Il carattere - Una gioia di vivere oscurata da una profonda sofferenza interiore

il CARATTERE

  Una gioia di vivere oscurata da una profonda sofferenza interiore

La biografia di Saba è quella di un uomo mite, che vive un’intera esistenza cercando di superare una sofferenza dalle origini antiche, in parte mitigata dagli affetti familiari ma mai del tutto sopita.

I traumi infantili

La madre, lasciata dal marito quando è ancora incinta, si distacca a sua volta dal figlio, affidandolo a una balia, per poi riprenderlo con sé quando il legame del bambino con quest’ultima è diventato molto forte. La separazione dalla balia gli causa dunque un secondo trauma, e inoltre il ricongiungimento con la madre non avviene senza difficoltà: la donna ha un carattere duro e austero, ed è costantemente angosciata dai problemi economici, oltre che abbattuta per l’abbandono da parte del marito (che il poeta conoscerà soltanto nel 1905).

I disturbi psicologici di cui soffre Saba, e che sfoceranno più tardi in quell’ansia cronica con cui dovrà convivere per tutta la vita, sono forse anche conseguenza di questa situazione familiare tormentata. Il poeta racconta di sentirsi minacciato da un ricorrente «pensiero coatto» di carattere distruttivo, e nel 1929 scrive: «È una nevrosi ossessiva, dalla quale non trovo scampo, nemmeno momentaneo. L’unica cosa che posso ancora sognare è una malattia mortale, la quale mi tolga dal mondo senza che io ci metta la mano».

Il senso di vuoto

Sotto la superficie solare della sua poesia, caratterizzata sin dalle prime prove da ritmi quasi cantabili, si nasconde infatti un’acuta sofferenza interiore: «Quante rose a nascondere un abisso!», recita un suo verso (Secondo congedo). Un intenso amore per la vita lo porta a bramare un rapporto armonioso con la realtà, che gli appare tuttavia sotto una luce drammatica, raramente foriera di serenità e pacificazione. Come osserva Giulio Ferroni, Saba avverte costantemente un bisogno «di comunicazione tenera e affettuosa con il mondo, di partecipazione alla vita collettiva, ma ostacolato da un senso angoscioso della propria diversità, dalla minaccia della nevrosi».

Le opere

Il canzoniere ▶ T4-T10

La prima e più importante attività creativa di Saba è quella poetica. Egli pubblica diverse raccolte, tutte in seguito confluite nel Canzoniere. L’opera ha avuto varie edizioni, sensibilmente diverse tra loro e di volta in volta arricchite dai nuovi componimenti: la prima è del 1921, la seconda del 1945, mentre l’ultima e definitiva (dopo alcune altre) esce postuma nel 1961. Al Canzoniere è dedicata la seconda parte dell’unità ( p. 140).

Gli scritti in prosa ▶ T1-T3

Strettamente legata al Canzoniere è Storia e cronistoria del Canzoniere (1948), una sorta di autocommento del poeta ai propri versi.

Nel 1946 esce la raccolta Scorciatoie e raccontini, che presenta brevi testi scritti quasi tutti l’anno precedente, oltre a pochi brani risalenti agli anni Trenta. L’autore manifesta qui una tendenza all’aforisma – che si esercita su temi sociali, politici, culturali e letterari – e una vena ironica volta a demistificare le forzature e le rigidità delle ideologie. Nel 1956 viene pubblicato il volume Ricordi-Racconti, che contiene testi memorialistici e narrativi scritti per lo più negli anni Dieci e caratterizzati da uno stile aereo e a tratti fiabesco. Un ricco epistolario, infine, attende ancora di essere ordinato.

Ernesto Il romanzo autobiografico Ernesto, scritto nel 1953 ma rimasto incompiuto e pubblicato postumo soltanto nel 1975, affronta un tema che, ai tempi della sua stesura, rappresentava ancora un tabù: l’omosessualità. Protagonista dell’opera – ispirata a un’esperienza giovanile dell’autore – è Ernesto, alter ego di Saba, un ragazzo di sedici anni che affronta la propria iniziazione alla vita attraverso una relazione con un uomo ventottenne. Ernesto supera la sua fase omosessuale, che rimane però latente nel suo inconscio (il libro siinterrompe proprio con l’incontro tra il protagonista e un giovane della sua età, Ilio). Il libero esercizio della sessualità è narrato come un fatto positivo e naturale, ed è descritto con affettuosa ingenuità, sebbene lo scrittore, a distanza di tanti anni, guardi a quell’episodio della propria giovinezza non senza una certa sofferenza.

