T2 - Una famiglia disperata (La malora)

T2

Una famiglia disperata

La malora

Nella Malora Fenoglio racconta la condizione di estrema povertà dei contadini delle Langhe e i drammi legati a questa terribile miseria. A rievocare le vicende è Agostino Braida, un ragazzo costretto dalle difficoltà economiche a prestare servizio presso un’altra famiglia. Riportiamo le pagine iniziali dell’opera.

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Audiolettura

Pioveva su tutte le langhe,1 lassù a San Benedetto2 mio padre si pigliava la sua prima

acqua sottoterra.

Era mancato nella notte di giovedì l’altro e lo seppellimmo domenica, tra le

due messe. Fortuna che il mio padrone m’aveva anticipato tre marenghi,3 altrimenti

5      in tutta casa nostra non c’era di che pagare i preti e la cassa e il pranzo ai parenti.

La pietra4 gliel’avremmo messa più avanti, quando avessimo potuto tirare un po’

su testa.5

Io ero ripartito la mattina di mercoledì, mia madre voleva mettermi nel fagotto

la mia parte dei vestiti di nostro padre, ma io le dissi di schivarmeli,6 che li avrei

10    presi alla prima licenza che mi ridava Tobia.7

Ebbene, mentre facevo la mia strada a piedi, ero calmo, sfogato,8 mio fratello

Emilio che studiava da prete sarebbe stato tranquillo e contento se m’avesse saputo

così rassegnato dentro di me. Ma il momento che dall’alto di Benevello9 vidi sulla

langa bassa la cascina di Tobia la rassegnazione mi scappò tutta. Avevo appena

15    sotterrato mio padre e già andavo a ripigliare in tutto e per tutto la mia vita grama,

neanche la morte di mio padre valeva a cambiarmi il destino. E allora potevo tagliare

a destra, arrivare a Belbo e cercarvi un gorgo profondo abbastanza.

Invece tirai dritto, perché m’era subito venuta in mente mia madre che non ha

mai avuto nessuna fortuna, e mio fratello che se ne tornava in seminario con una

20    condanna come la mia.

Mi fermai all’osteria di Manera,10 non tanto per riposarmi che per non arrivare

al Pavaglione ancora in tempo per vedermi dar del lavoro; perché avrei fatto qualche

gesto dei più brutti.

Tobia e i suoi mi trattarono come un malato, ma solo per un giorno, l’indomani

25    Tobia mi rimise sotto e arrivato a scuro11 mi sembrava di non aver mai lavorata

una giornata come quella. Mi fece bene. Un po’ come fa bene, quando hai lavorato

tutta notte nella guazza12 a incovonare,13 non andartene a dormire ma invece rimetterti

a tagliare14 al rosso del sole.15

Come la mia famiglia sia scesa alla mira16 di mandare un figlio, me, a servire

30    lontano da casa, è un fatto che forse io sono ancora troppo giovane per capirlo

da me solo. I nostri padre e madre ci spiegavano i loro affari non più di quanto

ci avrebbero spiegato il modo che ci avevan fatti nascere: senza mai una parola ci

misero davanti il lavoro, il mangiare, i quattro soldi della domenica e infine, per

me, l’andare da servitore.

35    Non eravamo gli ultimi della nostra parentela e se la facevano tutti abbastanza

bene: chi aveva la censa,17 chi il macello gentile,18 chi un bel pezzo di terra propria.

L’abbiamo poi visto alla sepoltura di nostro padre, arrivarono ciascuno con la bestia,19

e non uno a piedi da poveretto.

Dovevamo sentirci piuttosto forti se, quando io ero sugli otto anni, i miei tirarono

40    il colpo20 alla censa di San Benedetto. La presero invece i Canonica, coi soldi

che s’erano fatti imprestare da Norina della posta. Nostro padre aveva troppa paura

di far debiti, allora.

