Gli oggetti del “male di vivere” di Giovanni Raboni

LETTURE critiche

Gli oggetti del “male di vivere”

di Giovanni Raboni

La negatività del vivere può essere descritta in forme filosoficamente astratte o mediante una riflessione generale che evidenzi il dolore nell’esistenza umana. Giovanni Raboni (1932-2004), importante poeta del secondo Novecento, sottolinea invece come Montale sia capace di esprimere tale condizione, invisibile ma opprimente, con la concretezza di ambienti, figure e cose quotidiane, eppure dal valore e dal significato profondissimo.

A dominare in Montale o, meglio, nel suo mondo espressivo è sin dagli inizi – sin dalle più antiche poesie degli Ossi – una visione radicalmente negativa, una visione tutta interiore e tuttavia capace di proiettare anche al di fuori, sul mondo dei fenomeni e delle apparenze, i sintomi di uno strisciante male e di un intima, struggente non-voglia di vivere.

Ma attenzione: alla presenza o, meglio, all’immanenza, all’invisibile incombere di questo «male di vivere» (l’espressione, ricordo, viene alla lettera dall’interno degli Ossi, dal primo verso di una poesia famosa, forse persino, verrebbe voglia di dire, troppo famosa: «Spesso il male di vivere ho incontrato...») si accompagna e si intreccia, nella dimensione concreta della macrometafora1 testuale e nelle sue infinite proiezioni e risonanze, una vasta, grandiosa, irresistibile ansia di nominare, di inventariare, di descrivere quello stesso mondo al quale pure si crede così poco, si dà così poca importanza, si accorda così scarsa fiducia.

Uno dei maggiori poeti italiani della generazione immediatamente successiva a quella dell’autore delle Occasioni, Vittorio Sereni, ha scritto una volta (e l’ha scritto, oso supporre, a nome di noi tutti) che «la poesia di Montale in tanto suo dubbio sull’esistenza ci aveva appassionati in gioventù alla vita». Non si può dire meglio, né con più toccante semplicità; basta, credo, sostituire a quell’«in gioventù» un’altra espressione: «per sempre» o, meglio ancora, «una volta per tutte». Proprio questa è, in effetti, la perenne, intramontabile condizione-base – intimamente contraddittoria e proprio per questo irresistibilmente eccitante e vitale – della grande poesia di Montale: una condizione che, già potentemente annunciata e largamente espressa negli Ossi di seppia, acquista nelle Occasioni un’ancora più folgorante evidenza grazie all’instaurarsi, di testo in testo (con un massimo di concentrazione e di abbagliante, quasi terrificante nitore nella sezione dei Mottetti), d’un fitto sistema di apparizioni e rivelazioni apparentemente, appunto, «occasionali», in realtà misteriosamente tempestive e profondamente emblematiche, e con il decisivo tramite d’una pronuncia che, non discostandosi mai, come già ho avuto modo d’accennare, da un sostanziale rispetto per le forme della tradizione metrica e sintattica primonovecentesca, ma lavorando su di esse con magistrali abrasioni e velature, si fa via via più stringente e quasi ineluttabile.

La negatività dell’universo si popola, dunque, di oggetti enigmaticamente quotidiani, di amuleti che condannano ma anche, a volte, strappano all’inesistenza chi li possiede o entra casualmente o fatalmente in contatto con essi, nonché di presenze salvifiche – angeli o donne angelicate o forse angeli-demoni, «angeli neri» – di cui pochi hanno il privilegio di cogliere la natura e che tracciano misteriose scie di luce nell’angusta, soffocante oscurità del creato. Ed ecco il pessimismo tramutarsi così in sospensione, in attesa, in uno stato non soltanto mentale di cronica, febbrile tensione, la rinuncia alla vita in una sorta di radar o calamita di segnali, in un grandioso, paradossale apparato d’avvistamento e di conquista. In altre parole, e per riprendere il suggerimento di Sereni, il «dubbio sull’esistenza» si capovolge in «appassionamento» alla vita. Non accade così, d’altronde, anche nella (e con la) poesia di Leopardi? E a questo proposito cade opportuno, per non dire inevitabile, un accenno a quello che potremmo chiamare il leopardismo segreto di Montale, i cui rapporti con l’autore dei Canti e delle Operette morali sono, a parere non soltanto mio, tanto poco dichiarati e letteralmente documentabili quanto, nella sostanza, essenziali e profondi.