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La vita

 

Le opere

• Nasce a Trieste

1883

 

 Si trasferisce a Firenze ed entra in contatto con gli intellettuali della “Voce”

1905

 

• Svolge il servizio militare a Firenze e a Salerno 

1907-1908

 

• Rientra a Trieste e sposa Carolina Wölfler, detta Lina 

1909

 

• Nasce la figlia Linuccia 

1910

Poesie

A Trieste rileva la libreria antiquaria che gestirà per tutta la vita

1919

 
  1921 Prima edizione del Canzoniere 

A causa delle leggi razziali lascia Trieste per Parigi 

1938

 
  1945 Seconda edizione del Canzoniere
  1946 Scorciatoie e raccontini
  1948 Storia e cronistoria del Canzoniere

• Muore la moglie Lina 

1956

Ricordi-Racconti

• Muore a Gorizia

1957

 
  1961 Edizione definitiva del Canzoniere
  1975 Pubblicazione di Ernesto

I grandi temi

1 La concezione della poesia

Una nuova idea di poesia: l’onestà In Quello che resta da fare ai poeti – un articolo scritto nel 1911 per la “La Voce”, che però lo rifiuta, e pubblicato nel 1959, cioè solo dopo la morte dell’autore – Saba individua il compito fondamentale del poeta nel «fare la poesia onesta». L’idea di onestà ha a che fare sia con i contenuti, sia con lo stile: la poesia deve essere lo specchio sincero dell’interiorità del poeta, mentre le scelte stilistiche devono essere semplici e antiretoriche.

L’antinovecentismo di Saba Saba approda così a una poetica di tipo antisimbolista, antidecadente (soprattutto antidannunziana) e nettamente antinovecentista lontana cioè dal filone della “poesia pura” espresso dall’Ermetismo. L’autore continuerà a rivendicare questa scelta lungo tutto il suo percorso, fino a renderla esplicita in Storia e cronistoria del Canzoniere (1948), testo di grande importanza per una piena comprensione della sua poetica.

L’intera opera di Saba – pur con accenti diversi nelle sue varie fasi – appare perciò lontana dalla ricerca di uno stile “puro” e di un linguaggio assoluto. Egli ritiene che il poeta debba rifarsi alla grande tradizione italiana che va da Dante e Petrarca (presenza evidente sin dal titolo della sua raccolta poetica) a Leopardi, stemperando però gli stilemi solenni in un linguaggio complessivamente più semplice, come dichiara nella lirica Amai: «Amai trite parole che non uno / osava. M’incantò la rima fiore / amore, / la più antica difficile del mondo». Semplicità e trasparenza, paradossalmente, sono obiettivi più difficili da raggiungere rispetto all’oscurità di molta parte della poesia del tempo.

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Le conseguenze sul piano formale Ne consegue, dal punto di vista formale, il rifiuto dello sperimentalismo metrico prevalente nella lirica europea tra Otto e Novecento, a vantaggio di un recupero della tradizione. Del patrimonio retorico e stilistico classico Saba fa un uso per così dire artigianale e antieloquente: la rima e la verseggiatura raffinata, l’iperbato, l’enjambement, l’uso sapiente della metafora sono tutte testimonianze di una poesia colta, che però egli inserisce in uno stile dimesso; la storia letteraria è conosciuta e interiorizzata dal poeta, ma i suoi modi vengono applicati a tematiche semplici, comuni e quotidiane.

T1

La poesia onesta

Quello che resta da fare ai poeti

Presentiamo ampi stralci dell’articolo scritto da Saba nel 1911, un documento molto importante per la comprensione dell’arte e della personalità dell’autore.

Ai poeti resta da fare la poesia onesta.


C’è un contrapposto,1 che se può sembrare artificioso, pure rende abbastanza bene il 

mio pensiero. Il contrapposto è fra i due uomini nostri più compiutamente noti che 

meglio si prestano a dare un esempio pratico di quello che intendo per onestà e disonestà 

5      letteraria: è fra Alessandro Manzoni e Gabriele d’Annunzio: fra gli Inni Sacri e i 

Cori dell’Adelchi, e il secondo libro delle Laudi e la Nave: fra versi mediocri ed immortali 

e magnifici versi per la più parte caduchi.2 L’onestà dell’uno e la nessuna onestà dell’altro, 

così verso loro stessi come verso il lettore (perché chi ha un candido3 rispetto per 

l’anima propria, lo ha anche, all’infuori della stima o disistima,4 per quella cui si rivolge) 

10    sono i due termini cui può benissimo ridursi la differenza dei due valori.

A chi sa andare ogni poco5 oltre la superficie dei versi, apparisce6 in quelli

del Manzoni la costante e rara cura di non dire una parola che non corrisponda

perfettamente alla sua visione: mentre vede che l’artificio del d’Annunzio non è

solo formale ma anche sostanziale, egli si esagera o addirittura si finge passioni

15    ed ammirazioni che non sono mai state nel suo temperamento: e questo imperdonabile 

peccato contro lo spirito egli lo commette al solo e ben meschino scopo

di ottenere una strofa più appariscente,7 un verso più clamoroso. Egli si ubriaca

per aumentarsi,8 l’altro è il più astemio e il più sobrio dei poeti italiani: per non

travisare il proprio io e non ingannare con false apparenze quello del lettore, resta