Adesso mi è chiaro che nostro padre aveva già staccata la mente dal lavorare

la terra e si vedeva già a battere con carro e cavallo i mercati d’Alba e di Ceva per

45    il fabbisogno della sua censa, e quando dovette invece richinarsi alla terra, aveva

perso molto di voglia e di costanza. Noialtri ragazzi lavoravamo sempre come prima,

anche se lui ci comandava e ci accudiva meno, ma a mezzogiorno e a cena ci

trovavamo davanti sempre più poca polenta e quasi più niente robiola.21 E a Natale

non vedemmo più i fichi secchi e tanto meno i mandarini.22

50    Nostra madre raddoppiò la sua lavorazione di formaggio fermentato, ma non

ce ne lasciava toccare neanche le briciole sull’orlo della conca.23 E quando seppe

che a Niella ne pagavano l’arbarella24 un soldo di più che al nostro paese, andò a

venderlo a Niella, e saputo poi che a Murazzano25 lo pagavano qualcosa meglio, si

faceva due colline per andarlo a vendere lassù. Dimodoché diventò in fretta come

55    la sorella maggiore di nostro padre, sempre col cuore in bocca,26 gli occhi o troppo

lustri o troppo smorti,27 mai giusti, in faccia tutta bianca con delle macchie rosse,

come se a ogni momento fosse appena arrivata dall’aver fatto di corsa l’erta28 da

Belbo a casa. Quando noi eravamo via, lei pregava e si parlava ad alta voce: una

volta che tornai un momento dalla terra, la presi che cagliava il latte e si diceva:

60    «Avessi adesso quella figlia!». Diceva di nostra sorella, nata dopo Stefano e morta

prima che nascessi io, d’un male nella testa. Si chiamava Giulia come nostra nonna

di Monesiglio, e a Stefano non so, ma a me e a Emilio non ci mancava. Però anche

allora io non sono mai passato davanti al camposanto guardando da un’altra parte,

come un padrone che passa davanti alla sua terra.29

65    Ci andava male: lo diceva la misura del mangiare e il risparmio che facevamo

della legna, tanto che tutte le volte che vedevo nostra madre tirar fuori dei soldi e

contarli sulla mano per spenderli, io tremavo, tremavo veramente, come se m’aspettassi

di veder cascare la volta dopo che le è stata tolta una pietra. Finì che nelle

sere d’autunno e d’inverno mandavamo Emilio alla cascina più prossima a farsi

70    accendere il lume, per avanzare lo zolfino.30 Io ci andai una volta sola, una sera che

Emilio aveva la febbre, e quelli del Monastero31 m’accesero il lume, ma la vecchia

mi disse: «Va’, e di’ ai tuoi che un’altra volta veniamo noi da voi col lume spento, e

lo zolfino dovrete mettercelo voi».

Nostro padre vendette mezza la riva da legna e anche quel prato che avevamo

75    lungo Belbo, ma il denaro di quelle vendite non ci fece pro,32 andò quasi tutto a

pagare le taglie33 e a far star bravi i Canonica che non ci togliessero il credito alla

censa. È allora che i nostri s’indebitarono con la vecchia maestra Fresia di quelle

cento lire che hanno poi scritto il destino di mio fratello Emilio.34

Per chiedere la grazia di poter tirar su testa, un anno nostra madre andò pellegrina

80    al santuario della Madonna del Deserto, che è lontano da noi, sopra un

monte dietro il quale si può dire che c’è subito il mare. Mi ricordo come adesso.

Era un po’ che noi, alzata la schiena, guardavamo la processione delle donne sulla

strada di Mombarcaro,35 quando esce di casa nostra madre, vestita da chiesa, e

con un fagottino di roba mangiativa.36 Nostro padre le uscì appresso e le gridava:

85    «Vecchia bagascia, non mi vai mica via con quello stroppo di pelandracce37?». Lei si

voltò, ma senza fermarsi e solo per guardarlo negli occhi. E lui sempre dietro, con

un principio di corsa come per assicurarsi d’acchiapparla. E nel mentre le diceva:

«Mi torni indietro fra chissà quanti giorni, con tutti i piedi gonfi e tutto il corpo

stracco che per una settimana non mi puoi più servire». Allora lei si fermò e gli

90    disse: «Lasciami andare, Braida.38 Sono sette anni che non esco da questa casa.

Lasciami andare, che è per la mia anima».

«L’anima vola!» le gridò lui in faccia, ma poi le disse: «Donna con del buon

tempo.39 Hai almeno lasciato preparato?».

