultimo pompiere del quinto drappello (r. 33)?
COMPETENZE LINGUISTICHE
7 Dei seguenti neologismi gaddiani, prima individua l’origine, poi prova a darne una definizione, come se fossero dei lemmi di dizionario.
simultanare • morularsi • intrefolarsi • trasvolante
Produrre
8 Scrivere per raccontare. Sull’esempio di Gadda prova a creare 10 neologismi relativi alla vita a scuola. Danne la definizione e spiegane brevemente l’origine.
T4
Il commissario Ingravallo
Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Cap. 1
Riportiamo le prime pagine del romanzo, nelle quali viene introdotto il protagonista.
Tutti oramai lo chiamavano don Ciccio. Era il dottor Francesco Ingravallo comandato
alla mobile:1 uno dei più giovani e, non si sa perché, invidiati funzionari della sezione
investigativa: ubiquo ai casi,2 onnipresente su gli affari tenebrosi. Di statura media, piuttosto
rotondo della persona, o forse un po’ tozzo, di capelli neri e folti e cresputi che gli
5 venivan fuori dalla metà della fronte quasi a riparargli i due bernoccoli metafisici3 dal
bel sole d’Italia, aveva un’aria un po’ assonnata, un’andatura greve e dinoccolata, un fare
un po’ tonto come di persona che combatte con una laboriosa digestione: vestito come
il magro onorario statale4 gli permetteva di vestirsi, e con una o due macchioline d’olio
sul bavero, quasi impercettibili però, quasi un ricordo della collina molisana. Una certa
10 praticaccia del mondo, del nostro mondo detto latino, benché giovine (trentacinquenne),
doveva di certo avercela: una certa conoscenza degli uomini: e anche delle donne.
La sua padrona di casa lo venerava, a non dire adorava: in ragione di e nonostante
quell’arruffio strano d’ogni trillo e d’ogni busta gialla imprevista,5 e di chiamate notturne
e d’ore senza pace, che formavano il tormentato contesto del di lui tempo. «Non
15 ha orario, non ha orario! Ieri mi è tornato che faceva giorno!». Era, per lei, lo statale6
distintissimo lungamente sognato, preceduto da cinque A sulla inserzione del Messaggero,7
evocato, pompato fuori8 dall’assortimento infinito degli statali con quell’esca della
«bella assolata affittasi»9 e non ostante la perentoria intimazione in chiusura: «Escluse
donne»: che nel gergo delle inserzioni del Messaggero offre, com’è noto, una duplice
20 possibilità d’interpretazione.10 E poi era riuscito a far chiudere un occhio alla questura
su quella ridicola storia dell’ammenda… sì della multa per la mancata richiesta della
licenza di locazione… che se la dividevano a metà, la multa, tra governatorato11 e questura.
«Una signora come me! Vedova del commendatore Antonini! Che si può dire
che tutta Roma lo conosceva: e quanti lo conoscevano, lo portavano tutti in parma de
25 mano,12 non dico perché fosse mio marito, bon’anima! E mo me prendono per un’affittacamere!
Io affittacamere? Madonna santa, piuttosto me butto a fiume».
Nella sua saggezza e nella sua povertà molisana, il dottor Ingravallo, che pareva
vivere di silenzio e di sonno sotto la giungla nera di quella parrucca, lucida come pece
e riccioluta come d’agnello d’Astrakan,13 nella sua saggezza interrompeva talora codesto
30 sonno e silenzio per enunciare qualche teoretica14 idea (idea generale s’intende)
sui casi degli uomini: e delle donne. A prima vista, cioè al primo udirle, sembravano
banalità. Non erano banalità. Così quei rapidi enunciati, che facevano sulla sua bocca
il crepitio improvviso d’uno zolfanello15 illuminatore, rivivevano poi nei timpani della
gente a distanza di ore, o di mesi, dalla enunciazione: come dopo un misterioso tempo
35 incubatorio. «Già!» riconosceva l’interessato: «il dottor Ingravallo me l’aveva pur detto».
Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate16 catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto
che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un
vortice, un punto di depressione ciclonica17 nella coscienza del mondo, verso cui hanno
cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti.18 Diceva anche nodo o groviglio,
40 o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo. Ma il termine giuridico
«le causali, la causale» gli sfuggiva preferentemente19 di bocca: quasi contro sua voglia.
L’opinione che bisognasse «riformare in noi il senso della categoria di causa» quale avevamo
dai filosofi,20 da Aristotele o da Emmanuele Kant, e sostituire alla causa le cause
era in lui una opinione centrale e persistente: una fissazione, quasi: che gli evaporava21
45 dalle labbra carnose, ma piuttosto bianche, dove un mozzicone di sigaretta spenta pareva,
pencolando22 da un angolo, accompagnare la sonnolenza dello sguardo e il quasi-ghigno,
tra amaro e scettico, a cui per «vecchia» abitudine soleva atteggiare la metà inferiore
della faccia, sotto quel sonno della fronte e delle palpebre e quel nero pìceo23 della
parrucca. Così, proprio così, avveniva dei «suoi» delitti. «Quanno me chiammeno!…24
50 già. Si me chiammeno a me… può sta ssicure ch’è nu guaio: quacche gliuommero… de
sberretà…»25 diceva, contaminando napolitano, molisano, e italiano.
La causale apparente, la causale principe,26 era sì, una. Ma il fattaccio era l’effetto
di tutta una rosa di causali che gli eran soffiate addosso a molinello27 (come i sedici venti
della rosa dei venti quando s’avviluppano a tromba28 in una depressione ciclonica) e
55 avevano finito per strizzare nel vortice del delitto la debilitata «ragione del mondo».29
Come si storce il collo a un pollo. E poi soleva dire, ma questo un po’ stancamente,
«ch’i femmene se retroveno addò n’i vuò truvà».30 Una tarda riedizione italica del vieto
«cherchez la femme».31 E poi pareva pentirsi, come d’aver calunniato ’e femmene, e voler
mutare idea. Ma allora si sarebbe andati nel difficile. Sicché taceva pensieroso, come
60 temendo d’aver detto troppo. Voleva significare32 che un certo movente affettivo, un
tanto o, direste oggi, un quanto33 di affettività,34 un certo «quanto di erotia»,35 si mescolava
anche ai «casi d’interesse»,36 ai delitti apparentemente più lontani dalle tempeste
d’amore. Qualche collega un tantino invidioso delle sue trovate, qualche prete più
edotto37 dei molti danni del secolo, alcuni subalterni, certi uscieri, i superiori, sostenevano
65 che leggesse dei libri strani: da cui cavava38 tutte quelle parole che non vogliono
dir nulla, o quasi nulla, ma servono come non altre ad accileccare39 gli sprovveduti, gli
ignari. Erano questioni un po’ da manicomio: una terminologia da medici dei matti.40
Per la pratica ci vuol altro! I fumi e le filosoficherie41 son da lasciare ai trattatisti: la pratica
dei commissariati e della squadra mobile è tutt’un altro affare: ci vuole della gran
70 pazienza, della gran carità: uno stomaco pur anche a posto: e, quando non traballi
tutta la baracca dei taliani,42 senso di responsabilità e decisione sicura, moderazione
civile; già: già: e polso fermo. Di queste obiezioni così giuste lui, don Ciccio, non se ne
dava per inteso:43 seguitava a dormire in piedi, a filosofare a stomaco vuoto, e a fingere
di fumare la sua mezza sigheretta,44 regolarmente spenta.