20    se mai al di qua dell’ispirazione.9 Questa austerità, in lui innata, era poi accresciuta

da motivi religiosi; perché certo egli credeva che Dio che gli aveva dato il genio, gli

avrebbe chiesto conto di ogni parola, direi quasi di ogni interpunzione. Ne viene

che quando ad uno dei due manca con la perfetta espressione la perfetta opera

d’arte, se questi è il Manzoni, non per tanto10 egli ci diventa antipatico, come uno

25    che erra per imperizia11 o per paura di derogare12 da quello che in buona fede ritiene 

sia il giusto ed il vero; se invece è il d’Annunzio egli ci irrita e disgusta come un

individuo che spenda la sua ammirevole eloquenza meridionale per imporci una

mercanzia sospetta. […]

Chi non fa versi per il sincero bisogno di aiutare col ritmo l’espressione della sua

30    passione, ma ha intenzioni bottegaie13 o ambiziose, e pubblicare un libro è per lui

come urgere14 una decorazione o aprire un negozio, non può nemmeno immaginare 

quale tenace sforzo dell’intelletto, e quale disinteressata grandezza d’animo

occorra per resistere ad ogni lenocinio,15 e mantenersi puri ed onesti di fronte a se

stessi: anche quando il verso menzognero è, preso singolarmente, il migliore. […]

35    L’onestà letteraria è prima un non sforzare mai l’ispirazione, poi non tentare,

per meschini motivi di ambizione o di successo, di farla parere più vasta e trascendente 

di quanto per avventura16 essa sia: è reazione, durante il lavoro, alla pigrizia

intellettuale che impedisce allo scandaglio di toccare il fondo;17 reazione alla dolcezza 

di lasciarsi prender la mano dal ritmo, dalla rima, da quello che volgarmente

40    si chiama la vena. Benché esser originali e ritrovar se stessi sieno18 termini equivalenti, 

chi non riconosce in pratica che il primo è l’effetto e il secondo la causa; e

parte non dal bisogno di riconoscersi ma da uno sfrenato desiderio dell’originalità,

per cui non sa rassegnarsi, quando occorre, a dire anche quello che gli altri hanno

detto; non ritroverà mai la sua vera natura, non dirà mai alcunché di inaspettato.

45    Bisogna – non mi si prenda alla lettera – essere originali nostro malgrado. Ed infatti, 

quali artisti lo sono meno che quelli in cui è visibile lo sforzo per diventarlo?

Essi non riescono il più delle volte ad essere nemmeno personali: e vanno tanto

più famosi per la spudoratezza dei furti e la vastità dei saccheggi:19 in quanto che

nello stesso tempo che compiono una rapina la condannano, e si affermano20

50    miliardari che vivono del proprio. Anche mi apparisce dannosa la paura di ripeter

se stessi: quando un sentimento è innato ed è innato il bisogno dell’espressione,

è naturale che fino che l’uomo non può uscire dal proprio io, quel sentimento e

quell’espressione si ripetano, con l’ossessione di chi sente qualcosa che la parola

e il suono e tutte le arti e tutti i mezzi esteriori non possono mai rendere alla

55    perfezione: quindi l’inappagamento dopo ogni opera e la speranza di dir meglio

la prossima volta. Sono pieni di ripetizioni il Canzoniere del Petrarca e quello del

Leopardi e la parte più sublime della Commedia “Il Paradiso”; perché questi poeti

cercavano di sfogare una loro grande passione e non di sbalordire come dei giocolieri, 

che guai se ripetono due volte lo stesso numero. E se l’ispirazione è sincera,

60    e subisce quindi l’influenza del particolar momento in cui nasce, c’è sempre, per

quante volte si ripeta, qualcosa che la contraddistingue; una inaspettata freschezza

o una più grande stanchezza, uno scorcio di spettatore o di paesaggio, una diversa

stagione od ora del giorno; qualcosa che dà al verso il suo colore unico e che solo

l’occhio del profano può confondere con l’impressione antecedente. Né questa

65    onestà è possibile che in chi21 ha la religione dell’arte, e l’ama per se stessa e non

per la speranza della gloria, ma il paradiso del successo o il purgatorio dell’insuccesso, 

se non lo lasciano del tutto indifferente, non menomano il suo amore e non

lo fanno, per avidità di battimani, volgere né a destra né a sinistra. […]


A questa maggiore onestà nel metodo di lavoro, deve necessariamente corrispondere

70    un più austero programma di vita. Il poeta deve tendere ad un tipo morale il più

remoto possibile da quello del letterato di professione, ed avvicinarsi invece a quello

dei ricercatori di verità esteriori o interiori, le quali, salvo forse la più alta forma di

intellettualità che occorre per investigare le seconde, sono tutt’una cosa. […]

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Dentro il TESTO

I contenuti tematici

Prima di Saba, il concetto di onestà non era mai comparso nella riflessione letteraria. Le finalità della poesia erano individuate piuttosto nelle categorie del dilettevole e dell’utile, o in una combinazione delle due, come nella famosa formula dell’utile dulci (l’unione, appunto, di utile e piacevole) coniata dal poeta latino Orazio, in base alla quale la poesia ha il compito di intrattenere, ma anche di fornire validi insegnamenti etici. Le poetiche simboliste e decadenti si distaccano da questa impostazione, puntando all’espressione di verità profonde attraverso un linguaggio prezioso e cifrato, indagando il potere evocativo della parola perseguendo (come avviene in d’Annunzio) un obiettivo di eleganza e musicalità della versificazione.

