I temi

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Il «male di vivere» La ricerca di un significato da attribuire all’esistenza ossessiona il poeta, teso a scongiurare l’identificazione del quotidiano con un avanzare alla cieca, che lentamente conduce l’individuo verso la fine. Affonda qui le sue radici la crisi d’identità in cui precipita l’io lirico, incapace di districarsi da una situazione che non offre vie di fuga né possibilità di guarigione. Tale sofferenza però non sfocia nel lamento o nell’ironia: accende invece una ferma volontà di resistere agli ingranaggi del meccanicismo universale, all’inganno del «mondo come rappresentazione», secondo la formula del filosofo Schopenhauer. L’opposizione semantica fondamentale che caratterizza la raccolta – la necessità contro il miracolo – si declina in immagini concrete, che tornano a più riprese: il «varco» nel muro, l’«anello» della catena «che non tiene», la smagliatura nella rete.

Nell’attesa sconsolata di un’improbabile fuga, per arginare il «male di vivere» , il poeta prende in considerazione un ventaglio di rimedi, tra i quali spiccano l’ignoranza, la rassegnazione e soprattutto la «divina Indifferenza» (Spesso il male di vivere ho incontrato), ovvero la rinuncia alle emozioni. L’unico conforto proviene dalla scelta stoica della “ atarassia”: scartata l’ipotesi di un rifugio nelle braccia della natura, il poeta si riconosce piuttosto negli «ossi di seppia» trasportati dalle onde e ributtati sul bagnasciuga. Anche la regressione verso l’infanzia appare impossibile: a precludere la via è l’azione inesorabile del tempo, che demolisce tutto, anche i ricordi.

Il fantasma femminile Se non dal passato o dal senso di armonia con la natura, una speranza di salvezza potrà forse venire dai rapporti umani. Nella poesia inaugurale, In limine, il poeta si rivolge a un “tu” femminile, esortandolo a fuggire, lei che forse può farlo, dalla comune prigione: «Cerca una maglia rotta nella rete / che ci stringe, tu balza fuori, fuggi! / Va, per te l’ho pregato, – ora la sete / mi sarà lieve, meno acre la ruggine…». Questo fantasma poi scompare, riapparendo solo negli ultimi componimenti, dove il poeta ripropone il gesto d’offerta, deciso a barattare la gioia di lei «con la mia condanna» e a dare la propria avara speranza «in pegno al tuo fato, che ti scampi». Ma anche l’apparizione femminile è destinata a dissolversi come ombra o, al massimo, come ricordo di brevi momenti di quiete goduti e poi svaniti. Della «vita strozzata» non restano alla fine che labili cenni: un gesto, una parola che in Arsenio sfiora il poeta, prima che il vento la disperda «con la cenere degli astri» (▶ T17, p. 234).

Il paesaggio ligure «Sono un albero bruciato dallo scirocco anzi tempo»: così Montale si descrive in una lettera a Svevo, scritta poco dopo l’uscita degli Ossi di seppia. Il paragone riprende una strategia rappresentativa sistematicamente utilizzata nella raccolta, dove il poeta è solito proiettare il proprio stato d’animo sul paesaggio della natia Liguria. Come Alcyone di d’Annunzio è stato definito il diario di un’estate in Versilia, così gli Ossi potrebbero costituire il diario di un’estate alle Cinque Terre. Ma al panismo dannunziano Montale sostituisce un’estetica dello scarto, del “rottame”.

Gli scenari mediterranei, bruciati dal sole, immobili nel calore soffocante delle ore pomeridiane, non hanno nulla di idillico: piuttosto, consentono di tradurre in immagini di luminosa evidenza l’aridità che dissecca l’animo del poeta. E tuttavia i medesimi scenari possono in alcune occasioni assumere una valenza positiva. Da un lato, infatti, favoriscono la sospensione del tempo che consente il dominio sulle passioni, o prelude all’avvento dell’auspicato «miracolo»; dall’altro suggeriscono al poeta l’atteggiamento «scabro ed essenziale» adeguato a fronteggiare una realtà sconfortante.

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Il mare L’idea di una comunione appagante con il paesaggio è veicolata in Falsetto ( T10, p. 218) dal tuffo in mare di una giovane amica, che il poeta guarda con invidia e ironia, certo di appartenere alla «razza / di chi rimane a terra». L’ipotesi di un abbandono fiducioso alla natura si affaccia nei componimenti della serie Mediterraneo, in cui Montale si rivolge direttamente al mare. Ma presto nel serrato monologo prende il sopravvento la coscienza di un’unità impossibile: «Giunge a volte, repente [rapida, all’improvviso], / un’ora che il tuo cuore disumano / ci spaura e dal nostro si divide».

Il fascino dell’indistinto evocato dal mare – di una vita libera dalle convenzioni e dalla schiavitù della ragione – attira irresistibilmente l’io lirico, sedotto dalle infinite modulazioni pittoriche e musicali delle onde, ma da esse respinto come un «osso di seppia». Il distacco dal mare – più volte chiamato «padre» – sta a indicare il superamento del modello dannunziano, con la sua idea di fusione nella natura, e si traduce nell’approdo a un’identità definita di uomo e di poeta. Resta comunque vivo il suo richiamo: è verso il mare in tempesta che si incammina Arsenio ( T17, p. 234), prima di essere ripreso dall’alienante realtà di tutti i giorni, che lo condanna a muoversi per le vie affollate da una «ghiacciata moltitudine di morti»: le rare apparizioni della realtà urbana, negli Ossi di seppia, assumono quasi sempre tratti infernali.