Dentro il TESTO
I contenuti tematici
Il Pasticciaccio si apre in modo piuttosto tradizionale, descrivendo il protagonista innanzitutto dal punto di vista esteriore, un po’ come accade nei romanzi dell’Ottocento. Veniamo a conoscenza del suo lavoro, del suo aspetto fisico, del modo in cui si presenta (l’aria assonnata, l’andatura stanca), della condizione economica (vestito in maniera dignitosa ma poveramente, abita a pensione e dunque non ha una casa sua), del suo luogo d’origine, dell’età. Lo osserviamo poi da un punto di vista particolare, quello della padrona di casa, che ne esalta il ruolo (lo statale distintissimo, rr. 16-17) e la solerzia sul lavoro (spesso torna a casa tardi).
Dal secondo capoverso, lo sguardo si sposta dall’esterno all’interno, e apprendiamo qualcosa di più sul modo di pensare di Ingravallo. In particolare, viene enucleato in queste prime pagine un concetto cardine della sua visione del mondo: alla base del suo pensiero (e, di conseguenza, della sua metodologia operativa) sta la convinzione che i fatti non sono mai la conseguenza di una sola causa, ma sono il risultato di più cause, che rendono ogni evento un garbuglio (r. 42) intricato.
La teoria del commissario corrisponde alla filosofia dell’autore, secondo il quale la realtà è un insieme caotico o una trama indissolubile di fili: le causali convergenti (r. 41) di Ingravallo, destinate a sfociare negli imprevedibili accidenti dell’esistenza, simboleggiano il «pasticciaccio» di un assurdo mondo moderno, in cui l’impresa di giungere a forme stabili di conoscenza risulta impossibile.
Nell’ultimo capoverso si passa alla percezione che del commissario hanno gli altri, il coro di colleghi, preti e uscieri che – tutti insieme – lo considerano astratto, inconcludente, privo del necessario pragmatismo: quanto dice don Ciccio è frutto di strambe filosoficherie (r. 72), che poco hanno a che fare con la pratica dei commissariati (r. 73), la quale esigerebbe sicurezza e determinazione, mentre lui dà l’idea di essere irresoluto e sbadato (ha un’aria un po’ assonnata, r. 6, un fare un po’ tonto, r. 7, un quasi-ghigno, tra amaro e scettico, r. 49). Questo coro rappresenta il senso comune, che non sa o non vuole andare oltre l’apparenza delle cose, che si ferma alle grandezze visibili: si possono cogliere in esso quei tratti di faciloneria e pressapochismo che Gadda rinfacciava agli esponenti del fascismo. Il riferimento alla sconquassata baracca dei taliani (r. 75), in opposizione alla declamata moderazione civile (r. 76) e al polso fermo (r. 76), lascia già trapelare l’insofferenza di Ingravallo (e di Gadda) verso il regime, un’insofferenza che nelle pagine successive si trasformerà in rabbiosa violenza.
Le scelte stilistiche
L’impressione suggerita dalle prime righe del brano che la descrizione sia affidata dall’autore a una voce onnisciente, sia pure lievemente ironica, secondo una modalità tipicamente manzoniana, è destinata presto a cadere. La frequenza dei sintagmi dubitativi testimonia il venir meno di ogni sua certezza e l’affacciarsi di ipotesi e opinioni ambigue: non si sa perché (r. 2), o forse un po’ tozzo (r. 4), una o due macchioline d’olio (r. 9). Chi narra, insomma, non solo testimonia l’incrinarsi di ogni visione oggettiva della realtà, ma anche mostra di conoscere in modo parziale il protagonista, oscillando tra la bonaria canzonatura (come appare nelle righe iniziali del brano), la descrizione pittoresca (per esempio, i capelli vengono paragonati a una giungla, a una parrucca e a una pelliccia di Astrakan, rr. 30-31) e la complice simpatia (A prima vista, cioè al primo udirle, sembravano banalità. Non erano banalità, rr. 33-34).