Saba ha un’idea diversa. Egli identifica, all’interno della storia letteraria italiana, due distinte tendenze: quella rappresentata dai versi mediocri ed immortali (rr. 6-7) di Manzoni, e quella recentemente incarnata da Gabriele d’Annunzio, con i suoi magnifici versi per la più parte caduchi (r. 7). Il primo è esempio di onestà, essendo sempre coerente e sincero con sé stesso, e quindi libero dalla tentazione della retorica (non dice mai una parola che non corrisponda perfettamente alla sua visione, rr. 13-14). D’Annunzio, invece, è disonesto sia sul piano dello stile sia su quello dei contenuti (il suo artificio […] non è solo formale ma anche sostanziale, rr. 14-15), giacché egli deforma la realtà e i suoi stessi sentimenti.

Saba è dunque in aperta polemica con la poesia a lui contemporanea, richiamandosi piuttosto ai padri nobili del canone letterario – Dante, Petrarca, Parini, Manzoni, Leopardi – e proponendo un deciso «ritorno alle origini». Per Saba scrivere versi significa aiutare col ritmo l’espressione della […] passione (rr. 30-31). Egli sostiene, in altri termini, un’identità tra vita e letteratura, un’immediata trasposizione della prima nella seconda. Lo scandaglio (r. 39) del poeta deve scendere nelle profondità dell’animo, senza pretendere che la poesia tratti di questioni universali. L’originalità è un valore, ma può essere raggiunta solo attraverso un rigoroso esercizio della sincerità. Non bisogna temere, quando occorra, di utilizzare parole già usate da altri (dire anche quello che gli altri hanno detto, rr. 44-45), né tanto meno di ripetere sé stessi, anche perché lo sforzo di apparire originali suggerisce spesso soluzioni false e finisce con il produrre il risultato opposto. La poesia onesta è possibile solo per gli autori che mettono al primo posto l’arte, e non la propria ambizione (la speranza della gloria, r. 67), senza farsi influenzare dal successo o dall’insuccesso.

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Verso le COMPETENZE

Comprendere

1 Con quali argomenti Saba accoglie il modello di Manzoni e rifiuta quello di d’Annunzio?


2 Perché Saba invita i poeti a non temere di ripetersi?

Analizzare

3 Analizza la metafora dello scandaglio (r. 39). Dopo aver chiarito il significato letterale del vocabolo, spiega a quale scopo l’autore lo impiega qui.


4 Evidenzia nel brano le frasi che si riferiscono all’importanza della tradizione.

Interpretare

5 In che senso l’autore pensa che esser originali e ritrovar se stessi sieno termini equivalenti (rr. 41-42)? E che cosa intende quando afferma che Bisogna […] essere originali nostro malgrado (r. 46)?

COMPETENZE LINGUISTICHE

6 Benché La poesia onesta sia un testo argomentativo, e non certo poetico, l’autore fa spesso ricorso a un efficace linguaggio figurato. Spiega in che cosa consiste l’uso figurato dei seguenti vocaboli:


ubriacarsi  scandaglio  vena  saccheggio  giocolieri

Produrre

7 Scrivere per argomentare. Facendo riferimento alle idee espresse da Saba nel suo articolo, quale pensi potesse essere la sua posizione nei confronti dei Futuristi e dei Crepuscolari? Affronta l’argomento in un testo di circa 30 righe.

2 Autobiografismo e confessione

La letteratura come autocoscienza La scrittura, per Saba, è anzitutto un modo per comprendere la propria interiorità. Il suo Canzoniere – quasi un diario, una sorta di confessione prolungata nel tempo – è il tentativo di conquistare un senso integro e non frantumato dell’esistenza, aderendo in modo immediato, quasi fisico, alla realtà, senza complicazioni filosofiche né tanto meno velleità superomistiche.

Saba parla del dovere di acquisire la «chiarezza interiore», ossia la capacità di guardare la propria intimità in maniera schietta e diretta. Conoscere sé stessi è però un lavoro faticoso, che costa sacrifici, e la scrittura comporta quindi un impegno costante e denso.