Poté partire, e dopo un po’ la vedemmo mischiarsi alla processione. Aveva un

95    buon passo e presto fu tra le prime, e non solo dal passo si vedeva che aveva buona

intenzione, ma anche perché non si voltava e non cercava compagne, mentre tutte

le altre andavano come per divertimento. Tornò di notte, dopo quattro giorni, e la

mattina si levò alla sua ora di sempre e fece il suo lavoro di tutti i giorni. Ma non

giovò, Dio non fu mai con noi.

100 Poi il re chiamò Stefano a soldato, andò alla leva e tirò un numero basso.40

Nostro padre bestemmiò, nostra madre pianse, ma Stefano lui era contento: lo

sentii quella sera, che io ero in pastura41 vicino a dove lui tutto nudo si lavava in

Belbo, gridare d’allegria, ma dei gridi selvaggi che misero paura a me e alle pecore.

Basta, stette a casa ancora due mesi, se ne andava al sabato coi suoi soci coscritti

105 a fare il giro delle osterie della nostra langa e tornava solo nella notte del lunedì,

ubriaco che dovevamo sbatterlo nella stalla. E poi partì, una notte che noialtri due

non fummo neanche svegliati.

Ci scriveva, e leggevamo che era in artiglieria e a Oneglia.42 Di questa città io

non sapevo altro che era in riva al mare, avrei aspettato che venisse in licenza per

110 domandargli qualche cosa sul mare. Ma Stefano in licenza non veniva, mandò solo

una sua fotografia, per vederla bisognava entrare nella stanza dei vecchi, era là appesa

a un cordino in mezzo ai rametti d’ulivo43 e alle candele benedette. Una volta

ci scrisse che lui non era di quei soldati che sudano a far l’istruzione e le marce, lui

più furbo s’era messo da attendente a un ufficiale e stava benone. Allora i nostri

115 fecero prender la penna in mano a Emilio e scrivere a Stefano che ci mandasse la

deca44 se stava tanto bene. Da quella lettera non ci scrisse più, da lui non vedemmo

un centesimo e in licenza non ci venne mai. Noi a casa non ce la facevamo a scalare

uno scudo45 dal debito con la maestra.

Lo congedarono dopo ventun mesi, s’era fatto più massiccio e più superbo, gli

120 ci volle un mese buono per riabituarsi al lavoro e ripigliarlo, adesso andava tutte le

sere all’osteria e tante notti rientrava ubriaco del vino che gli offrivano in paga del

suo raccontare. Con noialtri suoi fratelli sembrava che crepasse46 a parlare un po’

del mare e di quei posti che aveva visto, ma all’osteria il mazzo ce l’aveva sempre

lui47 e parlava solo sempre di donne forestiere che faceva schifo. S’era rimesso a

125 lavorare con me dietro le bestie che Emilio conduceva, ma io che avevo i bracci

metà dei suoi rendevo il doppio di lui sul lavoro, lui alzava la schiena ogni cinque

minuti e guardava sovente al passo della Bossola.48

Tornato Stefano in famiglia, venne l’ora d’Emilio di partire: andò a studiare da

prete nel seminario di Alba. Avevamo potuto scalare sì e no due scudi dal debito

130 con la maestra, e lei trovandosi con un piede nella tomba e senza nessuna necessità

di riavere le sue cento lire, c’era venuta una sera in casa a dire ai nostri che ci rimetteva

il debito se le mandavamo il nostro Emilio a farsi prete. Non solo ci rimetteva

il debito, ma ci passava uno scudo al mese per il suo mantenimento in seminario

e qualche altra lira l’avrebbe fatta sborsare al parroco.

135 Emilio non disse niente, come niente dissi io davanti a Tobia Rabino che diventava

mio padrone, i vecchi dissero di sì abbastanza in fretta.

Il motivo può anche aver offeso nostro Signore, ma però mio fratello Emilio a

fare il prete andava bene, prima di tutto perché Emilio era buono, e quello che in

chiesa ci stava di più e meglio, e poi a scuola era il primo di tutto San Benedetto,

140 e i miei, quando avevano qualche cosa da chiedere al cielo, era lui che facevano

pregare, perché era il più innocente. E poi era di poche forze, cosa poteva fare senza

penare era solo stare davanti alle bestie.