Le forme

La metrica Montale è un vigile osservatore della rivoluzione metrica che nel primo Novecento impone sulla scena il verso libero. Rispetto a esperienze di rottura come quelle dei Futuristi e dei Vociani, il suo lavoro rivela tuttavia un marcato riavvicinamento alla tradizione: più sul versante delle misure che non su quello degli schemi strofici. Fatto salvo un modulo elementare come la quartina, il poeta infatti trascura (o in rari casi maschera) i classici moduli della lirica, come la canzone e la ballata; significativamente, al sonetto italiano preferisce quello inglese, detto “elisabettiano”, composto di tre quartine e un distico finale, a cui ricorre più volte. Il discorso si incanala in forme libere, con una propensione per i gruppi di endecasillabi e settenari, che ricordano alla lontana i precedenti leopardiani, e per le sequenze polimetriche, che trovano un riferimento importante nella “strofa lunga” dannunziana.

La predilezione per ritmi riconoscibili, ma non scontati, si accompagna a una struttura sintattica complessa e a un uso massiccio dell’enjambement e di parole sdrucciole alla fine del verso, così da generare la cosiddetta rima ipermetra (per esempio amico : canicola in Non chiederci la parola T11, p. 221). Quanto alle misure, l’endecasillabo resta al centro degli schemi metrici di Montale, dove hanno un ruolo di primo piano anche i versi lunghi, che riecheggiano ora la metrica barbara di Carducci (il quale aveva cercato di riprodurre nel sistema accentuativo italiano i ritmi quantitativi della poesia classica, greca e latina), ora gli alessandrini francesi. Rilevante è anche la presenza diffusa del novenario, valorizzato da Pascoli tra Ottocento e Novecento.

Circa la metà dei versi degli Ossi di seppia è rimata, il che distingue Montale da molti importanti poeti della sua generazione, come Ungaretti, più freddi verso questa tecnica poetica di lunga tradizione. Tuttavia agli schemi come rime baciate, alternate, incrociate ecc., anch’essi presenti, Montale preferisce disposizioni libere e originali; sono comunque fitte, tra un verso e l’altro, le riprese foniche, che costituiscono uno degli elementi più riconoscibili della sua maniera poetica.

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Strategie retoriche L’attenzione ossessiva alla musicalità del verso spiega l’abbondante presenza delle figure di suono, come allitterazioni, paronomasie, onomatopee: per fare un esempio, gli «scricchi / di cicale dai calvi picchi» di Meriggiare pallido e assorto ( T12, p. 223). Per quanto riguarda le figure di significato, nei numerosi ossimori si rispecchia la contraddizione esistenziale che tormenta il poeta, il suo «immoto andare», come egli stesso scrive, lungo una strada senza meta. L’estraneità alla “poesia pura” derivata dal Simbolismo francese implica un uso misurato e sobrio di metafore e apposizioni analogiche. La tecnica del correlativo oggettivo, fondata sul riconoscimento delle connessioni tra l’interiorità del poeta e il mondo circostante, comporta invece la frequenza nei versi di figure e oggetti dotati di una solida concretezza, come il «rivo strozzato», la «foglia riarsa», e il «cavallo stramazzato» a terra che si incontrano in Spesso il male di vivere ( T13, p. 226).

Lessico e sintassi All’unità di tono, alto e impostato, che contraddistingue la raccolta corrisponde infine un’estrema varietà lessicale. Il vocabolario degli Ossi di seppia è ampio e sorprendente: Montale adopera un lessico ricco e assai poco ripetitivo, in cui abbondano gli hapax, ovvero i termini usati una sola volta, spesso coniati dall’autore («infoltarsi, dispiumare, lameggiare»). È vero che nei Limoni ( T9, p. 214) egli tiene a distinguersi dai «poeti laureati», che «si muovono soltanto fra le piante / dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti» (il riferimento polemico al sublime dannunziano è scoperto e, al tempo stesso, inevitabile). Tuttavia altrove è facile imbattersi in termini preziosi e ricercati: aggettivi come adusto, falotico, ignito, raffinati termini della pratica musicale, o anche vocaboli del gergo marinaresco ligure, tutti scelti in virtù dell’attitudine alla precisione che accomuna Montale a Pascoli. Quest’ultimo nutriva gravi riserve sulla predilezione dei poeti italiani per il «vago», che aveva consentito a Leo­pardi di cantare una «donzelletta» che «reca in mano un mazzolin di rose e viole», sebbene queste fioriscano in stagioni diverse: ebbene, proprio allo stesso modo dell’autore di Myricae, Montale predilige il termine esatto e concreto, meglio se fonicamente espressivo, provvisto di un’asprezza in grado di correlarsi al tema dell’aridità interiore che viene trasferita nel paesaggio.

Sul piano sintattico, mentre nei componimenti meno estesi prevale il gusto per il parallelismo (che fa di tanti “ossi brevi” dei piccoli meccanismi perfetti), i testi più lunghi si distendono in periodi ampi e ricchi di subordinate, tra le quali prevalgono le ipotetiche, adatte a esprimere i dubbi che attanagliano il poeta. La principale giunge spesso alla fine del periodo, a chiudere un ragionamento che conosce molteplici articolazioni, complicate dalla frequenza degli incisi.

Volti e luoghi della letteratura - volume 3B
Volti e luoghi della letteratura - volume 3B
Dalla Prima guerra mondiale a oggi