L’incontro con la psicanalisi Per riuscire nel suo intento Saba utilizza, senza dichiararlo apertamente, gli strumenti della psicanalisi. I temi autobiografici del Canzoniere vengono infatti affrontati attraverso il filtro della teoria freudiana, cui l’autore si accosta inizialmente per ragioni di tipo terapeutico. Soffrendo fin dall’adolescenza di forti crisi depressive (nel 1929 scrive all’amico scrittore Alberto Carocci che ci sono giorni in cui non riesce né a mangiare né a dormire: «Tutte le forze distruttive della psiche si sono aperte un varco nella mia anima: e, per colmo di sventura, ho un’inibizione al suicidio, che sarebbe la sola soluzione logica a questo stato di cose»), si sottopone a una terapia psicanalitica con il dottor Edoardo Weiss (1889-1970), allievo di Freud e fondatore, nel 1932, della Società italiana di psicanalisi. La conoscenza di Freud conferma a Saba alcune intuizioni sull’importanza delle esperienze infantili nella formazione della personalità, e la psicanalisi gli appare di conseguenza un fondamentale strumento per la conoscenza dell’animo umano. Ma, come in Svevo, affiora anche in lui la sfiducia verso gli effetti terapeutici del trattamento e del ruolo che la stessa letteratura può avere nella cura della psiche. L’angoscia che pervade il poeta investe così anche la sua passione più grande: «M’è subentrata», scrive ancora a Carocci, «un’intima invincibile avversione alla letteratura. Essa non m’interessa più: e vorrei distruggere tutto quello che ho fatto».

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Un racconto di sé Particolarmente evidente è la presenza di alcune categorie freudiane – conscio/inconscio, divieto sociale, trasgressione della norma interiorizzata, rimozione – nel romanzo Ernesto. Si tratta di un libro-confessione (anche se scritto in terza persona, come del resto Storia e cronistoria del Canzoniere), in cui l’autore, ormai anziano, rievoca alcuni momenti significativi della propria adolescenza, forse per confrontarsi con quanto di irrisolto è ancora sepolto nel suo io più profondo.

Se nel Canzoniere si ha spesso l’impressione che certi temi siano affrontati per via indiretta o in modo allusivo, qui l’autore appare molto esplicito, mettendo da parte finzioni e autocensure e impiegando un linguaggio diretto ed estremamente realistico. Allo stesso tempo, il fatto che Saba si rifiuti di pubblicare il libro (che uscirà postumo nel 1975) testimonia di come molte questioni della sua vita psichica siano rimaste senza soluzione.

T2

La scoperta dell'eros

Ernesto

Ernesto, protagonista del romanzo, lavora come impiegato in un magazzino di granaglie. Nel brano che segue, tratto dalle pagine iniziali dell’opera, egli intrattiene una conversazione con un operaio più anziano, che nel corso del racconto lo condurrà a un’inattesa esperienza sessuale. Le battute del dialogo sono in dialetto triestino.

«Cossa el gà? El sè stanco?».1

«No. Son rabiado».2

«Con chi?».

«Col paron. Con quel strozin.3 Un fiorin e mezo per caricar e scaricar due cari».4

5      «El gà ragion lei».

Questo dialogo (che riporto, come i seguenti, in dialetto; un dialetto un pò5

ammorbidito e con l’ortografia il più possibile italianizzata, nella speranza che il

lettore – se questo racconto avrà mai un lettore – possa tradurlo da sé) si svolgeva

a Trieste, negli ultimissimi anni dell’Ottocento. Gli interlocutori erano un uomo

10    – un bracciante avventizio6 – ed un ragazzo. L’uomo era seduto su un mucchio

di sacchi di farina, in un magazzino di Via …… Portava in testa un grande fazzoletto 

rosso, che gli scendeva più giù delle spalle (questo per proteggere il collo

dallo strofinamento dei sacchi). Era un uomo giovane, sebbene apparisse – come

notava Ernesto – un pò stanco; ed il suo aspetto aveva qualcosa di lontanamente

15    zingaresco; ma di uno zingaresco molto attenuato, molto addomesticato. Ernesto

era un ragazzo di sedici anni, praticante di commercio in una ditta che comperava

farina dai grandi mulini dell’Ungheria, e la rivendeva ai fornai della città. Aveva i

capelli castani, riccioluti e leggeri, gli occhi color nocciola (come quelli di certi cani

barboni); camminava alquanto dinoccolato,7 con la grazia dell’adolescenza, che si

20    crede sgraziata, e si teme ridicola. In quel momento stava in piedi, appoggiato alla

porta aperta del magazzino, attendendo il ritorno del carro, che doveva arrivare

presto, con l’ultimo carico della giornata, e guardava l’uomo come se lo vedesse per

la prima volta, sebbene, per necessità di lavoro ed anche, un poco, per simpatia, lo

conoscesse e gli parlasse da mesi. L’uomo teneva la testa fra le mani; in attitudine

25    – come pensava Ernesto – affaticata; o – come diceva lui – arrabbiata.

«El gà ragion lei», ripetè Ernesto, «el paron sè proprio un strozin; anca mi8 lo

odio (ma, a guardar bene il ragazzo, pareva improbabile che egli potesse davvero

odiare qualcuno) e quando el me manda in piaza a ciamar9 un omo, e che el me

disi quanto che el vol spender, me sento venir mal. La ciamo sempre lei; ma gò

30    vergogna de offrirghe cussì poco. Sè el lavor che fazo meno volentieri de tuti».10

L’uomo si sciolse dalla sua posa concentrata e guardò con tenerezza Ernesto.