Partì per il seminario un sabato mattina, sul biroccio49 di Canonica che andava

a fare il mercato ad Alba. Lo baciammo tutti sulle guance, prima che montasse.

145 Nostra madre piangeva, nostro padre le dava dei nomi50 perché piangeva e le disse:

«O stupida, quando io ti mancherò, cosa ti sogni di meglio che andare a star con

lui dove sarà parroco e fargli da perpetua?». C’era Stefano, io che non mi capacitavo

che tra cinque minuti sarei stato sulla terra senza più Emilio vicino, c’era la maestra

Fresia che parlava italiano51 con Emilio. Il parroco non c’era, ma Emilio era stato in

150 canonica la vigilia a sentire come doveva comportarsi in seminario i primi tempi.

Canonica non si fidava a dare al cavallo perché sentiva i pianti di nostra madre,

le venne vicino la maestra e le disse: «Melina, ma pensate alla consolazione

di quando dirà la sua prima messa. E voi sarete la prima a ricevere la sua ostia».

Poi nostro padre fece un segno a Canonica e partirono. Non ci avrei creduto chi

155 m’avesse detto che l’avrei rivisto prima che fosse passato l’anno, e proprio in Alba,

dove sarei andato col mio padrone Tobia.

A me toccò che andavo per i diciassette anni e a dispetto della carestia di casa

nostra pesavo sette miria,52 ero tanto grosso d’ossa. Quando mi misi a dormire

quella notte, sapevo che l’indomani nostro padre sarebbe andato al mercato di

160 Niella, ma da solo, sicché mi diede uno scrollone la sua voce nello scuro della prima

mattina: «Agostino, levati e vestiti da chiesa». Non dirò sicuramente che fu un

presentimento: tutto capitò come se io fossi un agnello in tempo di Pasqua.

Andare ai mercati mi piaceva, ed è a un mercato che ho avuto la mia condanna.

Non successe subito, potei girare ben bene il mercato di Niella e m’incrociai più d’una

165 volta con l’uomo della bassa langa che un’ora dopo m’avrebbe tastato le braccia e

misurato a spanne la schiena e contrattato poi con mio padre il mio valore.

Disse Tobia Rabino: «Vi do per lui sette marenghi l’anno».

E mio padre: «Me lo pagate un marengo per miria che pesa».

Io pensavo solamente, in mezzo a tutte quelle parole, che mia madre a casa lo sapeva

170 ed era come se fosse lì con noi sul mercato di Niella. Mi sembrava che mio padre

e Tobia giocassero a gridare, e la voce più forte era quella di mio padre.

Si toccarono la mano e Tobia disse ancora: «Se mi contenta, gli regalerò un

paio di calzoni per ogni Natale che passa a casa mia. Ma non fateci subito calcolo,

non lo metto nei patti».

175 «E fatelo lavorare!» gli gridò mio padre, ma la sua non era crudeltà verso di

me, ma solo una sfida a quell’uomo della bassa langa a spezzare col lavoro la razza

dei Braida.

Partii per il Pavaglione una settimana dopo, a piedi, per la strada insegnatami

da Tobia. Mi sentivo nelle vene sangue d’altri che avevano già servito.

 >> pagina 463

Dentro il TESTO

I contenuti tematici

Tema centrale del brano è la miseria della vita contadina. Dopo una prima parte nella quale rievoca la morte e il funerale del padre, l’io narrante ripercorre attraverso un flash back le ragioni che hanno determinato il suo allontanamento dalla famiglia. Prima che lui venisse praticamente venduto dal padre a un “padrone”, il fratello Stefano era stato due anni via da casa per il servizio militare, mentre l’altro fratello, Emilio, era partito per Alba per entrare in seminario. Anche in questo caso si era trattato di una ragione economica: l’anziana e pia maestra del paese aveva acconsentito a condonare ai Braida un debito di cento lire purché il ragazzo si facesse prete.