D’altra parte, il narratore non è uno solo. Il gioco intricato delle focalizzazioni interne presenta infatti punti di vista diversi mediante il ricorso al discorso diretto, indiretto e indiretto libero. In tal modo le impressioni o le idee di alcuni personaggi si innestano sulla voce narrante principale, senza che lo scrittore ricorra necessariamente a una punteggiatura che indichi in modo chiaro e netto la separazione tra narratore e parlanti: l’effetto che ne deriva è una straordinaria polifonia, che registra fedelmente il contorto gomitolo di fatti, pensieri e sentimenti che costituisce la realtà quotidiana.
Anche dal punto di vista stilistico, il romanzo offre un’iniziale “normalità” formale, appena complicata da qualche latinismo (ubiquo ai casi, r. 3) o arcaismo (la separazione della preposizione sugli in su gli (r. 2), l’apocope del verbo venivano in venivan (r. 5), la forma giovine (r. 11) invece di giovane). Questa prassi tuttavia cede gradualmente il posto a una delle peculiarità del Pasticciaccio, ovvero il ricorso al dialetto. Con la vedova Antonini entra in scena il romanesco, mescolato con l’italiano senza soluzione di continuità; con Ingravallo, Gadda introduce il campano e il molisano.
Ad arricchire ulteriormente il pastiche linguistico contribuisce poi l’utilizzo di termini appartenenti a registri diversi e soprattutto ad ambiti e linguaggi specifici: vocaboli colti (teoretica, r. 32), espressioni rare o ricercate (cresputi, r. 5; tempo incubatorio, r. 37; inopinate catastrofi, r. 38), neologismi (erotia, r. 65) sono affiancati a termini filosofici, medici, scientifici (abbondano le metafore meteorologiche), giuridici, in una commistione barocca che riflette degnamente il teatro del mondo.
Verso le COMPETENZE
Comprendere
1 Riassumi quanto Ingravallo sostiene circa il rapporto tra causa ed effetto.
2 Descrivi il carattere di Ingravallo, aiutandoti con espressioni prese direttamente dal testo.
3 Perché viene usata l’immagine della depressione ciclonica (r. 38 e rr. 53-54)?
Analizzare
4 Rintraccia termini ed espressioni che fanno riferimento all’idea di groviglio e suddividile in base al linguaggio utilizzato nelle seguenti categorie: italiano standard; dialetto; linguaggi specialistici.
5 Identifica e trascrivi i sintagmi che rendono la narrazione dubitativa e non onnisciente.
Interpretare
6 Perché Ingravallo dice che i femmene se retroveno addò n’i vuò truvà (r. 57)? A che cosa si riferisce? Contestualizza l’affermazione all’interno del brano.
COMPETENZE LINGUISTICHE
7 Il pastiche linguistico gaddiano è ricco non solo di termini provenienti da diversi gerghi, registri e parlate locali, ma anche di effetti fonici (allitterazioni, rime, paronomasie…). Rintracciane almeno cinque nel brano che hai letto.
Produrre
8 Scrivere per raccontare. Immagina Ingravallo commissario ai giorni nostri: adatta il carattere, l’aspetto fisico, il modo di pensare del personaggio al contesto della società attuale. Scrivi un testo narrativo di circa 20 righe.
I grandi temi di Gadda |
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1 Il groviglio psicanalitico |
• la scrittura come esigenza conoscitiva • il «male oscuro» e il tormento della mancanza di affetto genitoriale • il rimorso e il senso di colpa trasferiti nella scrittura autobiografica • l’inquietudine per l’incertezza del presente |
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2 La polemica antiborghese |
• la feroce critica contro la borghesia milanese del primo dopoguerra • l’irrisione dei valori di una classe sociale ipocrita e perbenista |
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3 Lo stile espressionistico |
• lo stravolgimento lessicale e sintattico • gli inserti in lingua straniera • la creazione di parole nuove • l’iperbole • l’elencazione e la combinazione dei termini • la lingua come specchio di una realtà indecifrabile |
Volti e luoghi della letteratura - volume 3B
Dalla Prima guerra mondiale a oggi