«So», disse, «che el sè bon.11 Se un giorno la diventerà, come che mi ghe auguro,

paron, no la traterà certo chi che lavorerà per lei come me trata mi el suo paron de

adesso. Un fiorin e mezo per tre cari», riprese, «e due omini soli. El se la suga (cava)

35    con poco quel ladro: nol sa cossa che vol dir sfadigar, spezialmente adesso che

scominzia el caldo. Due fiorini per omo saria ancora poco. Se no la ghe fussi lei,

che ghe parlo cussì volentieri, no vederio l’ora che rivi el caro, per finir la giornada

e distirarme12 in t’un leto».

Era una giornata della primavera inoltrata, e la via era piena di sole. Ma, dentro

40    il magazzino, faceva fresco, un fresco umido, che odorava di farina.

«Perché nol se senta?»,13 disse – dopo un breve silenzio – l’uomo. «El se acomodi 

qua (ed accennò un posto molto vicino al suo). Se la gà paura de sporcarse, ghe

distiro14 soto el mio sacheto (giacca)». E fece l’atto di prenderlo, perché, nell’attesa

del carro, si era già messo in maniche di camicia.

45    «No ghe sè bisogno», rispose Ernesto. «La farina no lassa sporco; basta una

spolverada e no se vedi più gnente. E pò ghe tegno poco15 che se vedi o no». Impedì

all’uomo di distendere, come voleva, la giacca, e sedette, con un sorriso, accanto a

lui. Anche l’uomo sorrise. Non pareva più né stanco, né arrabbiato.

«Dopo», disse, «se el permeti, ghe neterò mi».16 Stettero un poco in silenzio,

50    guardandosi.

«La sè un bon ragazo», ripetè l’uomo, «e anca», aggiunse, «bel. Cussì bel che sè

un piazer guardarla».

«Mi bel?», rise Ernesto. «Nissun me lo gà mai dito».17

«Gnanca18 sua mama?».

55    «Ela meno de tuti. No me ricordo che la me gabi mai dado un baso,19 né fata

una careza. La diseva sempre, e la disi ancora, che i fioi20 no bisogna viziarli».

«E a lei ghe gavessi piasso che sua mama la basi?».21

«Sì, quando che iero putel.22 Adeso no me importa più. Ma vorio almeno che

la me disessi qualche volta una bona parola».

60    «E no la ghe la disi mai?».

«No, mai», rispose Ernesto; «o assai de raro».

«Che pecà», disse l’uomo, «che sia cussì povero e cussì mal vestido».

«Perché?», chiese Ernesto.

«Perché, se no, me piasessi tanto diventar suo amico; andar qualche domenica

65    a spasso insieme».

«Gnanca mi», disse Ernesto, «son rico. El sa cossa che guadagno?».

«No. Ma lei la gà i genitori che, lori, i sarà richi… Quanto el guadagna?».

«Trenta corone al mese. E devo darghene venti a mia mama. Sè vero che ela

la me vesti (Ernesto portava degli abiti comperati fatti;23 forse – sebbene non lo

70    dicesse volentieri – gli sarebbe piaciuto vestir bene, come, un tempo, certi suoi

compagni di scuola); ma a mi me resta poco».

«Ma intanto la fa pratica».

«No me piasi far l’impiegato», rispose Ernesto; «me piaseria far tuto altro».24

«Cossa, per esempio?».

75    Il ragazzo non rispose alla domanda.

«E come el spendi le diese25 corone che ghe resta? El va de le done?».26 (Queste

ultime parole furono dette come se l’uomo avesse temuto una risposta affermativa).

«No. A le done no ghe penso ancora. Gò deciso de no pensarghe prima de

aver diciaoto-dicianove ani compidi». (Forse aveva dimenticato che, due anni prima, 

80    sua madre aveva dovuto licenziare una giovane serva, alla quale Ernesto dava

continuamente noia in cucina. D’allora la povera donna aveva assunto sempre,

per precauzione, delle domestiche vecchie, brutte, deformi: avrebbero formato una

vera collezione di mostri. Del resto, duravano poco: dopo uno o due mesi si licenziavano 

o venivano licenziate). «E lei», domandò, «el sè sposado?».

85    L’uomo rise. «Mi no», disse; «son puto.27 No me interessa le babe (donne)».

«Quanti ani el gà?», domandò ancora Ernesto.

«Vintioto… Mostro de più; no sè vero?».

«No so», rispose Ernesto. «Mi ghe ne gò sedici, presto diciasette. Fra un mese».

«Nol vol dirme cossa che el fa de le diese corone che ghe avanza?», insistè l’uomo.

90    «El sè ben curioso», rise Ernesto. «Quele fazo presto a spenderle: un poco in

paste, un poco in teatro. Vado in teatro quasi ogni domenica dopopranzo. Me piasi

assai le tragedie. Lei nol va mai in teatro?».

«Cossa el vol che vado a far in teatro? Son un povero bastardo (trovatello); un

ignorante, che sa apena leger e scriver el suo nome».