Le angustie della povertà e le assidue preoccupazioni materiali rendono tesi i rapporti familiari, come si evince dai contrasti tra i genitori di Agostino e dall’appellativo scurrile con cui, qui e altrove nel romanzo, il marito si rivolge alla moglie (Vecchia bagascia, r. 85). Gli insulti prendono il posto del dialogo (Nostra madre piangeva, nostro padre le dava dei nomi, r. 145), completamente assente in una famiglia in cui il padre e la madre non comunicano nulla ai figli, neppure ciò che riguarda i progetti sul loro futuro.

 >> pagina 464
A dominare su tutto è la logica economica, a cui i personaggi sono soggetti e che non mettono in discussione: a scrivere il destino di Emilio sono, dal punto di vista del narratore, le cento lire prestate alla famiglia dalla maestra Fresia (quelle cento lire che hanno poi scritto il destino di mio fratello Emilio, rr. 77-78), non il malinteso senso religioso di quest’ultima né il disperato cinismo dei genitori. Neppure la fede aiuta, non riuscendo a costituire un conforto; semmai, al contrario, l’inutilità delle preghiere e delle pratiche devote (il vano pellegrinaggio della madre di Agostino) aumenta l’impressione di essere totalmente abbandonati da Dio (Ma non giovò, Dio non fu mai con noi, rr. 98-99). La malora dei personaggi, vale a dire la loro sventura, è davvero totale.

Le scelte stilistiche

Lo stile del brano è scarno e asciutto, sia a livello lessicale sia a livello sintattico, con termini dialettali e costrutti tipici del parlato (per esempio: Un po’ come fa bene, quando hai lavorato tutta la notte nella guazza a incovonare, non andartene a dormire ma invece rimetterti a tagliare al rosso del sole, rr. 26-28; ma all’osteria il mazzo ce l’aveva sempre lui e parlava solo sempre di donne forestiere che faceva schifo, rr. 123-124). Il punto di vista del narratore e il suo modo di esprimersi sono dunque, come succedeva in Verga, interni al mondo rappresentato. I costrutti e i vocaboli dialettali non sono sovrapposti dall’esterno al discorso del narratore, ma lo innervano dal di dentro, mostrando così la sua adesione e quella di tutti gli altri personaggi al sistema di valori utilitaristico dominante in quel mondo spietato (Come la mia famiglia sia scesa alla mira di mandare un figlio, me, a servire lontano da casa, è un fatto che forse io sono ancora troppo giovane per capirlo da me solo ecc., rr. 29-31 ss.).

Verso le COMPETENZE

Comprendere

1 Riassumi il brano in massimo 8-10 righe.


2 Da quali particolari si comprende l’estrema povertà della famiglia di Agostino?

Analizzare

3 Con quale strategia narrativa viene raccontata la vicenda dei fratelli Braida?


4 Individua nel testo i riferimenti al denaro: quali osservazioni puoi fare?


5 Individua nel testo alcuni esempi di lessico contadino, relativi agli aspetti della vita quotidiana e del lavoro.


6 Confronta l’atteggiamento dei tre fratelli di fronte al proprio destino.


 Il narratore (Agostino)

Stefano

Emilio

 



   

Interpretare

7 Per quali ragioni, secondo te, la madre sente la mancanza della figlia morta? E quali sentimenti nutre Agostino per la sorellina che non ha mai conosciuto?

Produrre

8 Scrivere per confrontare. Confronta la rappresentazione della vita contadina offerta da Fenoglio con quella data da Verga e i Veristi, facendo riferimento, per esempio, al servizio militare di Stefano e a quello di ’Ntoni nei Malavoglia, alla figura di Tobia e a quella di Mazzarò nella novella La roba, alla madre del narratore e alla Longa ancora nei Malavoglia ecc. Ti sembra che si possa parlare – come ha fatto qualche critico – di “neoverismo” a proposito di Fenoglio? Argomenta la tua risposta in un testo di circa 30 righe.

Dibattito in classe

9 Il destino dei tre fratelli Braida è segnato dalle necessità economiche e familiari: quanto, ancora oggi, e in quali situazioni, l’aspetto economico diventa rilevante nell’orientare le scelte di vita dei giovani? Discutine con i compagni.

Volti e luoghi della letteratura - volume 3B
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Dalla Prima guerra mondiale a oggi