Giovanni Raboni, Prefazione a E. Montale, Poesie, Mondadori-Corriere della Sera, Milano 2004

Comprendere il pensiero critico

1 Che tipo di visione caratterizza la poesia di Montale fin dagli inizi? Come si contrappongono interiorità e mondo esterno all’interno di questa visione?


2 Di quali oggetti è popolato l’universo montaliano? Qual è la loro funzione?


3 In che senso il pessimismo si muta in sospensione nella poesia di Montale secondo Raboni?

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Le muse di Montale

di Giusi Baldissone

Come scrive Giusi Baldissone (n. 1948) in questa pagina critica, tante figure femminili, ciascuna con personali peculiarità, affollano tutta l’opera montaliana. Sono nomi, cognomi, soprannomi diversi, appartenenti a donne concrete, ma che ora evaporano in ricordi e memorie che la scrittura poetica si incarica di far rivivere.

Le donne di Montale sono muse. Svelati per opera degli ultimi esegeti nomi, circostanze ed epifanie (anche fotografiche), la poesia gioca a carte scoperte ma ribadisce più che mai una sua «lunga fedeltà» ai miti, agli archetipi, alle fantasie. [...]

Al contrario che per il Boccaccio decameroniano, le cui muse sono le donne, per Eugenio Montale le donne sono figure della fantasia poetica e i loro senhal non solo le rappresentano, ma le costituiscono per intero.

Credo che tutto il «male di scrivere» montaliano sia espresso in questo concetto e che, comunque, lo spazio della poesia e dell’arte in genere come attività fantastica primaria sia uno spazio privilegiato: è lo spazio di chi, nella sua personale costruzione di un universo con cui armonizzarsi, riparando i danni inflitti dalla realtà, riesce a esprimere anche il disagio altrui, trovando una gratificazione che risulterà a sua volta gratificante per coloro che vi si rispecchieranno.

La ricerca del fantasma femminile percorre tutta l’esistenza di Montale e tutta la sua scrittura. Nel cercare di suddividere le numerose presenze in figure storiche e figure poetiche, come qualcuno ha tentato di fare, forse si commette già un abuso, una sorta di infrazione, ma non solo nei confronti di quel codice di discrezione che separa la vita privata dall’opera, bensì, soprattutto, nei confronti di quest’ultima, che è poi la sola che resti e conti realmente.

Certamente dobbiamo dare per acquisiti alcuni dati: una madre, una sorella, una o più governanti e una moglie sono figure storiche e, in modo altrettanto certo, dietro ai senhal si celano e sono state identificate alcune donne: hanno nomi e cognomi, sono stati scoperti, li elenchiamo diligentemente. Ma di un concetto non possiamo liberarci, se abbiamo imparato a conoscere fino in fondo le opere di questo scrittore: nei confronti di tutte queste donne la scrittura funziona come vera attività creatrice, le fa esistere, riparando alla loro assenza.

Se dei loro nomi occorre tenere conto, bisogna farlo in un’ottica vastamente ermeneutica.

Ogni figura femminile, nella poesia montaliana, è la figura di un’assente, della quale urge evocare la presenza. Bastano pochi oggetti per compiere il rito; e basta un nome, meglio se convenzionale, perché avvenga l’apparizione. Ci sono anche situazioni propiziatorie: talvolta la «bufera», spesso il «meriggiare». I lampi e i bagliori che accompagnano la prima consentono l’irruzione segreta del «visiting angel»; il «demone meridiano» che si scatena nel secondo caso consente una visione simile a quella di Dante nel Paradiso.


Le muse di Montale, a c. di G. Baldissone, Interlinea, Novara 2014

Comprendere il pensiero critico

1 Quali caratteristiche hanno e come sono rappresentate da Montale le sue muse poetiche?


2 Secondo Baldissone i nomi delle donne che compaiono nella poesia montaliana hanno importanza solo in un’ottica “ermeneutica”: spiega questa affermazione.

Volti e luoghi della letteratura - volume 3B
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Dalla Prima guerra mondiale a oggi