[…]

95    «Questo e altro ghe gò dito. El sè mato, ma no proprio cativo. Dopo el sciafo28

el me gà regalà un fiorin. Sè già tre ani che el me regala un fiorin ogni setimana; sta

domenica el me ne gà dadi due invece de uno. Forsi el iera pentido; e po, come che

ghe gò dito, el sè più mato che cativo».

«Quasi quasi», rise l’uomo, «ghe convegniria far una barufa29 ogni setimana».

100 «No me piasi le barufe. No per mi, ma per mia mama. La se fa venir ogni volta

mal. La ghe vol assai ben a suo fradel».

«Anca a lei la ghe vol ben; più de quanto che la credi. Come se fa a viverghe

vizin30 e a no volerghe ben?».

«Perché el me disi ste robe?».

105 L’uomo posò una mano sul dorso di quella che il ragazzo teneva distesa sul

sacco. Appariva turbato. «Pecà!», disse; e parve sorpreso e contento che il ragazzo

non avesse ritirato la mano.

«Pecà de cossa?».

«De quel che ghe gò dito prima. Che no podemo esser amici, andar a spasso

110 insieme».

«Per la diferenza de età?».

«No».

«Perché la sè mal vestido? Ghe gò già dito che de ste robe no me importa gnente. 

Anzi…».

115 L’uomo tacque a lungo. Pareva in conflitto con sé stesso: quasi volesse dire e

non dire qualcosa. Ernesto sentiva che la mano poggiata sulla sua tremava. Poi –

come chi arrischia il tutto per il tutto – disse all’improvviso, fissando bene il suo

interlocutore negli occhi, e con voce alterata: «Ma el sa cossa che vol dir per un

ragazo come lei diventar amico de un omo come mi? Perché, se nol lo sa ancora,

120 no son mi che voio insegnarghelo». Tacque di nuovo un momento; poi, visto che il

ragazzo era diventato rosso ed abbassava la testa, ma non ritirava la mano, aggiunse, 

quasi aggressivo: «El lo sa?».

Ernesto sciolse dalla stretta, che si era fatta più forte, la mano divenuta un pò

molle e sudata, e la posò timidamente sulla gamba dell’uomo. Risalì adagio, fino

125 a sfiorargli appena, e come per caso, il sesso. Poi alzò la testa. Sorrise luminoso, e

guardò l’uomo arditamente in faccia.

Questi sentì uno sbigottimento invaderlo. La saliva gli si era seccata in bocca, e

il cuore gli batteva a fargli male. Ma non seppe dire altro che un «El gà capì?» che

pareva rivolto più a sé stesso che al ragazzo.

130 Ci fu un lungo silenzio, che Ernesto interruppe per il primo.

«Gò capì», disse, «ma… dove?».

«Come dove?», rispose, trasognato, l’uomo. Ernesto pareva più sciolto di lui.

«Per far le robe che no se devi far», – disse, «no bisogna restar soli?».

«Certo», rispose l’uomo.

135 «E lei dove el volessi che restemo soli?», domandò, sottovoce, Ernesto, che aveva 

già perso un poco della sua baldanza.

«Stasera in campagna. Conosso un logo…».

«La sera no posso», disse il ragazzo.

«Perché? El va a dormir presto?».

140 «Magari podessi! Pico (casco) del sono. Invece me toca andar alle scole serali».

«E nol le pol saltar una sera?».

«No posso. Me compagna mia mama».

«La gà paura che nol vadi?».

«No credo; la sa che no ghe digo bugie. Ma la ciol31 el pretesto de compagnarme

145 per far un poco de moto. La vol che studio stenografia e tedesco; la disi sempre che

senza el tedesco no se pol far cariera… E po in campagna gaverio32 paura».

«Paura de mi?».

«No. No de lei».

«De cossa allora? Se la se vergogna de sti mii vestiti, posso meterme quei de le

150 feste».

«Podaria33 passar qualchidun e véderne».

«No in quel logo che so mi».

«Gaverio paura lo stesso… Perché no qua, in sto magazin?».

«Ma ghe sè sempre gente. E a venir insieme fora de ora (Ernesto aveva le chiavi

155 del magazzino, e l’uomo lo sapeva) se daria sospeto. Per disgrazia, el paron sta proprio 

de fazada.34 E sua moglie, che la sè più diavolo de lui, la sè sempre a la finestra».

«Nol pol cercar un pretesto? Far finta, per esempio, de aver dimenticà qualcossa? 

Mi, quando che gò de finir un lavor de premura, vegno in ufficio el dopopranzo

prima che sia l’ora de averzer:35 a le due invece che a le tre. Anche per questo el paron 

160 me lassa le ciave. Qualche volta resto solo più de un’ora; lei el poderia sempre

dir… Oh, ecco el caro!».

Nel quadrato della porta aperta si videro avanzare prima le teste, poi i corpi di

due robusti cavalli da tiro. Indi apparvero il carro ed il carrettiere a piedi, con le

redini e la frusta in mano. Prima ancora che i cavalli obbedissero all’ordine di fermarsi, 

165 un altro uomo, grosso questi e grasso, che era andato a fare il carico, discese

con un salto dai sacchi sui quali stava seduto, come un turco, a gambe incrociate,

e chiamò, in termini d’avvinazzato, il compagno.

«Parleremo dopo», disse l’uomo al ragazzo, in fretta e con voce roca. Si rimise

in testa il fazzoletto, di cui si era liberato durante il dialogo con Ernesto, e s’avviò

170 alla fatica che l’aspettava. Sotto, le gambe gli tremavano un poco.

 >> pagina 131 

Analisi ATTIVA

I contenuti tematici

In questo brano il narratore racconta il primo approccio dell’uomo (come lo chiama, senza indicarne mai il nome, in tutto il romanzo) al giovane Ernesto, figura che ha diversi tratti in comune con Saba stesso, a partire dal difficile rapporto con la madre e dall’assenza del padre. L’uomo, attratto da Ernesto, gli rivolge dei complimenti (La sè un bon ragazo […] e anca […] bel. Cussì bel che sè un piazer guardarla, rr. 51-52; Come se fa a viverghe vizin e a no volerghe ben, rr. 102-103), ma è anche preoccupato di non dichiarare troppo apertamente il proprio interesse nei suoi confronti per i diffusi pregiudizi verso gli omosessuali (Appariva turbato, r. 106; con voce alterata, r. 118). Per parte sua, Ernesto appare dapprima imbarazzato (il ragazzo era diventato rosso ed abbassava la testa, rr. 120-121); poi, superata l’esitazione, mostra spavalderia e audacia (Sorrise luminoso, e guardò l’uomo arditamente in faccia, rr. 125-126), tanto da suggerire all’altro il modo migliore per incontrarsi da soli.


1 Da quali atteggiamenti si intuiscono l’emozione e l’agitazione dell’uomo?


2 Da che cosa ti sembra che Ernesto sia spinto verso l’uomo? Motiva la tua risposta con opportuni riferimenti al brano.


3 Di che cosa si rammarica l’uomo con Ernesto? Perché?

 >> pagina 132 

Negli anni in cui viene scritta quest’opera l’omosessualità è oggetto di forte disapprovazione sociale, al punto che l’autore non ha la certezza che il libro venga pubblicato (se questo racconto avrà mai un lettore, r. 8). In una lettera, egli si riferisce a Ernesto con queste parole: «Quello che ho scritto è così bello, così incantevolmente bello». La frase è stata così commentata dallo scrittore Alberto Moravia: «In queste parole noi pensiamo che bisogna leggere piuttosto l’esaltazione di chi è riuscito a vincere se stesso e a debellare con la verità un antico tabù, che l’autocompiacimento ingenuo di un artista. Se la frase viene modificata così “quello che ho scritto è così vero, così coraggiosamente vero” le parole di Saba diventano oltre che più commoventi anche più significative. Diventano, cioè, una chiave per capire il libro».


4 Come vengono descritti fisicamente i due protagonisti del dialogo, l’uomo ed Ernesto?


5 Quale aspetto tipico dell’adolescenza viene sottolineato nella descrizione del ragazzo?


6 Dibattito in classe. Il romanzo breve Ernesto narra la storia di un’esperienza omosessuale e probabilmente anche per questo Saba si rifiutò di pubblicarlo. Ritieni che ancora oggi romanzi e racconti che tocchino quest’argomento siano da considerare scabrosi e scandalosi? Che cosa è cambiato, da allora? Confrontati con i compagni.

Le scelte stilistiche

Ambientato a Trieste, Ernesto è fortemente radicato nei luoghi e nell’epoca in cui si svolgono le vicende, e restituisce un ritratto realistico del mondo del lavoro e delle inquietudini politico-sociali che attraversano la città in quegli anni. Il ricorso al dialetto, soprattutto nei dialoghi, è coerente con un intento di resa fedele dell’atmosfera, sebbene non abbia soltanto una funzione realistica. Il realismo di Saba, infatti, non è di tipo mimetico o veristico; lo mostra la caratterizzazione di Ernesto, che per l’innocenza, la disponibilità e la libertà di cui dà prova – caratteristiche che risultano improbabili «in una città come Trieste alla fine dell’Ottocento e in un clima culturale fondamentalmente sessuofobico» (Gnerre) – rimane sostanzialmente fuori dalla Storia e dalla società.

Il dialetto è inoltre lo strumento grazie al quale Saba è riuscito a trattare argomenti considerati scabrosi e a superare il secolare tabù relativo alla rappresentazione letteraria dell’omosessualità. Esso assume quindi, in questo romanzo, non soltanto un forte sapore di autenticità, ma anche un profondo valore liberatorio.


7 Rintraccia nel testo i commenti del narratore a proposito del protagonista. In quali di questi è ravvisabile una certa ironia?

Volti e luoghi della letteratura - volume 3B
Volti e luoghi della letteratura - volume 3B
Dalla Prima guerra mondiale a oggi